1 Piero e Yves
Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo maturano in Italia e in Europa proposte che, in opposizione alle tendenze espressioniste calde, quali l’informale, spostano i linguaggi dell’arte verso la riduzione formale e il raffreddamento emotivo. È un tratto che accomuna percorsi di artisti, anche molto diversi tra loro, che operano negli ambienti neo-razionalisti dell’arte programmata, in Italia è emblematica la figura di Francesco Lo Savio, incompreso antesignano di una visione concettuale e analitica dell’arte.
In questa temperie appaiono due artisti, Piero Manzoni e Yves Klein, per i quali deve essere fatto un discorso a parte: reinterpretando in maniera originale la lezione di Duchamp (approccio concettuale, ironia destrutturante, critica alle forme e ai consueti rapporti di forza tra autore, opera, pubblico) e comprendendo meglio di altri le istanze del tempo presente, anticipano con intuizioni formidabili molti dei problemi che troveranno sviluppi nelle direzioni più interessanti e radicali della frontiera concettuale e azionista. Manzoni e Klein partono da un’analisi della condizione fisica e spirituale dei cittadini del mondo dominato dalle merci: un mondo che bisogna demolire e riempire di nuovi significati. Entrambi sono alla ricerca di una forma pura, assoluta, una forma capace di trascendere i limiti imposti dalla materia e quindi dalle convenzioni culturali e dalle rigidità del mercato; entrambi perseguono un rinnovamento profondo degli strumenti espressivi e soprattuto del ruolo dell’artista.
Piero Manzoniè attivo negli ambienti dell’arte programmata e del gruppo Zero, è amico di Enrico Castellani e vicino al maestro di questa generazione di artisti, Lucio Fontana. Con loro condivide una visione progressista della pratica artistica e una vocazione alla riduzione formale. Un desiderio di riduzione che in Manzoni diventerà una attività di azzeramento e smaterializzazione senza precedenti.
Dall’inizio del suo percorso e fino alla morte precoce Manzoni si dedica con continuità agli Achrome, pitture monocrome in cui il bianco «inteso come non-colore, non più come monocromia dunque, ma come annullamento, svuotamento, negazione, rifiuto di tutto ciò che che il colore ha significato fin lì, ovvero psicologia, sensazione, pittoricità, simbolismo»1 diviene sempre di più “assoluto” e totalizzante: realizza superfici bianche utilizzando qualsiasi tipo di materiale naturale (il caolino, la paglia e le pelli di coniglio) o sintetico (la plastica, il polistirolo, le fibre artificiali). Negli Achrome scopare tutto quello che si aspetta di trovare in un quadro, iconografia, racconto, emozioni, resta solo l’immagine per quello che è: immagine in sé.
Con le parole di Piero Manzoni: «Qui l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime (casomai la questione è fondare) né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere»2.
Nel breve arco della sua attività (circa sette anni, muore nel 1963 all’età di trent’anni) Piero Manzoni ha prodotto una serie stupefacente di opere attraverso una lettura personale del lavoro di Duchamp e con la peculiare attitudine di abbandonare ogni specificità mediale: l’artista produce lavori che si potrebbero definire quadri in senso classico ma si dedica soprattutto a progettare installazioni e performance, a produrre oggetti e multipli e a immaginare progetti irrealizzabili che possono esistere solo concettualmente. Tutto il lavoro di Manzoni consiste in un incessante tentativo di trasformare la materia in qualcosa d’altro, per trovare nessi altrimenti invisibili o impossibili tra l’arte e la vita. Ecco allora apparire sculture fatte di fiato, sfere sostenute solo da getti d’aria, rotoli di carta con tracciate linee sempre più lunghe che nelle intenzioni dell’artista dovevano arrivare ad abbracciare l’intero pianeta3, tavole di accertamento in cui si dichiara che qualcosa è realmente se stessa (evidenziando così una distanza tra oggetto e pensiero, una sorta di ready-made al contrario)4.
