1. Allan Kaprow
Allievo di John Cage, influenzato dalle forme derivate dall’interazione casuale di elementi diversi e dalle pratiche aperte di matrice orientale del maestro, l’artista americano Allan Kaprow interpreta e formalizza teoricamente la pratica dell’Happening. Kaprow parte dall’estetica cumulativa e vitalista degli assemblaggi New-Dada per compiere quel passaggio che dall’environment, la costruzione di ambienti, installazioni immersive (che hanno, come sappiamo, il loro archetipo nel Merzbau di Schwitters1) porta all’happening2, – letteralmente accadimenti – la costruzione di situazioni in cui l’arte coincide con l’esperienza che si compie, portando alle estreme conseguenze l’idea di fusione tra arte e vita.
«Gli environment – scrive l’artista – hanno incorporato subito l’idea di cambiamenti interni durante la loro presentazione. I normali spettatori sono diventati partecipanti attivi di questi cambiamenti. Qui la tradizionale nozione dell’artista creatore individuale (il genio) è sospesa a favore di un tentativo collettivo (il gruppo sociale come artista). L’arte è diventata variabile come il tempo. Ma gli environment non sono stati concepiti solo per integrare gli spettatori nel lavoro; essi dovevano immergersi il più possibile negli spazi reali e nei contesti sociali in cui erano collocati. Dovevano uscire dal troppo chiuso contesto dell’arte (studi, gallerie, musei) per immergersi nella natura e nella vita urbana. Ma a questo punto si sono trasformati in happening»3.
Happening
L’happening è una pratica in bilico tra teatro e performance in cui, in una cornice debole, con una bassa possibilità di controllo da parte dell’artista, il pubblico da spettatore diventa parte attiva, protagonista senza copione di situazioni (spesso stravaganti e liberatorie) che sovvertono i rapporti sociali e le logiche precostituite dei comportamenti. Nell’happening la dimensione dell’esperienza si dilata e diventa il vero centro dell’opera, il pubblico non si trova più in una dimensione separata e contemplativa e l’artista rinuncia al secolare potere di creatore individuale ed esclusivo. Nell’happening i diversi linguaggi artistici si fondono e le tradizionali distinzioni tra arti visive, musica, teatro, video, poesia, ecc. diventano irrilevanti. È una dimensione che abbandona ogni specificità mediale portando la pratica dell’arte fuori dal linguaggio e dentro la realtà.
La pratica dell’Happening si sviluppa negli Stati Uniti e in Europa a partire dall’inizio degli anni Sessanta attraversando tutti gli anni Settanta diventando il lessico di base delle tendenze di matrice processuale (dall’Antiform a Fluxus e all’Arte Povera, dall’Azionismo al Situazionismo, fino alle escursioni della Land art). È un’espressione dello spirito di quegli anni, in cui la necessità di liberare le energie creative imbrigliate dalla società (capitalista, borghese, benpensante, patriarcale, ecc.) si fonde con le istanze di una più generale rivoluzione politica e culturale.
Pur nelle differenze di approccio e negli esiti formali a volte molto distanti c’è nelle esperienze di quegli anni un’identica necessità di verificare la vita attraverso l’arte: spesso,l’opera diventa l’azione che la genera e lo spettatore ha il compito di continuare, attraverso la propria esperienza, il processo generativo dell’opera stessa. Procedere creando eventi, situazioni, ambienti in cui l’opera e l’esperienza estetica si creano a partire da un insieme di relazioni empiriche e indeterminate – in cui i materiali, come le sensazioni sono costantemente trasformati in processi di partecipazione diretta – significa cercare un’arte in cui il mondo non è rappresentato ma vissuto. Una differenza da cui scaturisce una visione che rifiuta qualsiasi forma e verità prodotta in anticipo (ogni dogma e ogni credo) e che fa della conoscenza del reale diretta e non mediata da poteri esterni uno strumento di autocoscienza, di riscoperta poetica della vita e insieme di azione politica.
Fluxus
In questa temperie si sviluppano le tendenze processuali e antiformali che abbiamo visto declinate a partire dagli anni Sessanta nell’Antiform di Morris e compagni e nel Situazionismo di Debord e Constant. Possiamo inscrivere in questo generale surriscaldamento delle pratiche artistiche anche il movimento Fluxus4.
Obiettivo dichiarato di Fluxus è quello di far cadere ogni divisione tra le diverse forme di espressione. Nell’esperienza Fluxus teatro e danza, musica e arti visive debordano dalle cornici in un processo libero e aperto, in cui lo spettatore è chiamato in causa con un livello di coinvolgimento totale. Fluxus si presenta come un movimento in cui si materializzano tutte le tensioni culturali anticapitaliste e antiborghesi, antitecniciste e antiaccademiche di quegli anni. Fluxus parla di contaminazione, promiscuità, impermanenza dei legami linguistici e sociali. Gli oggetti estetici che produce, quando ne produce, non sono che resti, residui di eventi, accadimenti. L’opera d’arte Fluxus è una forma organica, ludica, irrazionale, poetica, incoercibile e anarchica; è la manifestazione di un evento e rappresenta per artisti e spettatori la possibilità di epifanie e scoperte altrimenti impossibili. Come nel Situazionismo gioco, spreco, inutilità, aleatorietà sono elementi che si oppongono prima di tutto alla logica capitalista del profitto, della mercificazione di ogni aspetto della vita e alla conseguente riduzione dell’esperienza in prodotto. L’Happening è naturalmente l’espressione preferita negli ambienti Fluxus e il Festival è la sua cornice naturale (il festival è, per altro, il contesto tipico per tante espressioni della controcultura del ventennio rivoluzionario).
