Ogni discussione sul fenomeno del writing, o sulla street art (almeno di quella nella sua fase aurorale o di quella non istituzionalizzata), comincia e finisce con analisi di tipo antropologico, cercando di comprendere quali siano le forze che si agitano nelle periferie e quale “disagio” sociale, economico, culturale possa produrre una tale forma di “degrado” estetico. Tali discussioni, per la maggior parte pretestuose e ideologiche, fondate su pregiudizi classisti e travisamenti di ordine storico ed estetico, sono soprattutto discussioni che avvengono dall’interno del “legame sociale”.
Secondo Marcello Faletra, tutte le azioni estetiche che si producono “sulla strada”, sfuggono o sono “in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono”: «Nella sua opera maggiore, L’institution immaginaire de la societé, Cornélius Castoriadis dimostra in che misura l’immaginario sociale istituisce e arriva a coagulare il legame sociale. All’origine della sua indagine vi è il seguente interrogativo: com’è possibile la formazione di un ordine sociale coerente – regole, rappresentazioni sociali, religioni – e dall’altro le motivazioni e le condotte degli individui, spesso contraddittorie o in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono? Per Castroriadis la chiave di questo problema risiede nell’immaginario. La società si istituisce a partire dalla creazione di immagini sociali, che legano gli uomini e danno senso alle loro azioni. La religione, le ideologie o le utopie politiche, i fenomeni culturali ed estetici, forniscono credenze comuni che strutturano il legame sociale, sono significati immaginari, che istituendosi come norma fanno nascere nelle loro periferie il “resto” non socializzato, il “residuo” marginalizzato, l’altro»1.
Ecco allora che l’analisi e la comprensione dei fenomeni che sono “in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono” devono essere guardati – anche e soprattutto – a partire dal luogo in cui si sviluppano, incorporando nello sguardo «il “resto” non socializzato, il “residuo” marginalizzato, l’altro». Pratica quantomai complessa e rischiosa, poiché il nostro “sguardo” incorpora la nostra conoscenza e, con essa, i nostri pregiudizi.
Lo sguardo, come spiega Alessandro Dal Lago, non è mai neutro, né innocente: «Definisco lo sguardo come un sistema culturale di giudizio efficace. Sistema, perché si tratta di qualcosa di relativamente organico, dato che ha il compito di sintetizzare la nostra visione, facendone qualcosa di coerente e sopportabile. Capace di giudizio efficace, perché noi non ci limitiamo ad assistere agli eventi ma esercitiamo la pretesa più o meno consapevole di valutarli, e quindi di influenzarli. Lo sguardo non è dunque un mero apparato percettivo, come se fosse una sorta di otturatore culturale, ma un sistema di interpretazione attivo, che contiene fin da principio gli elementi essenziali di una grammatica e di una sintassi dell’azione (e dell’inazione). Diversi elementi contribuiscono a configurare lo sguardo. Pregiudizi, stratificazioni culturali, modelli cognitivi a disposizione, informazioni selettive, nonché quelle strane entità che sociologi e antropologi chiamano “valori”, ma che io chiamerei più che altro retoriche prevalenti in una cultura. Noi crediamo di vedere e giudicare con i nostri occhi, e in realtà guardiamo con i paraocchi che la nostra cultura elabora e modifica incessantemente»2. [Carnefici e spettatori. p.67]
[N]
1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmedia Books, Milano, 2015. p.108.
2 Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà. Cortina, Milano, 2012. p.67.