Il corpo è molto presente nell’opera dell’artista ma vi appare sempre per trasformarsi in qualcosa d’altro, per segnalare un cambiamento di statuto, di sostanza: di fatto, Manzoni apre la strada a molte delle esperienze performative degli anni successivi. Nelle sculture viventi il corpo delle modelle non è più idealizzato in una rappresentazione ma presentato in una evidenza che pure cessa di essere tale grazie alla firma dell’artista che duchampianamente ne trasforma l’essenza – da strumenti dell’artista a opere viventi. Il passo successivo è firmare una persona qualsiasi e trasformarla in opera d’arte vivente, con tanto di certificato d’autenticità. Così anche le Basi magiche innescano processi di trasformazione, l’artista in questo caso si ritrae completamente e lascia che l’opera si compia con lo spettatore stesso: le basi sono piedistalli su cui questi può salire e diventare esso stesso opera e portare la propria vita a coincidere con l’arte. Parafrasando le parole dell’artista, l’opera, la persona sulla base magica, non può essere spiegata come allegoria, rappresentazione: «essa vale solo in quanto è: essere».
Anche le uova, che Manzoni in una celebre performance, cuoce, firma con la propria impronta e quindi offre agli spettatori perché vengano mangiate, sono parte di questo progetto di smaterializzazione dell’opera d’arte e della sua riconfigurazione in esperienza. Manzoni chiede agli spettatori di partecipare in prima persona alla creazione dell’opera: salire su di un piedistallo, mangiare un uovo o anche concepire l’idea di esistere in un pianeta che l’artista ha trasformato (e con esso ogni essere vivente) in un immenso ready-made collocandolo su di una base capovolta con inciso il titolo: Zoccolo del mondo.
Ancora il corpo (e le sue funzioni) è protagonista nella celebre Merda d’artista – molto conosciuta e poco compresa – in cui l’ironia dissacrante che sta al fondo di molti lavori di Manzoni lascia emergere contenuti di forte valenza politica: il vasetto si veste del linguaggio della merce (tecnica di produzione, packaging, valore di scambio) e così mimetizzato afferma come oramai l’artista, la sua produzione estetica, il suo corpo e quindi anche le sue stesse deiezioni, siano diventati un prodotto come qualsiasi altro nell’economia capitalista. La Merda d’artista rende evidente la natura feticista del mercato e porta allo scoperto la qualità dell’oggetto artistico in quanto merce5.
Come Manzoni, anche Yves Klein – che percorre una parte della propria strada con gli artisti dell’avanguardia Parigina del Nouveau Réalisme – è ossessionato dalla ricerca della leggerezza e tutta la sua opera è una corsa verso la smaterializzazione dei corpi che diventano a volte emissioni di pura energia, in omologia con la diffusione dei primi sistemi magnetici, dei flussi elettronici, delle correnti di dati che immettono nella fantasia collettiva idee di evanescenza, liquidità, velocità e in opposizione alla pesantezza e alla staticità dei sistemi statali, culturali e produttivi. Klein cerca di produrre segni capaci di convertire in elementi visivi dinamici la rete delle nuove energie che attraversa il mondo, eliminando qualsiasi impurità, scoria, gravità.
Un elemento che contraddistingue il lavoro di Klein è l’International Blue Klein – IBK, un colore da lui stesso creato (con una sofisticata ricerca chimica) e registrato (con un brevetto depositato e un marchio registrato): un blu quintessenziato che rappresenta il colore assoluto, che comprende e trascende tutti gli altri colori. Klein userà questo colore per ridefinire la natura degli oggetti del mondo6.
Nelle antropometrie – abdicando al controllo diretto sulla formazione dell’immagine, con un atteggiamento che deve molto alla filosofia orientale e facendo fare un passo decisivo all’idea dell’arte intesa come processo – dalla nuda, concreta fisicità dei corpi delle modelle estrae immagini che ne rappresentano la sublimazione, il distillato. La registrazione della presenza, della pressione del corpo sul supporto diventa il segno residuale di un evento che si è prodotto. Il passo successivo è quello di realizzare immagini utilizzando un lanciafiamme, producendo così tracce di un flusso di energia puro, di un soffio di calore.