Fluxus è una sensibilità e insieme un movimento artistico: come movimento vero e proprio nasce a New York e si coagula attorno alla figura di George Maciunas, artista americano di origine lituana, autore del manifesto programmatico. Nel 1962 a Wiesbaden in Germania, Maciunas da vita al primo festival Fluxus assieme a Nam June Paik, Wolf Vostell e altri. Il movimento trova aderenti tra le due sponde dell’oceano: tra gli Stati Uniti e l’Europa s’intesse un ricco scambio di esperienze e invenzioni. Tra gli esponenti di spicco del panorama americano ci sono Yoko Ono, Allan Kaprow e John Cage il grande precursore e innovatore a cui Fluxus e più in generale le avanguardie del secondo dopoguerra devono molte delle idee più innovative.
Il manifesto Fluxus di George Maciunas teorizza un’arte senza teoria, senza opere e senza artisti(evidente il debito con il dadaismo), consegnata al fluire del tempo, improvvisa ed effimera. La figura dell’artista abdica al controllo sui processi creativi e rifiuta il proprio potere di autore. Per questo, gli esponenti del movimento trovano nelle forme dell’happening e della performance gli strumenti più adeguati per esprimersi. Anche le arti visive, intese nel senso più tradizionale, perdono di pesantezza e staticità e cercano modelli creativi aperti e fluidi (soprattutto mail art e installazione).
John Cage e Merce Cunningham sono il motore americano del movimento, nelle loro creazioni vengono destrutturati i linguaggi classici della musica e della danza: le gabbie semantiche vengono divelte, i movimenti dei ballerini si sciolgono nei gesti quotidiani e i suoni partecipano al brusio del mondo. Nam June Paik presta attenzione a quello che circonda ogni cittadino occidentale: l’esperienza quotidiana dei mezzi d’informazione – con i suoi codici, i suoi schemi e schermi, il suo potere. Molte delle opere di Paik – considerate antesignane dell’odierna videoarte – sono lavori in cui l’immagine elettronica viene elaborata e distorta così da sabotare il flusso pervasivo di informazione che il sistema globale di comunicazione riversa ogni istante su ogni persona. La rete spettacolare e invisibile che imprigiona la verità della vita viene mostrata, resa evidente, smascherata.
L’approccio di Yoko Ono alle tematiche Fluxus fonde intuizioni surrealiste e richiami alla filosofia. Ono è autrice di performance (nella celebre Cut piece, invita il pubblico a tagliare i suoi vestiti fino a spogliarla rimanendo perfettamente impassibile) o di scritti (surreali istruzioni con cui invitava i lettori a compiere piccoli gesti poetici) di installazioni e video che trovavano nel semplice accadere la loro ragione d’essere: una specie di perfetta coincidenza tra i fatti dell’arte e i fatti della vita . Il francese Ben Vautrier sfoga la sua furia antiartistica e anarchica in un lavoro frenetico e bulimico di chiara derivazione dadaista. Vautrier inizia la propria attività creativa firmando qualsiasi cosa, con appropriazioni sistematiche di oggetti prelevati dalla realtà. E proprio la realtà diventa il teatro in cui si muove l’artista secondo cui (in perfetto stile Fluxus) non c’è distinzione tra arte e vita. L’opera diventa totale, onnicomprensiva, intrisa di una forza iconoclasta, irriverente e sbruffona e di un vitalismo sincero e contagioso.
Joseph Beyus
Attivo nell’ambiente Fluxus è anche l’artista tedesco Joseph Beyus: grande sciamano, creatore di performance sospese tra simbolismo romantico e azione diretta, in cui l’agire politico e il pensare poetico sono la medesima cosa. Il lavoro di Beyus contiene e trascende lo spirito Fluxus e più in generale l’anima di quegli anni e non smette di interrogare il nostro presente. La sua stessa biografia sprigiona un fascino inusitato. Arruolato in aviazione partecipa alla guerra, nel 1943, durante una battaglia il suo aereo viene abbattuto dai russi e precipita in una zona isolata della Crimea durante una tormenta di neve. Viene trovato morente da una tribù di tartari che per salvarlo dall’assideramento lo cospargono di grasso e lo avvolgono in coperte di feltro. Feltro e grasso saranno elementi che ricorreranno nella sua opera e ai quali legherà una profonda simbologia con la vita, la rinascita, la natura, l’energia, il calore. Il calore è l’elemento chiave dell’opera di Beyus, inteso come energia capace di riattivare quei processi vitali – umani, sociali, culturali, ecologici – irrigiditi, congelati e alienati dalla tecnica.
Dopo la guerra Beyus insegna arte ed è molto attivo politicamente, durante i movimenti studenteschi del 1968 partecipa a un’esperienza Fluxus nella sua scuola: verrà espulso nel ‘69. Sono gli anni della contestazione5 e il binomio arte-vita – la necessità di un rapporto più stretto, in cui arte e vita si confondono – è sempre al centro del dibattito. Per Beyus, come per tutti gli artisti della sua generazione, non c’è distinzione tra azione artistica e azione politica, tra rivoluzione estetica e rivoluzione sociale, tra superamento della tradizione culturale e distruzione della società classista. Beyus osserva il rapporto tra l’uomo contemporaneo e la natura, tra l’individuo e il contesto sociale in cui vive. Le sue installazioni e azioni hanno sempre un chiaro valore simbolico: sono rituali che tentano di riattivare le connessioni profonde e perdute tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, tra realtà e processi mentali, tra arte e vita.
