La tecnologia non è uno strumento, ha da molto tempo superato il limite dello spazio sociale e culturale dentro cui aveva solo funzioni strumentali, finalizzate al raggiungimento di uno scopo preciso (sollevare, scavare, trasportare) assolto il quale cessava la sua utilità e rimaneva separata dal mondo. La tecnologia è oggi il mondo, dentro la tecnologia noi agiamo e pensiamo e non possiamo astrarci da essa perché non è possibile sottrarsi al proprio mondo – nessun animale può vivere al di fuori del proprio ecosistema e per noi, animali umani, la tecnologia è l’ecosistema. Questo ecosistema è costituito da strumenti, apparecchi, dispositivi; protocolli, procedure, azioni, il nostro agire “nella” tecnologia è di fatto un incessante emettere e ricevere una enorme e spesso inavvertita quantità di segnali, informazioni, dati e immagini; una quantità davvero strabiliante, addirittura inconcepibile di immagini ogni giorno.
Rispetto a chi ha vissuto in epoca premoderna il nostro ambiente visuale è enormemente ampliato e comprende immagini naturali, artificiali, mediali. In altri termini, possiamo dire che il nostro ambiente visuale è un’iconosfera cioè «la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano in un determinato contesto culturale, dalle tecnologie con cui esse vengono prodotte, elaborate, trasmesse e archiviate e dagli usi sociali di cui queste stesse immagini sono oggetto. Dagli anni Novanta […] con l’avvento di internet, la progressiva diffusione delle tecnologie digitali e il sempre più facile accesso a software e dispositivi per la produzione, riproduzione, manipolazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di immagini, il semplice numero delle immagini in circolazione è aumentato vertiginosamente, producendo un flusso iconico incessante – più volte descritto come bombardamento, cascata, proliferazione di immagini – che ha trasformato profondamente la nostra esperienza quotidiana. La rapida diffusione dei computer fissi e portatili; il lancio di programmi per l’elaborazione di immagini come Photoshop (la cui versione 1.0 compare nel 1990), di formati per la compressione di immagini fisse come il formato Jpeg (creato nel 1991-92) e di browser per la navigazione su internet come Netscape Navigator (1994) e Microsoft Internet Explorer (1995); la graduale convergenza di media precedentemente distinti dal punto di vista sia tecnologico (macchina fotografica, videocamera, cinepresa, schermo televisivo, schermo cinematografico, radio, telefono, macchina da scrivere, libro, giornale…) verso dispositivi multiuso caratterizzati da interfaccia semplici e intuitive: tutti questi fattori hanno fatto sí che un pubblico sempre più vasto fosse in grado di accedere a tecnologie capaci di produrre, elaborare e condividere immagini in modo rapido e immediato»1.
La complessità della nostra iconosfera è tale che nessuna immagine – e di fatto nessuna delle nostre altre attività2 – può essere più valutata per quello che è in se stessa, ma solo all’interno della rete di relazioni di cui è parte. Dunque anche le immagini che produciamo o consumiamo, per essere comprese, devono essere inserite nel loro contesto narrativo, nella dimensione relazionale di cui fanno parte, la nostra iconosfera è un intreccio, un luogo di transiti e sovrapposizioni, un rizoma direbbero Deleuze e Guattari.
La complessità e la stratificazione del nostro mondo visuale è tale che anche il nostro sguardo è stratificato, complesso, mutevole, si adatta ai contesti e si modifica in base alle rete di altre azioni a cui è connesso e, soprattutto, il nostro sguardo è specializzato: un medico ha uno sguardo completamente differente da quello di un sarto o di un grafico, se tutti costoro guardano, ad esempio, un corpo, il loro sguardo allenato e specializzato vedrà di questo corpo aspetti diversi invisibili agli altri. La questione è ulteriormente arricchita da fatto che ognuno di questi sguardi specializzati è ormai integrato (anche inconsciamente) a tutta una serie di protesi tecnologiche specifiche (una macchina per la risonanza magnetica, una fotocamera, un programma di modellizzazione, un algoritmo di simulazione somatica…) che ampliano enormemente e specializzano ancor di più lo spettro del visibile. Se il corpo che questi specialisti stanno guardando è il nostro ci rendiamo conto che allo sguardo umano, naturale che si posa su di noi si sovrappone anche uno sguardo macchinico, inumano e in qualche misura inconcepibile. Le macchine con cui guardiamo, a loro volta, ci rivolgono degli sguardi. Comprendere la qualità di questi sguardi non-umani su di noi e sul mondo è la sfida dell’attuale riflessione sulla natura della nostra iconosfera.
La riflessione sugli sguardi che le macchine ci rivolgono (satelliti e droni che ci osservano inosservati, videocamere di sorveglianza, macchine mediche, fotocamere dei device, tag sulle fotografie in cui appariamo inconsapevolmente, intelligenze artificiali che scrutano i nostri movimenti…) ripropone in modo del tutto nuovo un problema in verità antichissimo: il potere che le immagini esercitano su di noi.
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1 Andrea Pinotti, Antonio Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi. Einaudi, Torino, 2016. p.18
2 «Nella tarda modernità – scrive Massimo De Carolis – tutti i sistemi sociali – dalla politica all’economia o alla scienza – tendono a organizzarsi e comprendersi non più come sistemi d’azione, ma come sistemi di comunicazione. Ciò non vuol dire che si agisca o si produca meno che in passato. Il punto però è che ogni azione socialmente significativa è valutata di fatto come proposta comunicativa concernente l’intero aspetto del sistema in cui è inscritta: il prezzo, poniamo, per un singolo titolo azionario comunica una certa lettura dell’intero mercato, una singola opera d’arte ridefinisce a suo modo la distinzione generale fra ciò che è arte e ciò che non lo è, e così via. In altri termini, perquanto il contenuto materiale di un’azione possa essere del tutto diverso in un campo o in un altro, la crescente complessità sociale fa emergere via via, in tutti questi diversi settori sociali un aspetto formale che è sostanzialmente lo stesso: quello per cui, a parità di contenuti, il significato di una data azione dipende dal modo in cui essa riassume in sé la rete di altre azioni cui è connessa, offrendone una possibile rappresentazione». Massimo De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Bollati Boringhieri, Milano, 2004.