Klein cerca leggerezza, con l’installazione Il vuoto7 (lo spazio bianco di una galleria completamente svuotata da ogni oggetto e segno) manifesta su scala ambientale l’immaterialità dei corpi che fluttuano in uno spazio completamente liberato, anticipando così l’idea di uno spazio non fisico ma puramente virtuale.
Una tensione portata anche all’aperto con le azioni Zone di sensibilità pittorica immateriale in cui scambia porzioni dell’aria di Parigi, dichiarate duchampianamente zone sensibili, con lamelle d’oro (simbolo alchemico di trasformazione) mutandone così la natura e ridefinendole in zone di nuovo pensiero. Una sorta di ascesi in cui ci si perde e insieme ritrova in un’esperienza che va contro ogni logica economica (proprio per questo la forma dell’azione è concepita come uno scambio eminentemente economico, con tanto di contratto e certificato d’acquisto) e tocca con un brivido una forma di assoluto. Da notare l’uso simile che Klein e Manzoni fanno del certificato di autenticità: un modello di matrice Duchampiana che reinterpreta artisticamente, cioè sovvertendola – Klein e Manzoni certificano aria e uova sode – la cultura finanziaria e la mistica del capitalismo (azioni, buoni del tesoro, titoli al portatore, banconote…) in cui spesso il valore economico di una determinata cosa consiste semplicemente nella certificazione del suo valore. Un modello ripreso anche, come vedremo, da Sol LeWitt.
[N]
1 Elio Grazioli, Piero Manzoni. Bollati Boringhieri, Torino, 2007. p. 61.
2 Piero Manzoni, Oggi il concetto di quadro… prolegomeni, testo del 1957. In Piero Manzoni, Scritti sull’arte. Abscondita, Milano, 2013. p. 24.
3 «Il lavoro che ha fatto sul colore attraverso l’achrome, Manzoni lo fa sul disegno attraverso le Linee: le linee sono dunque l’a-disegno, il disegno ridotto al suo stato materiale e concettuale, spogliato delle sue valenze espressive, simboliche». Grazioli, Cit. p. 80.
4 «Che cosa accerta infatti una carta geografica? Non certo la correttezza della rappresentazione, cioè il rapporto con la realtà, che l’achrome ha rifiutato ed escluso […]. Le tavole accertano piuttosto qualcos’altro, forse il rapporto dei loro “sistemi di segni”, cioè il loro stesso specifici statuto linguistico. Perché questi tipi di segni sono appunto particolari, basati non tanto sul rapporto iconico, analogico e di immagine, quanto su quello di “indice” […] cioè diretto, fisico, materiale, con l’oggetto che lo ha lasciato, con il referente. […] Delle carte geografiche conta allora l’essere un sistema di rappresentazione in scala, mentre dell’alfabeto, non contano le lettere ma il suo essere realizzato attraverso la tecnica della mascherina. […] Questo passaggio, dalla rappresentazione ad altro rapporto linguistico, resta comunque un punto determinante per la comprensione dell’intenzione estetica di Manzoni, del suo “salto” dal rappresentare all’essere». Grazioli, Cit. p. 144.
5 «Manzoni realizza, ovvero “produce e inscatola”, come è specificato sull’etichetta, le Merde d’artista, in 90 esemplari, nel maggio del 1961. Le scatole contengono 30 grammi ciascuna di merda, inscatolata “al naturale”, e sono da vendersi al prezzo corrente dell’oro. […] È la più provocatoria e scandalosa delle opere di Manzoni, la più eloquente proprio per la sua radicalità ed evidenza. […] in essa finiscono con ill trovare ulteriore sintesi e sviluppotutti glia spetti e i temi più importanti ed eclatanti del lavoro di Manzoni, dalla trasmutazione della materia alla chiusura in scatola, dall’etichetta come certificazione all’impronta, dall’acromia alla ripetizione, alla critica decostruttiva». Grazioli, Cit. p. 123.