La performance che ha reso celebre Beyus è l’esemplare “Come spiegate i quadri a una lepre morta”, inscenata a Dusseldorf nel 1965. In quell’occasione l’artista si presenta al pubblico con il folto coperto da una maschera d’oro, «il piede destro poggia su una suola di acciaio alla quale quale si sovrappone, coincidendo, un’altra suola di feltro. Dei microfoni nascosti nelle due ossa e nella suola trasmettono le frasi – incomprensibili – che l’artista mormora a quella lepre morta, amorosamente tenuta in braccio e cullata. […] “La lepre – spiega Beyus – ha un rapporto diretto con la nascita… Per me la lepre è simbolo di incarnazione. La lepre fa in realtà quello che l’uomo può solo fare mentalmente: scava dentro, scava una costruzione. Si incarna nella terra. […] L’idea della spiegazione a un animale conferisce un senso di segretezza del mondo e di esistenza che colpiscono proprio l’immaginazione. Allora anche un animale morto può avere più potere di intuizione di alcune situazioni umane di cocciuta razionalità. […] Il problema è nella parola comprensione e nei suoi molti livelli che non possono essere limitati all’analisi razionale”. Comprensione contro spiegazione, dunque»6. La performance quindi mette in scena un diverso approccio alla conoscenza, raggiunta non attraverso la “cocciuta razionalità” moderna ma grazie a una rivelazione, a un sentire. Un mettersi in ascolto che ha molto a che fare con la dolcezza e la cura (la lepre morta cullata dolcemente, le frasi bisbigliate come una ninnananna) e con la dimensione religiosa (l’iconografia della “pietà”, la foglia d’orata sul volto, il brusio che è come una preghiera, tutto rimanda a immagini di fede). In questo modo Beyus, proprio come uno sciamano, cerca di entrare in contatto con la dimensione trascendente sopita nell’anima occidentale. Un rito in cui l’arte, la più sofisticata costruzione della cultura occidentale (l’artista, ricordiamo, spiega la pittura alla lepre morta), abbandona il gelo della tecnica e torna con calore ad immergersi nel mistero della vita e della morte toccando la propria origine ancestrale, colmando finalmente il distacco tra l’arte e la vita.
Beyus è «intento a connettere diversità, di saperi e modi di sentire, nella prospettiva di una palingenesi sociale, attingendo non a una estetica della forma, che lui ripudia, ma all’estetica romantica delle potenze grandiose e elementari del cielo e della terra»7. Ecco allora che il dialogo serrato con una natura ancora non piegata agli interessi capitalistici, emerge in molte delle sue performance. La più nota è quella che lo vede nel 1974 dividere lo spazio di una galleria americana con un coyote selvaggio. In quel luogo angusto e definito, l’artista cerca di instaurare un legame intimo con un animale non addomesticabile e, per estensione, con lo spirito profondo e non corrotto dell’America. È un’azione che ha anche chiari intenti di protesta politica: Beyus si rivolge all’anima profonda degli Stati Uniti e dimostra il suo dissenso verso la politica imperialista del governo americano impegnato nella guerra in Vietnam.
Beyus si considerava uno scultore sociale, il suo progetto era quello di modellare forme nuove di socialità, di cambiare la vita attraverso l’azione artistica. Piantare alberi, pulire strade, parlare con il pubblico per ore sono le forme concrete della sua azione poetica che ha come scopo preciso quello di agire nella coscienza del pubblico per innescare un percorso di conoscenza e cambiamento. In Beyus poesia e politica, etica ed estetica, verità e bellezza sono perfettamente coincidenti.
Mail art
Mail art: un network globale – in deciso anticipo sul nostro network globale reso possibile dall’informatica – in cui artisti di tutto il mondo si scambiano manufatti e informazioni senza alcuna mediazione da parte del sistema dell’arte (gallerie, mercanti, collezionisti, critici). In quegli anni gli artisti usando la posta possono, a costi molto contenuti, entrare in contatto con un grande numero di persone, scambiarsi disegni e piccoli oggetti, intessere relazioni. Progressivamente lo scambio diventa sistematico e interessa migliaia di persone di ogni paese e si trasforma in una nuova forma culturale. La mail art rappresenta la conquista da parte dell’arte dello spazio reale della vita, è un’arte che si sottrae alla logica del mercato e fa della comunicazione tra soggetti il suo motore. È un’arte povera, che consiste in lettere e cartoline scambiate senza lucro dai partecipanti al network; è democratica perché ogni persona può accedere alla rete; è contagiosa, libera, aperta e informale. È una forma d’arte che tende a eliminare la figura dell’autore e a lambire i territori dell’attivismo politico intransigente quanto quelli dell’hobbismo più scanzonato.
Stewart Home in Assalto alla cultura scrive: «Negli anni Sessanta, mentre molti cultural workers stavano lasciando la produzione di oggetti d’arte per l’agitazione politica violenta, altri entravano nei reami della non-arte. Fluxus è l’esempio più noto e più emblematico di questa tendenza. La mail art (arte postale) poté svilupparsi grazie al clima liberamente creato dall’assalto dei fluxworker alla cultura egemonica. Anzi, il network della mail art conta molti esponenti Fluxus tra i suoi primi partecipanti. Anche se Ray Johnson, considerato da molti il padre fondatore della mail art, non entrò mai in Fluxus, il suo lavoro è – esteticamente parlando – molto vicino a quello del gruppo»8.
[N]
1 «Schwitters fu anche uno scrittore e un attore e ottenne grande successo leggendo le sue poesie. […] È quindi abbastanza naturale che egli abbia pensato anche al teatro. […] A proposito della “composita opera d’arte Merz” o Teatro Merz, Schwitters scrisse: “In contrasto col dramma o l’opera tutte le parti del lavoro teatrale Merz sono inseparabilmente unite: il teatro Merz non può essere scritto, letto o ascoltato, ma soltanto realizzato scenicamente. […] Il teatro Merz conosce soltanto la fusione di tutti gli elementi dell’opera in un tutto composto“. Come si vede il brano di Schwitters sembra descrivere certi aspetti degli happening e l’attività dell’artista, che pure non ha mai prodotto un esempio concreto di Teatro Merz, resta a documentare il progredire della pittura verso il collage, l’environment e lo happening». Michael Kirby, Happening. Traduzione di Anna Piva. De Donato, Bari, 1968. p. 31.
