«A differenza del kitsch il camp può essere identificato, per quanto possano valere queste formule approssimative, come “cattivo gusto consapevole”, “buon gusto del cattivo gusto” o, in riferimento, al kitsch come “kitsch redento”, “sublimazione del kitsch”: laddove il kitsch non pone una distanza tra le proprie intenzioni e i propri risultati, il camp elabora una messa in scena del cattivo gusto unendo compiacimento e ironia, un’operazione di dichiarata manipolazione»1.
Il camp è quindi la ripresa e l’elaborazione estetica consapevole di una pratica inconsapevole, all’adesione acritica alle forme prodotte dalla “macchina del kitsch” corrisponde un’appropriazione e una rilettura sofisticata di quelle stesse forme. Avviene uno spostamento di qualità e soprattutto di contesto, per sintetizzare: dalle bancarelle stipate di paccottiglia alla boutique, dall’anonimato alla griffe (sia Dolce&Gabbana o Jeff Koons). Il camp quindi esiste in questi continui spostamenti di contesto e di senso, nelle metamorfosi, spesso incontrollate, delle estetiche operati nell’ambito della cultura popolare, per questo motivo è davvero difficile operare distinzioni nette.
Molto spesso gli oggetti rimangono invariati, eppure risultano trasformati: i pantaloni di leopardo restano pantaloni di leopardo, eppure il modo, il contesto, lo stile generale di chi li indossa ne determina la qualità. Il camp è forse allora definibile più come una modalità di comportamento, un atteggiamento. Un atteggiamento ben sintetizzato da Patrick Maurìes nel suo “Secondo manifesto camp”: «…il camp mette tutto tra virgolette. Non una lampada, ma una “lampada”; un una donna ma una “donna”, ecc.»2.
Due annotazioni: il camp si pone quindi come un’operazione di presa di distanza consapevole dal kitsch, una distanza che è molto spesso, ancora una volta, un giudizio: il camp è sostanzialmente l’attività di un’élite culturale che adotta (giudicando) modelli estetici e insieme pratiche di vita considerati “inferiori”, operando una specie di “elevazione”, attraverso uno spostamento che è di senso, di contesto e soprattutto di valore economico: il vero fattore discriminante.
La seconda annotazione di carattere più generale: per questa “operazione di dichiarata manipolazione” nel contesto dei segni – quali che siano questi “segni” – è necessaria una presa di distanza, una decodificazione e un’elaborazione concettuale che consenta una nuova struttura di “senso”, in altre parole: un montaggio.
[N]
1 Andrea Mecacci, Il Kitsch. Il Mulino, Bologna, 2014. pp. 135-136
2 Riga 27 PopCamp. A cura di Fabio Cleto. Marcos Y Marcos, Milano, 2008. Volume secondo. p. 396