Dal Dadaisno al Situazionismo, dal punk alle prime forme di appropriazione controculturale dei nuovi spazi digitali fino alla pratica quotidiana di milioni di utenti, la bassa definizione è stata, ed è, una strategia politica e uno stile naturale di auto espressione (lo-fi, la bassa definizione, la grana grossa delle immagini, in opposizione all’alta definizione high-tech dei sistemi centralizzati).
Nello “stile” del web possiamo rintracciare tutti gli elementi che hanno attraversato le esperienze avanguardistiche del Novecento – prelievo e montaggio, processualità, performace – declinate in forme spesso inconsapevoli ma non per questo meno pregnanti. L’arte d’avanguardia è uscita da se stessa e in un certo senso ha avverato la propria profezia, quella cioè di trovare un modo in cui arte e vita potessero finalmente ricongiungersi e da linguaggio èlitario, autoconsapevole e spesso autocompiaciuto, da sistema complesso di forme e rimandi che assumeva la propria storia e analizzava se stesso in modi spesso autoreferenziali, è diventata una specie di dialetto globale, un esperanto con cui miliardi di utenti conversano tra loro.
È un linguaggio che si fonda sulla manipolazione, la trasformazione e la processualità rizomatica, e il ready-made ne è l’elemento di base, detto diversamente, lo stile del web è il merzare continuo degli elementi linguistici che fluttuano nel grande mare digitale. Una circolazione acefala e una disseminazione che avviene spesso per una sorta di incontrollabile contagio. In effetti secondo l’antropologo e linguista Dan Sperber “le idee nascono e si propagano nelle popolazioni per contagio, stabilizzandosi in tradizioni, rituali, codici”1. Un virus? No, un meme!
Con le parole di Valentina Tanni: «Mai come prima tutta la storia delle immagini si mostra sotto ai nostri occhi come in un continuo presente. Scaricabile, modificabile e remixabile. Le immagini si fondono con quelle del presente, le storie di oggi vengono narrate applicando schemi narrativi antichi e viceversa. […] È un gioco serio a cui tutti partecipiamo, giorno dopo giorno, usando gli elementi culturali del presente e del passato come mattoncini in una costruzione che smonta e rimonta se stessa incessantemente. La circolazione dei contenuti si è fatta talmente frenetica da indurre critici e giornalisti a servirsi di aggettivi mutati dalla biologia: contenuti virali, mind virus, media “contagiosi”… ma soprattutto, a emergere è un riferimento in particolare: quello a una popolare teoria scientifica nata negli anni settanta nel contesto della travolgente impennata della ricerca genetica – la cosiddetta “memetica”. La memetica postula l’esistenza, accanto ai “geni”, di entità chiamate “meme” che svolgono la stessa funzione dei geni per l’evoluzione biologica, ma in un contesto culturale. Il termine, coniato da Richard Dawkins nel suo controverso saggio Il gene egoista (1976) e poi ripreso da Susan Blackmore in The Meme Machine (1999), viene descritto come un “virus della mente”, sottolineando la sua capacità di replicarsi e di attecchire nell’immaginario collettivo: “Proprio come i geni si propagano nel pool genetico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i meme si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione (Dawkins)»2.
I contenuti, le immagini si diffondono “saltando di cervello in cervello”, è un tipo di circolazione incontrollabile e a tratti incomprensibile, specifica ancora Tanni: «Non contenuti “infetti” dunque ma dotati di un potenziale specifico: l’alto grado di “condivisibilità”, una specie particolare di appeal, risultato di una concomitanza di fattori non sempre facili da individuare e spiegare. La dinamica più interessante – soprattutto per chi, come gli artisti [o i grafici] si occupa quotidianamente di immagini – non riguarda dunque tanto il numero delle condivisioni di un determinato contenuto, quanto semmai le metamorfosi che tale contenuto subisce lungo la via»3.
Ed è appunto questa possibilità metamorfica, trasformativa dell’immagine – per millenni consegnata a un’unica forma, depositata nei contorni precisi del suo apparire –, ad essere il lascito più interessante, più fecondo di tutte le esperienze “processuali” delle avanguardie storiche. L’immagine è viva e non cessa mai di trasformarsi “saltando di cervello in cervello”. Oppure detto con le parole utilizzate nel 1919 da Kurk Schwitters: «L’artista crea attraverso la scelta, la disposizione e la deformazione dei materiali. […] Questo processo si accentua ulteriormente nel dividere, storcere, coprire, ridipingere»4. Oggi, dopo cento anni di arte post-dada, possiamo chiosare dicendo: questo processo non si conclude mai.
[N]
1 Dan Sperber, Il contagio delle idee. Teoria Naturalistica della Cultura. Traduzione di Gloria Origgi. Feltrinelli, Milano 1999.
2 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. pp. 67-68
3 Ivi. p. 69
4 Riga n. 29. Kurt Schwitters, a cura di Elio Grazioli. Marcos y Marcos, Milano, 2009. p. 23