2 «Uno dei numeri dell’annata 1959 della rivista letteraria “Anthologist” […] presentava un articolo di Allan Kaprow, che allora insegnava storia dell’arte all’università, ed era intitolato Il Demiurgo. Verso la fine di un breve saggio in cui veniva sottolineata la necessità per un artista di creare qualcosa di completamente nuovo […] Kaprow aveva inserito uno scritto che poteva a prima vista esser preso per un lungo poema. L’intestazione del brano diceva “Qualcosa deve succedere: un accadimento”, e si riferiva al “copione” di una rappresentazione abbastanza insolita. In questa occasione la parola happening venne con ogni probabilità applicata per la prima volta a una forma di teatro». Ivi, p. 82.
3 Kaprow citato da Francesco Poli in AAVV, Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi. Mondadori Electa, Milano, 2008. p. 104.
4 «Fluxus nasce a New York, a Manhattan, nel quartiere mitico della città bassa: SoHo. Nasce dalla conoscenza e dall’amicizia tra persone con vari interessi professionali e artistici – dalla musica alla letteratura, dal teatro alla danza, dalle arti visive ai nuovi media […]. Secondo Peter Frank il 1958 è “l’anno cruciale”», perché nell’estate di quell’anno si incontrano per la prima volta Allan Kaprow, Dick Higgins, Jackson McLow, Richard Maxfield, Al Hansen e George Brecht: tutti allievi di John Cage alla New York School [..]. La New York della fine degli anni Cinquanta e dell’inizio degli anni Sessanta è eccitante, attiva ed è un centro artistico impegnato, pieno di artisti e autori di varie professioni. […] Un territorio bollente, invaso dalla libertà artistica e da un costante susseguirsi di mostre, di performance, di eventi, di teatro, di happening, tra cui alcune delle prime performance più vicine a Fluxus: quella di La Monte Young, nel dicembre del 1960, e quella di Yoko Ono, nel gennaio del 1962. La galleria A/G viene fondata nel 1961 dai due lituani George Maciunas e Almius Salcius e diventa il centro dove si radunano gli artisti favorevoli ai fluxus-events. Nella ex classe di John Cage Maciunas ha conosciuto La Monte Young e, attraverso di lui, anche Yoko Ono». Biliana Tomic, Annotazioni su Fluxus. In Achille Bonito Oliva, (a cura di) Le tribù dell’arte. Skira, Milano, 2001. pp. 230-2301.
5 Gli anni Sessanta segnano l’emergere e il deflagrare dei conflitti sociali cresciuti in seno alla modernità. Come detto, l’idea di rivoluzione è intessuta nella trama stessa del capitalismo e, periodicamente, riemerge in forme sempre diverse ma in fondo simili. Il capitalismo, per funzionare, crea diseguaglianze, le spinte rivoluzionarie rinegoziano le posizioni degli individui, delle classi, delle generazioni nel teatro sociale. Il ’68 è l’anno in cui le tensioni che attraversano le società occidentali da un decennio vengono allo scoperto. Come scrive Guy Debord «La società moderna, che fino al 1968 passava da un successo all’altro e si era convinta di essere amata, ha dovuto rinunciare da allora a questi sogni; preferisce essere temuta. Sa bene che la sua aria innocente non tornerà più». Guy Debord, La società dello spettacolo. Traduzione di Paolo Salvadori. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008.p. 243.
6 Gianni Pozzi, Figure del dono. Dispendio, reciprocità e impegno nella pratica artistica contemporanea. Pisa University press, Pisa, 2014. pp.207-208.
7 Ivi, p.222.
8 Stewart Home, Assalto alla cultura. Le avanguardie artistico-politiche: Letterismo, Situazionismo, Fluxus, Mail art. Traduzione di Luther Blissett. Shake edizioni, Milano, 2010. p. 87.
2. Arte povera
Come già accennato, durante gli anni Sessanta anche in Europa, sebbene in uno scenario più articolato, si sviluppano poetiche analoghe a quelle dell’Antiform statunitense. Se in Germania queste tensioni si catalizzano attorno alla figura di Joseph Beyus e al movimento Fluxus, in Italia prendono corpo nel movimento dell’Arte povera. La vita, nella sua piena flagranza e verità, fa irruzione anche nella scena artistica italiana grazie al lavoro degli artisti che il critico Germano Celant ha raccolto nel 1967 sotto l’etichetta divenuta canonica di Arte Povera.
È interessante notare come in questi anni il termine “lavoro” entri nel lessico artistico in sostituzione della parola opera: l’opera d’arte, trasformata in un processo in cui l’esito finale è meno importante del percorso che l’ha resa possibile assume anche il nome di quello stesso processo: lavoro. Inoltre, in un momento politico di forte contestazione antiborghese, designare l’opera d’arte con il termine lavoro significa toglierle la patina idealista e demitizzarla, sottrarla al controllo delle élite culturali, renderla aperta, accessibile, democratica.
Nell’Arte povera emerge la sensualità tipica dell’arte italiana: è un’arte fatta di materiali caldi e di processi morbidi che non si produce nelle rotture ma piuttosto negli scambi; un’arte che considera il mondo nella sua totalità come materia e «in particolare i suoi elementi primordiali, quali aria, terra, acqua e fuoco» (Celant); un’arte che non crede nel singolo oggetto estetico, ma nel processo cognitivo e si fonda sul divenire della materia. L’Arte povera è fatta di esperienze processuali che hanno un forte carattere vitalistico ed esistenziale: gesti semplici, essenziali su materie grezze presenti in natura presentate in un rapporto dinamico, empatico e aperto con materiali industriali o tecnologici e con sedimentazioni politiche e culturali.
