La cultura dei graffiti – termine impreciso e rifiutato da tutti i suoi autori che preferiscono definirsi writer – comincia ad emergere alla fine degli anni Settanta e dall’universo underground si impone sulla scena mondiale durante gli anni Ottanta. I graffiti non sono nati come una pratica estetica né tantomeno artistica ma come una prassi sociale, come espressione di un gruppo, di una tribù urbana. Nelle scritte, nei tag che cominciano ad apparire nei muri delle metropoli statunitensi ed europee manca prima di tutto l’affermazione di una soggettività intesa in senso classico. L’espressione del sé avviene seguendo strategie differenti. Nel libro “Graffiti, poetiche della rivolta”, riprendendo le parole dei filosofi Deleuze e Guattari, Marcello Faletra afferma: «scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare […]: più che a un “io penso” queste linee di fuga – le lettere – sono un “io senso”»1. Un’idea di affermazione che è anche una pratica di sovversione perché, con il suo essere anti-sistematica, anti-espressiva, erratica e auto-riflessiva (e fondamentalmente antagonista e vandalica) mette in discussione, prima di tutto, il linguaggio socialmente condiviso che ci viene imposto dai sistemi di potere e quindi mina la «comunicazione codificata»2 volta sempre a trasmettere un contenuto dotato di senso. I graffiti – e le azioni creative che si svolgono nella scena urbana – sono strategie anti-comunicative, tattiche di sovversione dello spazio (integralmente codificato, controllato, lottizzato) che infiltrano elementi di critica e disordine di chiara matrice situazionista (e quindi dadaista) e interrompono il flusso controllato e unidirezionale della comunicazione massmediatica – dall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal produttore al consumatore – con un controflusso che dal basso torna al basso, dalla periferia si ramifica in modo rizomatico nella periferia stessa e si rivolge a un consumatore che è lo stesso produttore.
Le strategie writing sono squisitamente ornamentali, se con ornamento si intende la creazione di pattern in movimento continuo e autogenerativo: ramificazioni, sovrapposizioni, sdoppiamenti e specchiamenti. Una dinamica in cui si produce un avvilupparsi di linee e forme che ha come esito quello di condurre alla perdita di funzionalità e funzione della forma comunicativa trascinando la forma stessa – cioè la scritta, per antonomasia comunicazione pura – nell’astrazione. Su questo punto il writing riallaccia (più o meno consapevolmente, non importa) il proprio discorso formale con la tradizione millenaria della decorazione, fatta di motivi intrecciati in pattern astratti e, nei suoi fondamenti, di un horror vacui capace di affievolire ogni idea di identità isolabile e identificabile. Questo comporta anche l’impossibilità di applicare norme estetiche razionali e valori generati a priori, palinsesti concettuali da cui far discendere la forma, poiché essa – la forma – si genera da sé, per «morfogenesi»3 e modificazione continua dello stato della materia, in questo caso linguistico-figurativa.
Quella funzione di mediazione, che abbiamo visto essere centrale nella filosofia dell’ornamento, si trova quindi declinata in modo tanto nuovo quanto paradossale: non si tratta più di mediare tra forma e contenuto, tra significato e significante, quanto di disgiungere la forma dai contenuti, i significati dai significanti, scoprendo, in questa disgiunzione, uno spazio di libertà altrimenti inagibile.
«La cosa interessante – scrive Faletra – è che spesso le lettere dei writer sono illeggibili, indecifrabili a un primo approccio. Che cosa significa questo? Innanzitutto che il significante è libero, non subordinato al significato, al senso, al referente. La lettera, benché leggibile ad una attenta visione […] per esistere a pieno titolo, non ha bisogno del messaggio»4. Una abdicazione dalla funzione comunicativa che permette alla forma di esprimere null’altro che se stessa e liberare quell’energia autogenerata, grafica e squisitamente decorativa di cui si è detto.
[N]
1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmediabooks, Milano, 2015. p. 44.
2 Ivi, p. 40.
3 Ivi, p. 59.
4 Ivi, p. 74.