Negli oggetti compresi in una collezione si addensano valori che trascendono il loro significato specifico e la loro storia particolare. Ecco perché per leggere una collezione è sempre necessario mettere in moto quello che lo storico Victor Soichita definisce un «ingranaggio intertestuale»1.
La natura del rapporto «intertestuale» che si instaura tra i diversi elementi che compongono una collezione è ciò che dobbiamo precisare meglio. Per farlo ci avvaliamo delle parole di Stoichita: «Ogni collezione presuppone un montaggio. Scegliere/mettere insieme (unico modo fatalmente ambivalente di tradurre il verbo colligere) sono le operazioni che presiedono la sua genesi. La collezione originata dalla selezione e dalla combinazione, la collezione in quanto discorso, dunque, si distingue dall’accumulazione indifferenziata, poiché viene accordata priorità assoluta all’azione dell’ordinare, del classificare. I criteri di classificazione possono andare incontro a modifiche ma non possono scomparire del tutto senza comportare l’annientamento della collezione in quanto tale. Quali che siano tali criteri, essi innescano un meccanismo seriale in seno al quale ogni elemento trova una relazione con l’insieme che lo contiene e che lo definisce»1.
Questo passo del libro dello storico rumeno chiarisce molti aspetti che stanno alla base della creazione, dell’organizzazione e della fruizione di una collezione, quale che sia la natura degli oggetti di cui è composta – quadri, bambole di pezza, farfalle, monete, figurine… Una collezione si forma raccogliendo, la raccolta non è però un’attività casuale e disordinata ma presuppone ricerca e selezione. Alla raccolta segue la classificazione, cioè l’imposizione di un ordine che, per quanto arbitrario, trasforma l’accumulazione indifferenziata di oggetti in un discorso. Quest’ordine si forma, si struttura attraverso una pratica di montaggio. Secondo il filosofo francese George Didi-Huberman il montaggio è una pratica ermeneutica, un’azione capace di estrarre senso anche dove non sembra possibile immaginarne uno. Attraverso il montaggio, immagini e oggetti possono essere messi in «risonanza» o in «dissonanza» «con altre fonti, altre immagini, altre testimonianze»; si può «mettere in movimento il molteplice», «non isolare nulla», «mettere in luce gli iati e le analogie, le indeterminazioni e sovradeterminazioni all’opera»2.
Così anche un oggetto compreso in una collezione, per essere letto deve essere messo in risonanza con gli oggetti che gli sono accanto, perché una collezione serve a tessere rapporti tra oggetti. Questa formidabile possibilità di creare collegamenti tra elementi distinti assume «valore di conoscenza»: presi singolarmente gli oggetti possono essere anche preziosi o significativi in se stessi, ma se inseriti nella dinamica di una collezione, se messi in movimento in un «ingranaggio intertestuale», assumono un senso altrimenti impossibile. Il montaggio, spiega Didi-Huberman, conduce a una «conoscenza delicata», una conoscenza, soprattutto, in cui gli elementi – siano immagini, oggetti o concetti – non sono messi tutti sullo stesso piano, in cui bisogna essere capaci di misurare, pesare, osservare ogni elemento con uno sguardo strabico, e in fondo paradossale: vedere l’oggetto per quello che è e, contemporaneamente, vederlo inscritto nel contesto o, per usare (non a caso) termini cinematografici, inquadrato in primo piano e insieme in campo lungo. Il montaggio permette quindi a chi guarda, collezionista o spettatore, di elaborare il senso, la storia e il destino di ogni singolo oggetto nel rapporto che instaura con gli altri oggetti compresi nella raccolta. Una relazione che non si esaurisce nella collezione ma che si estende anche fuori di essa, prolungandosi idealmente in altre collezioni, in altri racconti.
Il montaggio di una collezione produce quindi un racconto. La dimensione narrativa emerge sempre con forza ogni volta che ci si accosta a una collezione, grande o piccola che sia: in fondo non esiste collezionista che non muoia dalla voglia di raccontare – e raccontarsi – la storia di ogni singolo oggetto in suo possesso, e l’avventura di ogni acquisizione – un misto di ricerca e agnizione, pazienza e conquista, metodo e fortuna. Per questo, le vicende della costituzione di una collezione hanno spesso il respiro di un epos. La dimensione narrativa si esprime al suo massimo grado nel catalogo (sia stampato che orale). Con le parole di Victor Stoichita: «Nel caso di una collezione (di ogni collezione) ciò che la riflette e che in fin dei conti le conferisce coscienza di sé è il catalogo. Il catalogo è una specie di specchio; è, da un punto di vista intellettuale, qualcosa di più della collezione stessa e ha un grado di coesione e di coerenza che la collezione può conseguire se non nei sogni del collezionista. Il catalogo è il sogno di ogni collezione o, se si vuole, è la collezione come puro concetto. […] Il catalogo consiste nel dispiegare secondo un ordine (kata-logos). Nel kata-logos l’impulso strutturante prevale sull’impulso ripetitivo. Diversamente dall’inventario, strumento diacronico, il catalogo è un fatto sincronico. […] Qualunque insieme di oggetti può essere inventariato, ma una sola, limitata categoria consente (o richiede) il catalogo: la collezione»3.
La collezione esige dunque il catalogo, nel catalogo le connessioni che legano i singoli oggetti – il meccanismo interstestuale – diventano evidenti, operanti a un livello più raffinato della semplice impressione visiva. Nel catalogo la complessità della collezione non è ridotta a uno schema ma è invece messa in moto, dispiegata, e insieme spiegata nei dettagli.
«Proprietà e possesso – scrive Walter Benjamin – appartengono all’ambito del tatto, e sono in certo modo in opposizione all’otticità. I collezionisti sono persone dall’istinto tattile»4, grazie al catalogo una collezione di oggetti, di cose materiali, tattili, si trasforma anche in un fatto mentale, espandendone il perimetro e aumentandone di molto la potenzialità narrativa e filosofica.
[N]
1 Victor I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Traduzione di Benedetta Sforza. Il Saggiatore, Milano, 2013. p.110
2 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005. p. 153
3 Stoichita, Cit. p. 111
4 Walter Benjamin, I «passages» di Parigi. Edizione italiana a cura di Enrico Ganni. Einaudi, Torino 2000 e 2010. p. 216-217