L’artista è colui che organizza un nuovo tipo di rapporto con le cose, produce fatti magici, si accosta agli elementi portando alla luce le conflittualità sepolte o latenti, s’immerge nell’ambiente, ecologico ma anche sociale, confondendosi in esso, attinge alla verità del dato naturale per confutare la falsa verità dello spettacolo mediale1.
Scrive Angela Vettese: «“Aiutare a liberare e a comprendere. Sennò che senso può avere un quadro?” Così rispondeva Jannis Kounellis a Carla Lonzi che, tra le righe, gli poneva la domanda di rito: quale funzione rimaneva negli anni Sessanta alle arti visive, di fronte alla proliferazione di immagini che erano state realizzate da altre categorie professionali? Pensiamo naturalmente a ogni forma di comunicazione pubblicitaria, ma anche alle etichette dei prodotti che ormai stavano allineati negli stores, all’invasione dei rotocalchi a colori, alla ripresa su scala allargata del libro e dell’enciclopedia illustrati, ai poster che occhieggiavano dei muri delle camere dei ragazzi. Allora, cosa poteva fare un artista così assediato e privato del suo ruolo secolare, quello di depositario della creazione di immagini, proprio mentre queste ultime andavano assumendo un potere grazie alla loro riproducibilità, senza alcun precedente storico? L’epoca d’oro della produzione industriale pesante, quella fondata sul prodotto, era finita all’alba del dopoguerra. Era iniziata quella delle battaglie sul mercato a colpi di seduzione, cioè di comunicazione soprattutto visiva. Inutile, per l’arte, porsi in competizione. Meglio agire con l’eleganza di una guerriglia distaccata: assume l’immagine di massa come soggetto per una riflessione elitaria, o altrimenti dimenticarla del tutto, dimenticare l’attitudine dell’arte a dare luogo a delle immagini: essa può soltanto suggerire dei vissuti»2.
Nel lavoro degli artisti dell’arte povera è evidente il rapporto conflittuale con l’immagine che domina la società dello spettacolo, diventata rapidamente il “simulacro” della realtà che vuole rappresentare: in cui realtà, verità e valore non sono coincidenti, in cui anzi la realtà si dissolve nel simulacro dell’immagine spettacolare3. Tornare alla pienezza della verità del dato naturale, investire tutta la propria energia di artista e di spettatore, nella riscoperta (non mediata dal “codice” del simulacro) del valore dell’esperienza diretta e “meravigliante” della natura, significa appunto minare il potere delle immagini spettacolari e, in ultima istanza, il “potere” che si esprime attraverso le immagini.
Jannis Kounellis, forse il più emblematico artista di quest’area, concentra la propria attenzione sulle materie naturali, sulla loro consistenza biologica esaltandone le qualità intrinseche: pietra e metallo, carbone e caffè, animali vivi e cotone diventano dati di ineludibile verità che innescano un rapporto conflittuale e virtuoso con la storia e la memoria, con il presente e le sue dinamiche politiche e sociali. Giovanni Anselmo, affascinato dalle forme energetiche pure, mette nelle sue sculture elementi differenti in un forte stato di tensione, crea equilibri instabili fatti di torsioni, scivolamenti, attriti. Una scultura che contraddice l’immagine classica, immobile e immanente della materia, per produrre continui slittamenti e vibrazioni di forze contrastanti. In Pier Paolo Calzolari il dialogo, e il conflitto, avviene sempre tra sostanze organiche e inorganiche, oggetti d’uso e pezzi di natura. Forze elementari come caldo e freddo sono continuamente attivate e messe in un rapporto dinamico e irrisolto. Luciano Fabro ricerca nuovi rapporti con le qualità della materia, messe in costante relazione non soltanto con le peculiarità fisiche ma anche con le sedimentazioni storiche. Fabro lavora sulle nuove configurazioni che le qualità plastiche dei materiali possono assumere grazie a uno sguardo poetico. Mario Merz è forse il più concettuale del gruppo: lavora con materiali vergini – vegetali, minerali, biologici – integrandoli a elementi moderni e tecnologici e a riferimenti storici e simbolici. Le sue opere hanno spesso un respiro teatrale: forme archetipe come igloo e spirali o animali arcaici (coccodrilli, iguane), elementi simbolici come i numeri della successione Fibonacci (richiamo all’energia intrinseca a ogni materia e emblema della vita organica), intrecciano rapporti serrati con elementi contemporanei (il neon) e politici (giornali). Marisa Merz porta nel gruppo una sensibilità squisitamente femminile, il suo lavoro fatto di intrecci e sovrapposizioni di materiali duttili e fluidi – paraffina, cera, acqua, argilla – racconta di scambi morbidi e aperti, di strutture capienti e plastiche, di equilibri biologici mai cementati in una forma definitiva ma tenuti in uno stato di perenne mobilità. Giuseppe Penone, affascinato dalla natura ne esplora le forme indagando empiricamente le relazioni tra l’ambiente naturale (con i suoi tempi lunghi e le energie invisibili) e il corpo, partendo dal proprio per arrivare a quello degli spettatori. Le sue opere nascono spesso da un rapporto di simbiosi tra la realtà umana e quella naturale. Penone si mette in ascolto del fremere della natura e, con attenzione e rispetto, ne interroga poeticamente la vita profonda. Michelangelo Pistoletto indaga il rapporto tra realtà e finzione, nei suoi celebri specchi mette lo spettatore in una condizione di relazione instabile tra quello che vede e quello che è rappresentato: la percezione di se stessi e dell’altro diventa un processo aperto e indefinibile – dallo spazio immutabile della rappresentazione a quello instabile della vita. È proprio il concetto di relazione ad essere centrale nel lavoro di Pistoletto, relazione tra la storia e il consumo del presente (come nella Venere degli stracci) o tra gli spettatori quando chiamati ad interagire in ambienti modificati in modo da imporre o suggerire nuove dinamiche nei rapporti. Tutta l’opera di Gilberto Zorioruota attorno all’idea di energia, un’energia che scaturisce dal profondo della materia, nel contatto deflagrante tra le cose. Il rapporto con la materia del mondo avviene in un territorio alchemico, quindi antiscientifico: elementi biologici e tecnologici si mischiano in forme imprevedibili, simboleggiate da figure ricorrenti (il crogiolo, il giavellotto, la stella) che trovano nella capacità di trasmettere energia il loro punto di contatto.
