Produrre immagini significa mettere una distanza tra sé e il mondo ma cosa succede dentro a questa distanza? Ogni distanza produce alterità: ciò che è lontano viene isolato e definito, ritagliato dal contesto e individualizzato; ogni alterità genera soggettività e questa soggettività si esprime in una agentività; una agentività spesso incomprensibile ma che esiste davanti a noi, malgrado noi. E così anche con le immagini, su cui depositiamo il nostro sguardo, sperimentiamo una paradossale agentività, a volte perturbante.
La storia dell’arte è affollata da immagini che esplicitamente si rivolgono a noi, intercettano il nostro sguardo e ci impongono una reazione diretta, facciamo due semplici esempi per comprendere meglio di cosa parliamo: il mito classico di Medusa dipinto da Caravaggio che simula la superficie dello scudo specchiante su cui si è pietrificata l’immagine della furia che minaccia Perseo, il quadro mostra ciò che vede il soggetto rappresentato, cioè se stesso, e insieme ci rimanda il nostro sguardo pietrificato con il soggetto; e poi la celebre immagine dello Zio Sam che punta il dito e dice i want you, instaurando un rapporto preciso, stringente e ineludibile con chi guarda, un vero e proprio comando. Due esempi lontanissimi ma che giocano entrambi sul piano perturbante con immagini che esplicitamente ci guardano mentre le guardiamo, il filosofo Horst Bredekamp definisce questo passaggio “atto iconico”.
«Da qui si può tentare – scrive Bredekamp – una definizione di atto iconico. In parallelo con l’atto linguistico, la problematica dell’atto iconico consiste nell’individuare la forza che consente all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza all’efficacia dell’esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero e del comportamento. In tal senso, l’efficacia dell’atto iconico va intesa sul piano percettivo, del pensiero e del comportamento come qualcosa che scaturisce sia dalla forza dell’immagine stessa sia dalla relazione interattiva di colui che guarda, tocca, ascolta»1.
Dentro l’immagine sembra agitarsi una presenza viva, questo misterioso rapporto che a volte instauriamo con le immagini ha una storia profondissima, addirittura ancestrale, e fin dall’antichità le immagini hanno esercitato un potere inesplicabile sugli osservatori. La forza d’attrazione che le immagini esercitano su di noi è stato molto studiato in anni recenti e quasi sempre a partire dall’essenziale testo di David Freedberg, Il potere delle immagini, che alla fine degli anni Ottanta compie la prima grande ricognizione (con uno sguardo non da storico o da esteta) sul rapporto che instauriamo con il mondo rappresentato. L’autore traccia un quadro affascinante di tutti quei momenti in cui nella millenaria relazione con le immagini gli uomini e le donne scorgono in esse una presenza viva e con questa instaurano una qualche forma di relazione.
È nel rapporto sempre ambivalente con potere che scaturisce dalle immagini che nascono anche le forme di iconofilia e feticismo – adorate una effige o pagare 100 milioni per un quadro –, alle forme speculari di iconoclastia – distruggere la statua del dittatore che si è appena deposto o l’effige del dio che non si adora o più semplicemente strappare la fotografia della persona che ci ha traditi. Questi atti, che siano azioni sociali, collettive o semplici gesti personali consumati nel chiuso della propria intimità, dimostrano il potere che le immagini esercitano su di noi, la loro distruzione fisica è anche una distruzione simbolica e il tentativo di sottrarsi all’influsso che nostro malgrado esse esercitano: «è perfettamente chiaro – scrive Freedberg – che una quantità indefinita di aggressioni alle immagini, se non la grande maggioranza, si fonda in un modo o nell’altro sull’attribuzione alla figura rappresentata di funzioni vitali, o sull’ipotesi correlata che il segno sia effettivamente il significato, che l’immagine sia il prototipo, che l’onta arrecata all’immagine non si trasferisca semplicemente al prototipo, ma di fatto lo danneggi. Il corollario evidentemente è che reagiamo alle immagini come se fossero vive, reali»2.
NOTE
1 Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico. A cura di Federico Vercellone, traduzione di Simone Buttazzi. Raffaello Cortina, Milano, 2015. p. 37
2 David Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico. Traduzione di Giovanna Perini. Einaudi, Torino, 2009. p. 601