6 «Prima dell’autunno del 1959, Klein aveva trovato quello che cercava: un blu oltremare, intenso, luminoso, completamente avvolgente che definì “l’espressione più perfetta del blu”. Il pigmento era il risultato di un anno di esperimenti, portati a termine con l’aiuto di Edouard Adam, chimico parigino creatore di materiali per l’arte. […] Con questo blu Klein si sentì alla fine di potere dare espressione artistica al proprio personale senso della vita, come un regno autonomo i cui poli gemelli erano la distanza infinita e la presenza immediata. Analogamente ai suoni armonici nella musica, la specifica tonalità del pigmento generava una sensazione visiva di completa immersione nel colore, senza costringere l’osservatore a doverne definire le caratteristiche». Hannah Weitemeier, Yves Klein. Traduzione di Carmela Raciti. Taschen, Colonia, 2002. p. 15.
7 Weitemeier, Cit. p. 175.
2 Minimalismo
Nel 1963 si tiene la prima mostra dedicata a una tendenza della scultura e della pittura statunitensi definita in seguito come Minimalismo: una tendenza già in atto da qualche anno e che si pone in continuità teorica e formale alle esperienze di poco precedenti di Morris Luis, Frank Stella e Ad Reinhardt e si coagula attorno al lavoro di Donald Judd, Carl Andre, Robert Morris, Dan Flavin, Sol LeWitt, Robert Ryman, Agnes Martin.
Al centro del discorso di questa generazione di artisti – e in radicale opposizione alle tendenze emotive dell’informale, o movimentiste del New Dada o glamour della Pop art – ci sono l’inespressività delle forme, la riduzione a zero della presenza dell’artista, del desiderio e della capacità dell’opera di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il modus operandi degli scultori e dei pittori minimalisti è improntato all’austerità linguistica; al geometrismo rigoroso e asettico; alla ricerca di «unità elementari primarie» e «elementi modulari standard organizzati in strutture aperte e sequenze seriali»; a soluzioni volumetriche e cromatiche essenziali e in scala architettonica; all’uso prevalente di materiali industriali e sintetici «strettamente connessi alla forma»1.
È un linguaggio nato dal rapporto con gli elementi moderni e metropolitani; dal fascino esercitato dai materiali e dai processi industriali; dall’introduzione in arte di concetti prelevati dal mondo dell’economia e della produzione quali standardizzazione, serializzazione, modularità, ottimizzazione; dal dialogo con gli scenari metropolitani in cui i corpi – dell’artista e degli osservatori – sono chiamati in causa solamente in un’interazione indiretta, mediata da codici e protocolli. L’arte diventa così un viaggio dentro a strutture primarie, fondanti quali forma, spazio, linea, superficie.
La ripetizione, la monotonia di elementi primigenei e puri, la misurazione ideale dell’ambiente fanno del Minimalismo una forma di indagine filosofica dell’esistenza. Come scrive Daniel Marzona: «Ponendo l’accento sull’esperienza concreta e sulla percezione dell’opera nel suo contesto specifico, La Minimal Art, rifiutò una metafisica dell’arte e, cosa non meno importante, modificò di conseguenza il ruolo del pubblico. All’osservatore non si chiedeva più di meditare, in un atto di silenziosa contemplazione, sui significati immutabili della creazione che aveva davanti agli occhi, ma piuttosto di percepire attivamente l’opera di cui condivideva lo spazio, e di riflettere su questo processo di fruizione, riempiendolo in questo modo di nuove implicazioni»2. Questo cambio di prospettiva riconduce, ovviamente, a Duchamp che con i suoi ready-made, desiderava sollecitare, più che i sensi, l’appetito di comprensione dell’osservatore.