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L’ambiente artistico e culturale italiano negli anni Sessanta e Settanta è ricco e sfaccettato, impossibile da ridurre all’esperienza, se pure di rilievo mondiale, dell’Arte povera. In quegli anni il bel paese ritrova le energie per diventare uno dei luoghi culturalmente più all’avanguardia del mondo occidentale, non solo in arte, ma anche nel cinema, in poesia e letteratura, nel design, nell’industria. Fioriscono molte esperienze che lambiscono i territori dell’Arte povera appena descritti percorrendo però traiettorie diverse e personali. Esperienze che, proprio per la loro eccentricità rispetto ai temi dominanti nel dibattito italiano ed europeo, hanno aperto a soluzioni che oggi, retrospettivamente, si possono considerare come antesignane della sensibilità contemporanea. Nel lavoro di Pascali e Boetti soprattutto – per l’approccio ludico e aperto agli slittamenti transculturali, per l’attenzione alle forme di relazione che generano gli oggetti e che da questi sono generate – si scorgono i germi di quelli che quarant’anni dopo sarebbero divenuti argomenti generali. Non è un caso che oggi un museo di arte contemporanea, o una grande collezione, non possa dirsi completa se tra il suo patrimonio manca un pezzo di Boetti o di Pascali.
Pino Pascali segue un suo originale percorso, purtroppo brevissimo (la prima mostra è del 1965, morirà tre anni dopo in un incidente stradale). Nel suo immaginario si muovono oggetti anomali, sospesi tra la necessità di verità imposta dal clima culturale dell’Arte povera e uno speciale rigoglio pop. Figure riprodotte con materiali industriali che emulano il biologico, si affacciano su un palcoscenico in cui con ironia si demistificano i simboli del moderno. Pascali ha uno sguardo critico verso le forme di potere e usa il gioco, il brivido che viene dalla sorpresa e dall’eccitazione, per neutralizzarne la forza. Le sue macchine da guerra si trasformano in megagiocattoli e gli animali mostruosi in abnormi pupazzi. Niente in Pascali è come sembra: la rigidità si trasforma di morbidezza, l’orrido in divertente, la violenza in gioco (e viceversa): allo spettatore è consegnata la libertà di vedere in una luce completamente nuova le forme della storia e della vita.
Alighiero Boetti è l’artista verso cui le nuove generazioni guardano con più attenzione per la libertà espressiva che travalica ogni precetto ideologico; per la purezza e la spontaneità di un’ispirazione che sgorga nella relazione con il mondo; per la voglia di scoprire nuovi territori, geografici ma anche poetici; per la duttilità espressiva e la capacità di manipolare qualsiasi linguaggio, dal disegno all’arazzo, dalla mail art all’installazione. Alighiero & Boetti (come si firmava, con un depistante sdoppiamento di personalità) guarda alla vita quotidiana con incanto e ironia; indaga il linguaggio con il quale classifichiamo il mondo; il tempo con cui sezioniamo l’esperienza; la storia e la geografia con cui semplifichiamo la vita e gli altri modelli culturali. Quei linguaggi, quei modelli che la burocrazia e il potere, il capitale e la scienza usano per condizionarci e sottometterci e che utilizziamo più o meno consciamente per comprendere il mondo, diventano in Boetti gli obiettivi di una strategia di liberazione.
Boetti utilizza tecniche ludiche: alfabeti infantili, processi artigianali, antimeccanici e antiartistici (quello artistico è un altro dei linguaggi da demistificare), si muove con leggerezza tra i segni rifiutando ogni forma precostituita mettendo al centro del proprio lavoro l’esperienza e la relazione complessa con gli altri. Anche la scelta di essere in due, Alighiero & Boetti, rende evidente il desiderio di sottrarsi a ogni definizione classificatoria e di poter trovare, anche nelle contraddizioni, forme inedite di libertà.
Giulio Paolini ha un approccio filosofico al fare artistico che lo ha spesso avvicinato, più che alla sensibilità processuale e poverista, all’algido territorio del concettualismo anglosassone. Tuttavia, il suo analizzare l’arte con gli strumenti dell’arte è troppo intessuto di una forza poetica sua propria per essere schiacciato su definizioni precostituite. Sofisticato, elegante, elusivo Giulio Paolini intesse con lo spettatore complessi giochi di sguardi, rimandi, citazioni. In continue ricombinazioni di elementi formali prediletti (la tela bianca, i calchi di sculture classiche, le citazioni colte, gli echi mitologici) l’artista allestisce un proprio teatro in cui i meccanismi con cui si formano le immagini sono continuamente mostrati e celati, dichiarati e taciuti.
In Claudio Parmiggiani il rapporto con la storia – l’assunzione del tragico custodito nella storia – diventa il motore di una ricerca che s’immerge nell’abisso racchiuso nelle immagini, nelle zone d’ombra del tempo e della memoria. L’avventura artistica di Parmiggiani, nutrita di ricordi personali e di suggestioni letterarie, ha una forza visionaria che trascina lo spettatore in una dimensione intessuta di lirismo, in cui la logica e il raziocinio cedono il passo a inaspettate epifanie. Hans Blumenberg, nel libro Naufragio con spettatore, inventa la metafora di colui che, al sicuro sulla riva del mare, osserva il naufragio della nave in lontananza, una metafora in cui «si riflette l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla vita e alla storia: il bisogno di sicurezza e il gusto del rischio, l’estraneità e il coinvolgimento, la contemplazione e l’azione». Ed è proprio sulla riva, dinanzi al naufragio della storia che ci pone l’opera di Parmiggiani, e ci interroga con la sua forza misteriosa.
