Viviamo in un mondo in cui le immagini proliferano e si moltiplicano a un ritmo sempre maggiore, in un intreccio vertiginoso e inestricabile di medium vecchi e nuovi. Internet, la storia dell’arte, la televisione, la carta stampata, gli scenari urbani, le produzioni personali e sommerse… tutto si mescola e sovrappone creando un universo in continua trasformazione in cui non sembra possibile individuare gerarchie e punti di origine: l‘iconosfera contemporanea si presenta come un’immensa periferia priva di un centro d’attrazione e, conseguentemente, di parametri di orientamento e di giudizio. Non è una novità, la storia dell’arte moderna racconta proprio di questa progressiva “perdita del centro”1 e della caduta dell’idea di specificità mediale, l’idea cioè che ogni media fosse dotato qualità intrinseche e originali.
Alessandro Del Puppo nota come «Il modernismo aveva giudicato e valutato un’opera all’interno della tradizione codificata del medium specifico, che forniva tutte le possibili risorse di sperimentazione e giudizio. La fotografia e il redy-made misero in crisi questo modello. I vari medium non sembravano consentire più criteri di valutazione interna. La crisi divenne irreversibile con lo sviluppo delle immagini tecnologiche, avviando un’èra «postmediale» […]: dietro ogni immagine, c’è sempre un’altra immagine. Essa poteva derivare dalle fonti della tradizione pittorica, oppure dal fumetto, dalla réclame o dal cinema […]. Ogni immagine era mediata dalla riproduzione. Ciò che contava era la coscienza di questo fatto»2.
Anche oggi, ciò che conta è la coscienza che “dietro ogni immagine, c’è sempre un’altra immagine”: il lavoro “creativo” consiste dunque nell’elaborazione consapevole di questo “dietro” dell’immagine. L’assunzione degli intrecci e delle sovrapposizioni che stanno dietro e dentro a ogni immagine può, come abbiamo già notato, avvenire solamente attraverso un’attività di montaggio capace di restituire l’immagine al processo – alla “fenomenologia” – da cui è scaturita.
[N]
1 “Perdita del centro” è il titolo di un celebre libro di Hans Sedlmayr in cui lo storico sostiene la tesi che la perdita del “centro” e quindi l’esplosione dei linguaggi contemporanei, non sia semplicemente linguistica, ma ontologica: Il centro perduto è “spirituale”. Così, priva di un centro l’arte, e più in generale, la cultura del Novecento è attraversata da tensioni contrastanti, a volte divergenti, che producono, secondo Sedlmayr, quei “mostri della Ragione impazzita” tipici del mondo contemporaneo1.
2 Alessandro Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo novecento. p. 122