Nato insieme alla Pop art, il Minimalismo, pur nelle eclatanti differenze, condivide con l’attività di Warhol e compagni alcuni aspetti fondamentali: in primo luogo la scelta di procedimenti meccanici nella formazione dell’immagine, una preferenza che conduce al rifiuto dell’idea di “bello” trascendente e della visione romanticamente personale tipica della pittura modernista. Le opere minimaliste sono, come quelle Pop, inespressive, anonime e aderiscono senza polemica al mondo contemporaneo, governato dalla logica seriale e ripetitiva – e quindi a-temporale – delle macchine. Il tempo quindi, o meglio l’assenza del tempo, è anche nel Minimalismo un tema portante: la modularità a cui spesso sono ridotti gli oggetti produce appunto un effetto di azzeramento dello svolgimento cronologico che normalmente si concepisce quando si interagisce con un oggetto immerso in uno spazio, e quindi nel tempo. La Pop art – così apparentemente frivola e spettacolare – condivide con il minimalismo una freddezza di fondo e una sterilità emotiva che costringono l’oggetto artistico alla mera presenza fisica, privandolo di ogni risonanza emotiva, in consonanza con le sperimentazioni seriali che in musica stavano compiendo compositori come Steve Reich, La Monte Young, Philip Glass.
L’esperienza minimalista rappresenta un altro sviluppo dell’influenza che Duchamp esercita sulle nuove generazioni di artisti: tutti gli elementi che abbiamo visto essere alla base di ogni ready-made – l’annullamento dell’emotività e delle componenti sensoriali, l’equivalenza delle forme e quindi l’indifferenza e l’azzeramento dei valori assoluti e trascendenti, l’indebolimento della figura dell’artista-creatore che si trova sempre più spesso nel ruolo del selezionatore/campionatore, l’assenza dell’idea di originale– si trovano rielaborati in modo nuovo nel lessico di questi giovani americani.
A partire dagli anni Novanta, il lessico minimalista (come quello Pop) così duro intransigente, ritornerà nella moda, nel design e più in generale nella cultura: smussata ogni asprezza ideologica diventerà il palinsesto da cui declinate un nuovo vocabolario decorativo: strano destino per un linguaggio nato con l’intento di azzerare ogni componente decorativa.
In pittura le tensioni minimaliste si trovano espresse con chiarezza nel lavoro di Robert Ryman e Agnes Martin. Il primo si dedica a una pittura seriale, reiterando sulla tela elementi formali basilari come strisce o più spesso quadrati. Quella di Ryman è una pittura rigidamente monocroma che tende all’acromia, dalla metà degli anni ‘60 Ryman presenta, nella loro inequivocabile immanenza, lastre di acciaio dipinte di bianco3.
Agnes Martin, sulla stessa lunghezza d’onda di Ryman, adotta un vocabolario più morbido, fatto di elementi semplici e modulari, di griglie tracciate in modo sistematico e inespressivo. I colori sono tenuti su gradazioni che tendono alla monocromia. Come per Ryman, c’è un’assenza assoluta di pathos, di narrazione, di sviluppo formale: è una pittura che chiede di essere guardata abbandonando ogni componente sensoriale – retinica, come direbbe Duchamp – perché non si rivolge allo sguardo dell’osservatore, ma al suo pensiero.
Tony Smith è forse il più radicale della sua generazione, pratica una scultura che implode in se stessa. Il cubo di acciaio nero è la negazione dell’idea classica della scultura in cui la forma si libera nello spazio e interagisce con gli elementi ambientali. C’è un ritorno all’idea del monolito, elemento fisso, primordiale, riflessivo. Smith predilige le sequenze seriali e il rapporto analitico, freddo con spazio.
In Donald Judd tutte le peculiarità teoriche e le caratteristiche formali del Minimalismo si trovano articolate al massimo grado: rigore formale, elementi geometrici e modulari, strutture sequenziali, materiali industriali quali acciaio, plexiglass, formica e cemento. Judd parte da una formazione filosofica e all’agire artistico accompagna scritti e saggi di teoria dell’arte altrettanto lucidi e radicali, per l’artista non ci sono differenze tra l’attività speculativa e quella pratica.