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9 Così Celant nel 1969: «Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità, fisiche, chimiche, biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato ma come produttore di fatti magici e meraviglianti. L’artista-alchimista organizza le cose viventi e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle. Il suo lavoro non mira però a servirsi dei più semplici materiali ed elementi naturali per una descrizione o rappresentazione della natura; quello che lo interessa è invece la scoperta, la presentazione, l’insurrezione del valore magico e meravigliante degli elementi naturali. L’artista si confonde con l’ambiente su di esso non esprime un giudizio, non cerca un valore morale o sociale, non lo manipola: lo lascia scoperto ed appariscente, attinge alla sostanza dell’evento naturale». Citato in Pier Paolo Pancotto, Arte contemporanea: dal minimalismo alle ultime tendenze. Carocci, Roma, 2010. pp. 27-28.
10 Vettese, in Anna Detheridge (a cura di), Gli anni Sessanta. Le immagini al potere. Edizioni Mazzotta, Milano,1996. p.57.
11 La nozione di simulacro verrà elaborata nel 1976 da Jean Baudrillard nel celebre testo “Lo scambio simbolico e la morte”: «Tre ordini di simulacri si sono succeduti dopo il Rinascimento, parallelamente alle mutazioni della legge di valore: La contraffazione è lo schema dominante dell’epoca classica, dal Rinascimento alla rivoluzione industriale. La produzione è lo schema dominante dell’era industriale. La simulazione è lo schema dominante della fase attuale retta dal codice. Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore». Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte. Traduzione di Girolamo Mancuso. Feltrinelli, Milano, 1990. p. 61.
3.Earth work e Land art
Abbiamo già visto come il tentativo di portare l’arte a diretto contatto con la vita abbia indotto molti artisti ad abbandonare i luoghi classici di creazione ed esposizione. L’atelier, la galleria, il museo si fanno sempre più angusti e limitanti. Già negli anni Venti i dadaisti, e poi sulla loro scia i surrealisti, compiono le prime azioni in cui l’atto stesso di percorrere lo spazio è considerato un gesto artistico. Per i situazionisti, questa scoperta diventerà il modello di una appropriazione dello spazio urbano e sociale operata in maniera imprevedibile, rivoluzionaria e giocosa.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta tra le due sponde dell’oceano Atlantico, in parallelo con la nascente sensibilità ecologica (in reazione ai violenti processi di industrializzazione e inurbamento in atto e nella consapevolezza del loro devastante impatto sull’ambiente naturale e umano), una generazione di artisti fa dell’azione diretta sul territorio l’elemento fondante dei proprio pensiero. L’ambiente non è più lo scenario in cui collocare opere, diventa l’opera. La Land art1 agisce quindi al di fuori delle cornici tradizionali e si trasferisce nel territorio, dentro al paesaggio, dando vita a opere su vasta scala che uniscono scultura e architettura, performance e installazione e agiscono in maniera spesso spettacolare negli ambienti. Il rapporto con lo spazio deputato del museo e della galleria è definito su basi completamente diverse e anche la stessa appartenenza a un genere dell’opera deve essere ripensato: «Le opere venivano realizzate direttamente sul posto, con problematiche nuove e peculiari. Si trattava di scultura, architettura o paesaggio? Quando la critica d’arte americana Rosalind Krauss coniò lo slogan “sculpture in the expanded field” (scultura in campo espanso) aveva in mente proprio questa disorientante compenetrazione di categorie dell’arte»2.
Le opere che questi artisti lasciano sul territorio sono spesso effimere, sono interventi che si pongono l’obiettivo di organizzare il caos, contenere l’entropia, riscrivere, entro strutture leggibili, decodificabili e attraversabili, l’infinito trasmutare della Natura. Specialmente nelle esperienze statunitensi gli interventi vengono attuati in territori selvaggi e deserti, in luoghi industriali dismessi o in zone urbane periferiche, e con l’ausilio di scavi, accumuli, modificazioni meccaniche anche invasive. Tuttavia, gli artisti che lavorano sul territorio sanno bene che ogni loro opera è destinata a essere riassorbita dalla natura, che ogni segno è impermanente e labile e che, anche a distanza di poco tempo, andrà a scomparire, insomma: è il momento di un processo. Per questo, la parte documentaria – studi preparatori, fotografie e filmati, testimonianze e racconti – diventa elemento integrante del lavoro. La natura rientra necessariamente in possesso del suo luogo e l’artista si accontenta della traccia mnemonica del suo intervento e dell’esperienza ha prodotto in se stesso e sugli spettatori.
Alla fine degli anni Sessanta Robert Smithson compie i suoi primi tour nella periferia industriale della città e documenta con fotografie e scritti tutti quei manufatti a bassa intensità architettonica – condutture, recinzioni, scavi, ponti, impianti – in cui la mano dell’uomo si confonde e mimetizza con l’ambiente. Tutto il suo lavoro successivo sarà un confronto continuo tra l’artefatto umano e l’elemento naturale, tra il conflitto e l’osmosi di queste due dimensioni così intimamente interconnesse. Nel suo lavoro la dimensione urbana, costruita e progettata, affronta – spesso dissolvendosi in essa – la dimensione naturale. La sua attività si evolverà negli anni Settanta verso dimensioni ecologiste, la sua opera più celebre, la grande spirale (ormai quasi completamente riassorbita dall’acqua) nasce appunto dal tentativo di costruire un rapporto virtuoso tra l’attività dell’uomo e la natura.
