Vilém Flusser, filosofo e critico dei media, ha dedicato un breve e denso libro alla fotografia, non un esame su estetica, storia o contesto ma una riflessione sulla filosofia della fotografia, su ciò che è sotteso e muove (sebbene non sempre percepito o compreso) la pratica quotidiana di ogni persona che tiene tra le mani un apparecchio fotografico, sia una reflex professionale sia uno smartphone. L’autore comincia il suo percorso cercando di capire meglio che cos’è la “macchina fotografica”, cioè lo strumento potente e sofisticato, frapposto tra il nostro sguardo e il mondo, da cui scaturisce il processo stesso. Nella società preindustriale – spiega Flusser –, l’uomo utilizza “utensili”, cioè prolungamenti del corpo; con gli utensili informa l’oggetto attraverso il “lavoro”, il risultato si chiama “opera”. Nella società industriale, gli utensili incorporano la scienza e diventano “macchine”, il rapporto con l’uomo si capovolge, prima l’utensile era la variabile e l’uomo la costante, poi l’uomo diviene la variabile e la macchina la costante.
Poi ci nono sono gli “apparecchi”: «La categoria fondamentale della società industriale è il lavoro: strappando oggetti dalla natura e informandoli, modificando cioè il mondo, utensili e macchine eseguono un lavoro. Gli apparecchi però non lavorano in questo senso. Il loro intento non è trasformare il mondo, ma trasformare il significato del modo. La loro intenzione è simbolica. […] Il fotografo non lavora in senso industriale, ma qualcosa pur sempre fa: produce, elabora, immagazzina simboli»1.
La “natura” degli apparecchi è tale da imporre una analisi più approfondita: «La critica tradizionale, proveniente dal mondo industriale, non è purtroppo adeguata al fenomeno degli apparecchi. Essa non tiene conto dell’essenza degli apparecchi, ovvero della loro automaticità. E precisamente questo dev’essere criticato. Gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, ovvero in modo autonomo rispetto a futuri interventi umani. Questa è l’intenzione che li ha creati: disinserire l’uomo da essi. E questo intento ha avuto successo. Mentre l’uomo è sempre più spesso disinserito, i programmi degli apparecchi, questi testardi giochi di combinazioni, si arricchiscono sempre più di elementi; sono sempre più veloci nelle loro combinazioni e superano la capacità dell’uomo di comprenderne le intenzioni e di controllarli. Chiunque abbia a che fare con apparecchi, ha a che fare con “black box” che non può comprendere»2.
Flusser pubblica il suo libro nel 1983 e oggi, a quarant’anni di distanza, in un presente governato da apparecchi che funzionano automaticamente anticipando i nostri comandi ed eludendo la nostra comprensione, capiamo quanto la sua analisi abbia colto nel segno. Ma Flusser non è un filosofo apocalittico, in chiusura del suo testo riflette possibilità di sfuggire all’automatismo degli apparecchi attraverso il pensiero: «La libertà è la strategia per sottomettere caso e necessità all’intenzione umana. Libertà significa giocare contro l’apparecchio. […] La filosofia della fotografia deve rivelare che nell’ambito degli apparecchi automatici, programmati e programmanti non vi è posto per la libertà umana, per mostrare infine come comunque sia possibile aprire uno spazio alla libertà. La filosofia della fotografia ha il compito di riflettere su questa possibilità della libertà – e dunque del conferimento di senso – in un mondo governato dagli apparecchi; di riflettere su come l’uomo possa, nonostante tutto, dare un senso alla propria vita di fronte alla necessità contingente della morte. Una filosofia è necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa»3.
[N]
1 Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia. Traduzione di Chantal Marazia. Bruno Mondadrori, Milano 2006. p. 27.
2 Ivi, p. 99.
3 Ivi, pp. 109-111.