Negli ultimi trent’anni la rivoluzione informatica ha compiuto un radicale processo trasformazione dello spazio pubblico e personale, modificando radicalmente le dinamiche relazionali tra i singoli e tra i gruppi, definendo nuovi modelli di socialità e di narrazione di sé. I dispositivi con cui produciamo e facciamo circolare le immagini diventano ogni giorno più solubili, corporei portando a uno stato di astrazione il nostro rapporto con la realtà e con noi stessi. Su questi temi riflette Pietro Montani nel libro Tecnologie della sensibilità, cercando di costruire una filosofia – e quindi una prassi – che consenta di comprendere e magari governare questi processi di trasformazione antropologica.
Montani descrive tre tipi di immaginazione: «riproduttiva (un discorso che conserva e richiama ciò che ha conservato), produttiva (un dispositivo che ricombina, integra, progetta e configura) e interattiva (un dispositivo che incide sulla modificazione dell’ambiente facendosi guidare da ciò che vi trova o da ciò che vi trova o proietta)»1. L’immaginazione è lo strumento con il quale definiamo, conosciamo, modifichiamo e rendiamo abitabile il nostro ambiente. Gli animali non umani non sono dotati di immaginazione. L’autore fa questo esempio: gli animali non umani non scorgono, non immaginano, nel ramo flessibile, la funzione “arco” e la potenzialità dello scagliare frecce. Pertanto «la profilatura che mette a fuoco nel ramo di oleandro la possibilità di trasformarsi in un arco, in altri termini, è un prodotto di immaginazione interattiva»2.
L’autore afferma che la sensibilità umana è naturalmente predisposta alla delega tecnica: «la sensibilità umana, in altri termini, è fatta in modo tale da prolungarsi spontaneamente in artefatti inorganici (protesi della sensibilità) senza, con questo, alterare la sua specificità»3. L’autore si chiede anche se ci sia «una soglia critica oltre la quale la delega tecnica […] rischia di esercitare un effetto di occultamento del carattere “misto” (un intreccio tra naturale e artefatto) […] » dentro la quale la sensibilità umana «esercita la sua attività».
Un eccesso di delega tecnica può affievolire la nostra capacità di immaginare, di produrre un dialogo con l’ambiente che ci circonda, dirottandola in «pratiche di carattere autoreferenziale»4 e subire i discorsi degli apparati che ci governano. Il superamento di questa soglia produrrebbe disturbi nella relazione tra la nostra sensibilità (all’ambiente), la nostra immaginazione (facoltà di interagire in modo creativo con l’ambiente) e il nostro linguaggio (capacità di relazionarci con l’ambiente) fino la limite di dissociare queste facoltà così interconnesse. Rischio che si intravvede nelle attuali prestazioni dei social network: ripetitivi, standardizzati, omologanti5.
Per recuperare (stimolare, eccitare, ampliare) la facoltà dell’immaginazione bisogna tornare a essere interattivi in senso pieno: per definire l’argomento l’autore utilizza la ricerca filosofica di Dewey «che pone al centro della riflessione l’interazione tra la peculiare sensibilità del corpo umano – pulsionalità, percezione, immaginazione, emozioni, senso del possibile, bisogno di condivisione – e ciò che questa sensibilità riceve, elabora e trasforma». L’ambiente che ci circonda però non è una «semplice materia da ordinare e mettere in forma (cognitivamente e operativamente)» ma è una «indeterminata e ricca molteplicità di stimoli da cui estrapolare di volta in volta le proprietà […] che fanno dell’ambiente reale un ambiente che appare disponibile proprio in quanto non è immediatamente sottomano ma oppone resistenza». L’ambiente quindi, stimola la nostra immaginazione proprio perché oppone resistenza, non solo «preserva ampie zone di irriducibilità all’azione organizzatrice»6.
Un eccesso di delega tecnica o di automazione comprime queste zone caotiche e trasforma la relazione con la complessità irriducibile del mondo a una prestazione autoreferenziale e senza imprevedibilità. Se la realtà non oppone resistenza non dobbiamo più utilizzare la nostra capacità di immaginazione (creatività) per superare gli ostacoli, risolvere i problemi, evolvere. Il progetto dei dispositivi tecnici è oggi largamente orientato in «direzione di un livellamento, di una contrazione e di una potente canalizzazione del sentire […], in una direzione prevalentemente anestetica»7. L’estensione della delega tecnica tende a comprimere la nostra esperienza immaginativa, azzerando sempre di più le zone di imprevedibilità, diventando an-estetica. La discussione sul nostro rapporto presente e futuro con le intelligenze artificiali investe precisamente questi problemi.
Montani dice che la tecnica, e l’esperienza ottimizzata che facciamo del mondo attraverso di essa, ci sta spingendo verso una sensibilità e una immaginazione non interattive ma ipomediali8. Per riattivare percorsi di senso altrimenti impossibili bisogna ritrovare auto-nomia, «vale a dire al facoltà di darsi da solo la regola della propria sensatezza, o più precisamente come manifestazione di una creatività capace di istituire in un modo originario un ambito normativo»9. Affermare la propria autonomia, come spettatori o come creativi, rispetto ai palinsesti precompilati serviti quotidianamente dalla macchina del consumo è per altro l’orizzonte, se non la soglia, in cui si sono mossi tanti protagonisti dell’arte del Novecento a partire da Duchamp e Schwitters, ed è anche ciò che molte pratiche artistiche contemporanee invitavo a fare.
[N]
1 Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014. p. 12
2 Ivi, p. 34. Allo stesso modo, è un prodotto di immaginazione interattiva coniugare o “montare” la forma e la funzione orinatoio a quella di fontana e generare un nuova forma, una nuova funzione, partendo da due informazioni divergenti.
3 Ivi, p. 35
4 Ivi, p. 36
5 Ivi, p. 36-37
6 Ivi, p. 40
7 Ivi, p. 44
8 Ivi, p. 48
9 Ivi, p. 53