Walter Benjamin era un collezionista (di libri prima e di citazioni poi), sull’importanza di questa sua passione e sui riverberi che ha avuto sul suo pensiero, di come in effetti per il filosofo tedesco collezionare fosse una forma di pensiero e insieme una pratica di azione politica ha scritto pagine illuminanti Hannah Arendt, un aspetto poco sondato ma molto attuale, che è utile comprendere meglio.
Benjamin, spiega Arendt, «scoprì che la trasmissibilità del passato era stata sostituita dalla sua citabilità»1. L’oggetto inserito in una collezione ha perduto, secondo Benjamin, oltre che la sua autorità anche il suo valore d’uso e, siccome il collezionismo può applicarsi a qualsiasi «oggetto in quanto cosa» la perdita di funzione sposta l’accento sul «suo valore intrinseco». Così l’atteggiamento del collezionista diventa, per Benjamin, «affine a quello del rivoluzionario. Al pari del rivoluzionario, il collezionista “si trasferisce idealmente, non solo in un mondo remoto nello spazio e nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili”. Il collezionismo rappresenta la redenzione delle cose, che deve fungere da complemento alla redenzione dell’uomo». Il collezionista, scrive Arendt citando Benjamin, si trasforma inaspettatamente in un «distruttore» che combina alla fedeltà «all’oggetto a ciò che è singolo, a ciò che in esso è salvo, la protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico, classificabile».
In Benjamin il collezionismo ha dunque ben altro spessore di quello che siamo abituati a conferirgli – passatempo, ostentazione, ossessione – e assume i contorni di una presa di posizione generale rispetto al tempo o, potremmo dire, rispetto ai suoi tempi, in cui la società e la politica si stavano irrimediabilmente irrigidendo dentro a un’esiziale idea di autorità come emanazione dalla tradizione.
Collezionare diventa in Benjamin un atto politico rivoluzionario che destruttura il principio di realtà: ciò che diamo per scontato e percepiamo come un fatto naturale. La realtà è una costruzione che risponde sempre a una precisa ideologia, quella stessa ideologia che assegna ordine e valore agli oggetti (per alcuni la discarica, per altri il museo) e, oltre a questo, stabilisce cosa sia giusto o sbagliato, vero o falso, legale o illegale, ecc. Collezionare significa quindi mettere in crisi l’ordine dei valori che riceviamo dall’alto e che diamo per scontati.
La dimensione politica è un aspetto poco evidenziato negli studi dedicati al collezionismo, sempre attenti a problemi di ordine storico, estetico, filologico o psicologico, tuttavia è una questione è centrale. Nel secolo in cui la modernità trionfa e, per così dire, si impossessa della storia, l’Europa è attraversata anche da forti correnti anti-moderne o che propongono una diversa modernità, differenziale e antiprogressista rintracciabili nell’opera di grandi intellettuali che nello stesso periodo di Benjamin – tra gli anni Venti e Trenta – cercano di opporsi all’inesorabile precipitare del continente nel fascismo. La strategia decostruttiva della storia intesa come destino messa in opera da Benjamin attraverso la collezione (di libri, di citazioni) fiorisce anche nella breve e veemente stagione dadaista e più in generale, e in modo più organico e consapevole, in tutto il surrealismo, e viene declinata in modo diverso e sorprendentemente affine nel Mnemosyne, l’atlante di immagini di Aby Warburg.
Ed è su queste trame che l’idea di collezione – o la collezione come idea – riannoda il proprio discorso all’arte contemporanea, o postmoderna, diventando un tema non eludibile. L’arte, o quello che comunemente intendiamo quando ci riferiamo all’arte, si è fin dal Rinascimento «cristallizata» (la definizione è di Hans Belting2), su un insieme di pratiche che rappresentano il mondo: il quadro e la scultura per intenderci, ma anche il suono prodotto con strumenti, il movimento codificato in forme, la parola regolata dalla metrica, cioè su un fare che traduce la complessità del modo in un linguaggio. Un linguaggio rigidamente normato che esclude tutti quegli oggetti che, seppure strani o eccezionali, possono essere semplicemente raccolti, oggetti che non sono prodotti o creati e che nel corso dei secoli hanno trovato posto solamente nei gabinetti di curiosità, nelle collezioni di meraviglie, nelle Wunderkammern.
All’inizio del Novecento, i movimenti intellettuali che cercavano dentro alla modernità trionfante modelli alternativi di pensiero e di azione artistica, hanno riscoperto il valore e la forza rivoluzionaria di prassi concettuali e formali pre-moderne.
In arte, la strategia dadaista – Tzara, Duchamp, Schwitters e compagni – del prelievo e della presentazione come alternativa alla rappresentazione simbolica, ha significato l’apertura di una serie di possibilità completamente inedite. Il ready-made si produce in effetti grazie a una specie di stupore (Duchamp parlava di un «appuntamento» con l’oggetto3, una sorta di agnizione, simile alla «bellezza convulsiva» scatenata dall’incontro con il reperto teorizzata da Breton4) che trova una stupefacente simmetria negli atteggiamenti descritti da Pomian che hanno spinto i nostri antenati a prelevare e collezionare frammenti «stupefacenti» di mondo.
[N]
1 Secondo Arendt per Benjamin il rapporto con la storia e la tradizione si era irrimediabilmente spezzato. Per lui il ritorno alla tradizione, tedesca o europea o ebraica era impossibile: «Alla tradizione il collezionista oppone il criterio dell’autenticità; alla norma il segno dell’origine». Hannah Arendt, Walter Benjamin. A cura di Federico Ferrari. Traduzione di Marzia De Franceschi. Se, Milano, 2004. p.64 a seguire.
2 Hans Belting, Antropologia delle immagini. Traduzione di Salvatore Incardona. Carocci, Roma, 2011. p. 27
3 Marcel Duchamp, Scritti. A cura di Michel Sanouillet. Traduzione di Maria Rosaria D’Angelo. Abscondita, Milano, 2005. pp. 165-166
4 Breton, L’amour fou, p. 9 e 15