Collezione come arte

Prelevare e montare elementi eterogenei – siano oggetti, immagini, parole, suoni, comportamenti o citazioni – per metterli in risonanza reciproca significa instaurare un dialogo con quelle forme pre-moderne di relazione con il mondo incentrate sull’attività ancestrale della collezione. La pratica creativa contemporanea non si risolve mai nella forma di un unico oggetto, anzi si esprime piuttosto nella costante creazione di nessi, link e relazioni tra gli oggetti, soggetti e segni. Se l’opera d’arte non è più un oggetto finito e compiuto in se stesso siamo costretti a dare una nuova risposta alla solita domanda: che cos’è un’opera d’arte? Rispondendo a questa domanda possiamo, per estensione, comprendere come funziona ogni attività creativa nel nostro presente postmoderno.

Per cercare questa risposta ci affidiamo alle parole di Boris Groys: «La risposta che le pratiche artistiche contemporanee offrono in merito a questo argomento è semplice: l’opera d’arte è un oggetto esposto. L’oggetto non esposto non è un’opera d’arte. […] L’unità elementare dell’arte oggi non è più l’opera d’arte in quanto oggetto, ma uno spazio dell’arte in cui sono esposti alcuni oggetti, lo spazio di una mostra, di un’installazione. L’arte odierna non è la somma di cose particolari ma la topologia di cose particolari. L’installazione stabilisce quindi una forma d’arte estremamente vorace che assimila tutte le altre forme d’arte tradizionali: pittura, disegno, fotografia, testi, ready-made, film e registrazioni. Tutti questi oggetti vengono organizzati da un artista o da un curatore, secondo un ordine che è totalmente privato, personale e soggettivo. Così, l’artista o il curatore hanno la possibilità di mostrare pubblicamente il proprio privato, la loro strategia di selezione dominante»1.

Per semplificare: un’installazione, con cui un artista mette in pratica la propria «strategia di selezione dominante» presenta gli stessi caratteri che deve avere una collezione secondo la definizione data da Pomian. Gli oggetti, o le immagini o i suoni, prelevati e compresi in una installazione sono «mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori dal circuito delle attività economiche»: l’orinatoio di Duchamp, archetipo di ogni prelievo, presenta innanzitutto questo tratto, è un oggetto che ha smesso di funzionare, non è più un utensile ma è un semioforo, importante per il suo significato. Gli oggetti devono essere «soggetti a una protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo»: una galleria, un museo, una rivista, un evento – cioè la cornice istituzionale, lo spazio dell’arte di cui parla Groys, entro cui una installazione può darsi come forma d’arte, come discorso e non come semplice accozzaglia di cose. E infine, gli oggetti prelevati, selezionati devono essere «esposti allo sguardo del pubblico» che per comprenderli deve mettere in moto proprio quel meccanismo intertestuale necessario per lèggere ogni collezione.

Il pubblico deve quindi interagire con una installazione – ma anche con quadro contemporaneo che, secondo Boris Groys è «una installazione ridotta a una singola immagine» attraverso un lavoro di montaggio o, per dirla con Benjamin, dovrà «assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale. […] Cogliere la costruzione della storia in quanto tale nella struttura del commentario. […] Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto»2.

Se all’artista dunque è assegnato il compito di produrre delle forme allo spettatore è sempre assegnata la responsabilità di metterle in movimento innescando un meccanismo intertestuale, di riempirle di significato e di esperienza perché il senso di ogni opera non è intrinseco, già definito, dato ma deve essere ogni volta creato nell’esperienza che dell’opera si fa.

Su questi presupposti – montaggio, dialettica, relazione – si fondano le collezioni, gli atlanti, le raccolte, i repertori di cui è ricca l’arte contemporanea, possiamo affermare che molti artisti sono oggi, a tutti gli effetti, dei collezionisti e che la collezione è, come ha scritto, Elio Grazioli, una forma d’arte3.

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1 Boris Groys, Art Power. Traduzione di Anna Simone. Postmediabooks, Milano, 2012. p.106

2 Benjamin: «La prima cosa di questo cammino sarà assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale. Rompere, dunque, con il volgare naturalismo storico. Cogliere la costruzione della storia in quanto tale nella struttura del commentario. […] Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto». Walter Benjamin, Sul concetto di storia. Traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti. Einaudi, Torino, 1997. p. 116

3 Elio Grazioli, La collezione come forma d’arte. Johan & Levi Editore, Milano, 2012.

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