«Occorre notare – e questo è un tratto comune alle diverse espressioni di Dada – che i mezzi artistici, che allora sembravano rigorosamente definiti nella loro stessa natura, vi perdono poco a poco il loro valore specifico. Questi mezzi sono intercambiabili, si possono applicare a qualunque forma d’arte e, per estensione, si ricorre a materiali disprezzati o nobili, negazioni verbali o negativi fotografici, luoghi comuni, slogan pubblicitari, rifiuti buoni per la spazzatura, ecc, elementi eterocliti che, riuniti in una composizione creata con criteri nuovi, acquistano una coerenza imprevista, omogenea. È opportuno affiancare ai collages e agli oggetti di Max Ernst e di Schwitters, il caso di cui Marcel Duchamp ha fatto una fonte di creazione (i cocci di vetro per esempio) e i ready made, sovrapposizioni dell’apparenza sulla realtà delle cose, senza più bisogno del confronto con gli altri elementi per provare l’efficacia di un processo evolutivo nel significato di ogni immagine. Della stessa specie, i proverbi, i suoni, le parole apparenti, la sintassi frantumata, i brandelli di frasi e le pseudo-canzoni, sordide quanto imbecilli, che han servito da materia prima a Eluard, Aragon, Breton, Soupault, Arp, Piacabia, Ribemont-Dessaignes e agli altri poeti dada. La campagna per la svalutazione dell’opera d’arte e di poesia era in pieno fervore»1.
Tristan Tzara chiariva così l’attitudine dadaista verso il linguaggio, un atteggiamento di radicale rifiuto verso le limitazioni imposte dalle convenzioni che allora governavano la creatività. Per i dadaisti, i cui scopo è la sovversione, rifiutare le convenzioni significa, prima di tutto, negare la gerarchia intrinseca alle convenzioni, per loro non c’era differenza tra il linguaggio dell’accademia e quello della strada, tra le forme della storia e quelle della vita, tra ciò che è considerato bello e perciò buono e quello che è invece definito brutto e pertanto cattivo. Un’attitudine che oggi possiamo definire postmediale, in cui non esiste una definita gerarchia tra le forme e i linguaggi, in cui quello che conta nell’atto linguistico è il contesto in cui i segni vengono immessi e, soprattutto, la relazione che si riesce a instituire tra le diverse categorie di segni.
Se i mezzi artistici non sono “rigorosamente definiti nella loro stessa natura”, gli artisti e i poeti dadaisti – e tutti i creativi venuti dopo di loro – possono utilizzare qualsiasi mezzo e mettere le mani in una sterminata massa di segni e strumenti, Tzara indica con precisione quali sono le modalità per una simile operazione: agire attraverso dei montaggi, manipolando «elementi eterocliti che, riuniti in una composizione creata con criteri nuovi, acquistano una coerenza imprevista, omogenea». La strada, insomma, è segnata. Tutti i dispositivi linguistici messi a punto dopo la cesura dadaista hanno, nel corso del Novecento, alimentato questa possibilità di attraversamento e ridefinizione – collage, installazione, fotografia, happening, video e, oggi, tutti i dispositivi digitali, si fondano sulla possibilità di produrre prelievi e spostamenti da differenti ambienti di segni per produrre nuove costellazioni di senso.
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1 Tristan Tzara, Manifesti del dadaismo. Traduzione di Ornella Volta. Einaudi, Torino, 1964. p. 128