«Gli strati del terreno sono un museo illimitato. Sepolto nei sedimenti vi è un testo che evade l’ordine razionale e le strutture sociali che limitano l’arte. Per leggere le rocce bisogna essere coscienti del tempo geologico e degli strati di materiali preistorici che sono depositati nella crosta terrestre». Robert Smithson 1968
Come Smithson anche Michael Heizer produce le proprie opere intervenendo nello spazio naturale con modificazioni anche spettacolari. Gli scenari che predilige sono i luoghi selvaggi e romiti, in questi spazi deserti e privi di presenza umana l’artista introduce segni primordiali e ciclopici, con forti richiami all’immaginario megalitico (Nazca, Stonehenge, Knowth) in cui gli elementi che segnavano il terreno avevano funzioni simboliche e non funzionali (forse). Il rapporto con la tecnologia – elemento indispensabile per produrre lavori di questa portata – è accettato e risolto: l’arte diventa proprio quell’elemento dinamico capace di estendere il campo di interazione tra sfera tecnoscientifica ed ecosistema naturale e, per estensione, tra mondo moderno e sapere arcaico.
Lo stesso discorso può essere fatto per gli interventi che in quegli anni ha prodotto Walter De Maria, autore del celebre campo di fulmini, un complesso dispositivo installato nel deserto capace di attirare i fulmini: un lavoro per metà scientifico (per produrre il suo intervento De Maria ha dovuto elaborare nozioni fisiche, ambientali e meteorologiche) e metà sciamanico e magico (richiamare e manifestare energie naturali).
Allo stesso modo gli interventi su vasta scala di Dennis Oppenheim agiscono negli ambienti sfruttando conoscenze attinte da discipline differenti. Oppenheim utilizza segni spesso macroscopici e fortemente astratti in contesti naturali: le stranianti invenzioni visive così ottenute – effimere quanto radicali: segni tracciati nel deserto con le fiamme – si trasformano in esperienze magiche originali. L’intervento umano si trasforma e sublima così in in apparizioni quasi soprannaturali (tutto il lavoro successivo dell’autore farà della sorpresa e dello straniamento un punto focale).
Diverso è l’approccio dell’inglese Richard Long per cui l’opera consiste nell’attraversare dei luoghi e osservare le modificazioni leggere e effimere che il suo passare, la sua vita, impongono al paesaggio. L’oggetto artistico è l’esperienza stessa. Long sceglie per le sue azioni luoghi spesso impervi e solitari, interviene con gesti dolci e sensibilissimi generati dal rapporto con lo spazio naturale stesso – tracciare una linea su di un prato con il solo camminare, spostare dei sassi per formare una figura: gesti effimeri dei quali resta memoria soltanto nella documentazione fotografica. Nei lavori di Long c’è sempre una dimensione di lontananza, scoperta e incognito che è speculare a un’idea di inabissamento interiore, meditazione, scoperta di sé.
Gesti semplici e effimeri ma pregnanti, perché scaturiscono da un approccio con la natura e con l’agire artistico centrato su una consapevolezza spirituale, quasi religiosa, un approccio che si oppone apertamente all’idea del consumo (anche della natura) superficiale e irriflessivo che domina la cultura contemporanea. Allo stesso modo, gli interventi che Long opera al chiuso, costruendo forme elementari (cerchi, spirali, linee) con materiali naturali sono ugualmente effimeri e generati da un rapporto con gli elementi (pietre, fango, zolle, impronte) tanto semplice, quanto intimo e poetico e diretti alla ricerca di una dimensione capace di evocare un tempo pre-umano, ancestrale.
Come e più di Long Hamish Fultonfa del camminare lo strumento della sua espressione. Fulton radicalizza la dimensione nomade che rimane sullo sfondo di molte delle esperienze dell’avanguardia europea di quegli anni (dalle visoni di Constant al cinema di Herzog – esemplare in questo senso è il libro Sentieri nel ghiaccio).
Le sue esplorazioni hanno un approccio decisamente più politico e sociale di quello di Richard Long: Fulton attraversa i territori annullando le frontiere, le dogane e i passaporti, i confini imposti dal potere, restituendo così lo spazio all’esperienza personale. I suoi percorsi sono meticolosamente registrati e diventano il punto di partenza per una nuova elaborazione concettuale: con fotografie, grafici e testi il territorio, e ciò che questo contiene, è raccontato da una prospettiva completamente nuova. Camminare, nell’era della macchina, dell’annullamento o stravolgimento del rapporto tra spazio e tempo, può diventare anche un gesto di consapevolezza politica, una prassi rivoluzionaria. Queste esplorazioni da personali e solitarie possono quindi diventare esperienze collettive e sociali, in cui i corpi si ritrovano ricontestualizzati e rinarrati in pratiche che coniugano apertamente suggestioni simboliche e rituali a manifestazioni politiche.
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1 «Land art è il titiolo del film di Gerry Schum (1969) che documenta i lavori di Michael Heizer, Walter De Maria, Robert Smithson, Dennis Oppenheim e degli europei Richard Long, Barry Flanagan, Marinus Boezem. Con questa etichetta (ma anche con quella di Earth Works, titolo di una mostra tenutasi alla Dwan Gallery di New York nel 1968) vengono definite quelle esperienze artistiche che, a partire dal 1967-68, vanno al di là dei confini deputati delle gallerie e dei musei, e anche delle aree urbane, intervenendo direttamente nel territorio naturale. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare di questa tendenza ha luogo negli Stati Uniti dove gli artisti sono affascinati, in particolare, dagli immensi spazi incontaminati come i deserti, i laghi salati, ecc.». Francesco Poli, Minimalismo Arte Povera, Arte Concettuale. Laterza, Bari, 1995. p. 1212 2 Michael Lailach, Land art. Traduzione di Tania Calcinaro. Taschen, Colonia, 2007. p. 7