Da sempre i muri sono il primo luogo in cui la “voce del popolo” si alza senza controllo e senza censura, nelle nostre città questa libera espressione si manifesta con scritte, graffiti, tag, manifesti abusivi. Come sappiamo, questi interventi sono sempre fuorilegge, non sono mai graditi dai proprietari dei muri (perché ogni muro ha un padrone) e vengono interpretati dalla maggioranza della cittadinanza come segni deturpanti, sollevando dibattiti sul decoro urbanoe veementi richieste da parte di associazioni di cittadini di buon gusto dell’intervento della polizia e della pulizia: secondini e imbianchini che a forza di far scattare manette e rullare colore sterilizzino lo spazio contaminato.
Sappiamo anche che il vero problema rappresentato da questi segni non è il “decoro” ma la messa in questione della proprietà dello spazio urbano perché pongono una domanda semplice ma mai espressa: di chi è la città? è del Comune? dei proprietari dei palazzi, degli immobiliaristi? delle agenzie di pubblicità che speculano sui muri? la città è privata o è di tutti, e quindi anche mia? Alessandro Dal Lago e Serena Giordano la spiegano così: «Il conflitto sul decoro urbano ci sembra tutto qui: da una parte la pretesa che a decidere sull’estetica urbana siano i detentori del potere, economico e politico, o i tutori dell’ordine; dall’altra il proliferare di messaggi alternativi, espressivi, critici che contestano di fatto questa pretesa»1.
Le nostre città sono una semplice somma di spazi privati, di recinti più o meno visibili, il cosiddetto “spazio pubblico”, lo spazio di tutti, di fatto non esiste, anche i giardini, le piazze sono espropriate e soggette al controllo: c’è sempre un guardiano, un vigile, una telecamera. Così, quando passeggio per la città, il mio sguardo – che dovrebbe essere uno strumento di inalienabile libertà – risulta imprigionato dalla privatizzazione dello spazio pubblico, ingabbiato in un orizzonte fatto solo di cancelli, muri imbiancati, telecamere di sorveglianza, pubblicità, divieti. Alla repressione dello sguardo si oppone l’inopportuno segno vandalico – un disegno, un’ingiuria, una dichiarazione d’amore: segno di libera espressione non richiesta che interferisce e disturba, che non ha la pretesa di essere estetico, cioè integrato alla logica della comunicazione e quindi dell’utilità ma che, anzi, è lì a offrirmi, proprio perché turba la mia acquiescenza, la possibilità di immaginare qualcosa di diverso tra le sbarre della gabbia urbana.
I graffiti esprimono questo conflitto, da una parte i detentori del potere e i tutori dell’ordine (che servono il potere) e dall’altra i cittadini (che siamo noi). Un regime che si rispetti, anche se democratico come il nostro, non può certo tollerare la libera espressione che viene dal basso e impone con ogni mezzo il proprio “regime estetico“ nello spazio che controlla. L’infrazione estetica è anche una disobbedienza culturale, è diserzione civile, è sabotaggio poetico e politico.
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1 Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata. Derive Approdi, Roma, 2018. p.11