Il percorso di Robert Morris inizia nel minimalismo (sarà poi protagonista degli sviluppi antiformali e processuali). All’inizio degli anni Sessanta presenta oggetti seriali che variano solo nella loro disposizione nello spazio.
Dan Flavin usa tubi al neon – elementi industriali standard, non creati dall’artista ma acquisiti (prelevati) sul mercato – per costruire soluzioni spaziali fortemente geometriche. Al centro del lavoro di Flavin c’è naturalmente la luce – trattata in maniera antinaturalistica e antimpressionista – che diviene un elemento plastico con cui lo spazio, tanto fisico quanto percettivo, viene ridefinito.
Carl Andre opera una riduzione della scultura al grado zero, anche volumetrico: i suoi interventi ricoprono il pavimento, sono superfici regolari, griglie praticabili, percorribili che trasformano la scultura in un’esperienza attiva. Andre si dedica anche alla poesia concreta: costruzione di monoliti lessicali, di elementi primordiali di senso e ritmo.
Tutta l’opera di Sol LeWitt si sviluppa in pattern geometrici, semplici e razionali sviluppati in sequenze e infinite modulazioni. LeWitt dagli anni Sessanta si dedica anche alla produzione di pitture murali – Wall Drawings – che affida sempre all’esecuzione di collaboratori: per l’artista è importante l’idea, è l’idea che l’artista vende e certifica, l’oggetto non è importante.
Antiform
Con l’affermazione del Minimalismo americano s’impone (negli Stati Uniti ma anche in Europa) una tendenza a utilizzare il linguaggio freddo e analitico delle scienze, ad adottare un’estetica controllata, impersonale, inorganica. Altri fenomeni però si presentano in netta opposizione a questo approccio, negli Stati Uniti in antitesi all’ortodossia minimal si afferma il movimento Antiform.
Nato dall’abiura di uno degli esponenti di spicco del Minimalismo degli inizi, Robert Morris4, l’Antiform pone il problema di un nuovo approccio con la materia organica e quindi con la vita. Il rapporto dello spettatore con l’opera non avviene più su di un livello concettuale ma investe l’esperienza diretta, la percezione corporea, lo stimolo sensoriale. Le opere sono manifestazioni sempre aperte, mobili e vive che interagiscono con lo spazio in cui si manifestano, che mutano nel tempo e si modificano grazie all’apporto dello spettatore che spesso partecipa direttamente all’epifania dell’opera.
La forma è indeterminata e grande rilievo viene dato, più che all’opera, al processo che porta all’opera, al suo divenire. L’attenzione viene quindi riservata alle proprietà fisiche degli elementi e alla loro conflittualità intrinseca: peso e leggerezza, fragilità e durezza, opacità e trasparenza, stabilità e mobilità. Evidente il debito verso l’esperienza di Kurt Schwitters e alla sua idea di creazione come processo sempre aperto, interminabile. Al progetto, con cui la forma viene assoggettata al pensiero, così importante nella teoria Minimalista, viene sostituita l’idea di bricolage, cioè una «metodologia prevalentemente abduttiva (legata cioè a un continuo spostamento o riformulazione di un progetto non sempre definito in tutte le sue parti), una strategia diversa dalla progettazione in senso tradizionale, ma non per questo meno efficace»5. Il bricolage è quindi un modus operandi in cui la forma non è definita in anticipo ma è il risultato di un processo. Le opere diventano sempre più aperte e disaggregate, trasformandosi in esperienze immersive, in installazioni dalle configurazioni instabili, soggette all’alea del tempo, alla consunzione e in cui le forme sono generate nell’interazione con la fisicità della materia. L’artista rinuncia al controllo e quindi a un pezzo del proprio potere, lasciando spesso che la forma si compia liberamente (anche in questo caso, non si può non pensare all’influenza di Cage).
