Guardare non è semplicemente vedere perché il nostro sguardo crea l’immagine del mondo. Quest’immagine si produce con un vaglio, una selezione di tutti gli impulsi che riceviamo, con un’organizzazione degli stimoli, lo sguardo insomma è uno strumento per fare ordine nel caos, per porre una misura, una gerarchia, una distanza.
L’idea di uno sguardo capace di porre una distanza, è presente negli scritti di Aby Warburg (storico dell’arte di capitale importanza, che incontreremo ancora), già nei primi anni Venti del secolo scorso. Scrive Michele Cometa: «Tutta l’argomentazione degli appunti del 1923 è sorretta da un’idea che non solo accompagna Warburg sin dalle prime riflessioni ma che è ancora oggi alla base dell’antropologia filosofica: l’idea che l’Homo sapiens è l’animale che sa e deve porre una “distanza” tra sé e il mondo. Questo porre uno iato tra il pensiero e l’azione, tra l’emozione e la reazione, tra l’io e il mondo, è la sua vera chance di sopravvivenza. […] Porre una distanza tra sé e il mondo è non solo lo strumento primario dell’adattamento e della sopravvivenza – come Warburg sa dal confronto con Darwin – ma sta alla base della creazione del segno (verbale e visuale) che è ciò che caratterizza unicamente l’Homo sapiens. Quando Warburg scrive che l’uomo è “un animale manipolatore, la cui attività consiste nello stabilire connessioni e separazioni” allude proprio alla capacità di porre delle distanze tra l’io e il non-io. […] Per questo per Warburg l’esperienza delle immagini è connessa evolutivamente con lo sviluppo della tecnologia e dei media (la manipolazione di strumenti come caratteristica dell’Homo sapiens), e con la necessità biologica dell’esonero dall’oppressione del reale, attraverso pratiche di distanziazione del soggetto dall’oggetto, nonché la costruzione di una “fisiologia della memoria” che possa spiegare la trasmissione delle immagini attraverso spazi temporali vastissimi. Si tratta, come è facile intuire, di questioni che permeano la cultura visuale odierna e per altro la riproiettano su un piano che oggi viene implementato dalle ricerche delle neuroscienze e delle scienze cognitive»1.
Se lo sguardo pone una distanza tra noi e il mondo, permettendoci così di agire e di comprendere il mondo, le immagini sono lo strumento principale con cui compiamo questa operazione di organizzazione e quindi di pensiero. Produrre immagini significa pensare. Non è un caso che molte delle esperienze più importanti dell’arte del Novecento abbiano avuto come punto di innesco proprio la necessità di produrre pensieri sulle immagini, piuttosto che immagini, e per questo la storia di queste esperienze è molto interessante per chi produce immagini – quali che esse siano.
[N]
1 Michele Cometa, Cultura visuale. Una genealogia. Raffaello Cortina, Milano, 2020.
pp. 70-72