Sul montaggio

All’inizio degli anni Ottanta Vilém Flusser1 rileva l’importanza che le immagini hanno assunto nella nostra società: veicolo privilegiato per la formazione e la trasmissione delle informazioni attraverso le quali ci relazioniamo con il mondo, le immagini sono però sempre più prodotte in automatismi, in protocolli ottimizzati che sfuggono al nostro controllo e riducono la complessità della realtà, comprimendo quelle aree di imprevedibilità e caos che sappiamo essere, grazie alle analisi di Pietro Montani2, invece essenziali.

In queste zone di turbolenza, spazi irrisolti e conflittuali, noi possiamo esercitare la nostra immaginazione interattiva e scoprire nuove forme e nuove immagini. I protocolli ottimizzati che ci vengono giornalmente forniti circoscrivono, attutiscono e alla fine eliminano proprio quegli spazi dinamici (il rumore di fondo) entro i quali possiamo agire per scoprire nuovi percorsi di senso – tema più che mai attuale dopo l’ingresso così spettacolare di intelligenze non umane che generano immagini senza (apparente) intervento o controllo da parte dei creatori.

Il problema del nostro rapporto con questi automatismi sempre più potenti e imprevedibili è quanto mai attuale ma, come abbiamo visto, è un tema presente – e irrisolto – sin dall’inizio dell’”epoca della riproducibilità tecnica” delle immagini3.

Per cercare autonomia dentro a questo orizzonte sempre più saturo di immagini e tuttavia sempre più angusto, Montani suggerisce di ritrovare, attraverso la filosofia di Walter Benjamin, il fondamento e l’utilità della pratica del montaggio, di utilizzare cioè le immagini – e i discorsi che queste veicolano – in modo “critico”, personale ed eterodosso. Il montaggio diviene così un potente strumento, concettuale prima che tecnico, per attraversare e connettere le immagini a livello profondo.

Georges Didi-Huberman ci ha mostrato che per “comprendere occorre immaginare”4, sia per permettere al nostro sguardo di estrarre senso da immagini che altrimenti rimarrebbero indecifrabili, sia per scrivere una nuova storia grazie a delle immagini che pensiamo di conoscere. L’analisi di Didi-Huberman del lavoro di Aby Warburg illumina proprio questo specifico aspetto: ogni immagine chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte. Con l’atlante Mnemosyne, attraverso una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio visivo, Warburg trasforma il discorso dello storico – lineare, consolidato, rassicurante – in una esplorazione erratica e aperta.

Il montaggio è oggi lo strumento utilizzato dai designer e dagli artisti contemporanei per lavorare dentro a un mondo ormai saturo di oggetti e di immagini, in cui non sembra esserci più spazio per esercitare la nostra immaginazione. Un luogo comune dice: tutto è già stato inventato, tutto è già stato fatto, ma il montaggio ci assicura invece che tutto può essere re-inventato, ri-fatto, a condizione però che il processo di ri-pensamento avvenga in modo consapevole, tessendo dialoghi con i segni che si manipolano, in autonomia rispetto ai palinsesti precompilati o alle scorciatoie offerte dagli algoritmi, perché l’immaginazione è prima di tutto una forma di conoscenza che non ammette superficialità e disattenzione.

[N]

1 Vedi, Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009.

2 Vedi, Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014.

3 Vedi, Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa. Traduzione di Enrico Filippini. Einaudi, Torino, 1966.

4 Vedi, Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005.

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