Emblematiche sono le sculture in feltro di Robert Morris: strutture morbide, calde, lasciate libere di produrre la propria forma nel rapporto con lo spazio che le riceve. Anche il corpo dell’artista estromesso nell’estetica Pop e Minimalista, riafferma la propria presenza, così, spesso, le opere non sono che sedimentazioni di manipolazioni e di esperienze performative. Gli artisti scoprono una nuova forma di libertà, tanto più grande se la si accosta alle strutture modulari e seriali tipiche della produzione minimalista e accettano il conflitto intrinseco alla materia, latente nei corpi, nelle prassi sociali e nelle convenzioni linguistiche.
Richard Serra esalta le caratteristiche fisiche dei materiali che adotta (fluidità, malleabilità, gravità) e mette gli oggetti in un rapporto irrisolto, rischioso con lo spazio e i copri degli spettatori. Nei primi anni Sessanta lavora cercando nei materiali i punti di instabilità, di tensione: pesanti lastre in precari equilibri, piombo fuso che si solidifica in processi caotici, corpi che confliggono con la materia. In seguito Serra ha prodotto impressionanti sculture in cui gigantesche lastre di metallo si tendono deformando i luoghi, modificando la percezione del tempo e dello spazio di coloro che le percorrono.
Eva Hesse porta nelle opere una visone di genere, costruisce strutture aperte, fatte di relazioni fragili e impreviste, morbide, fluide, collaborative e tipiche di una sensibilità femminile che comincia a trovare proprio in quegli anni un lessico autonomo declinando (nella differenza dall’arte degli uomini) le forme per esprimere una nuova consapevolezza politica.
Bruce Neuman concentra la propria analisi sul corpo – dell’artista stesso o dello spettatore; corpo inteso come materia da cui far emergere tutte le recondite, inconsapevoli o sedate potenzialità espressive. Il semplice atto del camminare diventa occasione per un approccio differente al corpo, aperto a una nuova forma di coscienza. Anche il linguaggio viene esplorato con gli strumenti dell’arte, per romperne le convenzioni formali ed estrarre tracce non controllate di esistenza. Interessante l’impiego del neon, elemento tipicamente moderno e industriale, trasformato in segni che sembrano sedimentazioni organiche.
Con Richard Tuttle la poetica dell’impermanente, dell’aleatorio e fragile, assume spessore e consapevolezza formale. Tuttle inizia realizzando superfici geometriche, precise, monocrome e apparentemente assimilabili all’estetica minimalista, con semplici tele inchiodate alle pareti: la forma non è che un’apparizione instabile e fuggevole. L’arte di Tuttle assembla frammenti del mondo, scarti anche minuscoli che non sembrano avere alcuna qualità intrinseca, frammenti tenuti sospesi in un equilibrio fragile e, a volte, apparentemente impossibile, lasciati liberi di produrre una misteriosa e sorprendente forma di bellezza (che non deve nulla all’idea del canone occidentale, fatto di equilibrio, simmetrie e rapporti calibrati geometricamente).
[N]
1 Francesco Poli, Minimalismo Arte Povera, Arte Concettuale. Laterza, Bari, 1995. p. 8.
2 Daniel Marzona, Minimal art. Traduzione di Paolo Satta. Taschen, Colonia, 2007. p. 11.
3 «Il bianco viene scelto come unico colore perché non interferisce, perché è un colore neutrale che consente di evidenziare aspetti della pittura che resterebbero sommersi in una situazione più variata; la sua intenzione è attirare l’attenzione sul processo del dipingere, sulla stesura letterale della pittura, sulla relazione primaria fisica e spaziale fra supporto e colore bianco». Poli, Cit. p. 101.
4 «A teorizzare in modo più chiaro la svolta postminimalista, è proprio uno dei protagonisti del Minimalismo, Robert Morris in un articolo su Artforum (aprile 1968) intitolato Atiform. […] Morris scrive che nei lavori minimalisti una morfologia delle forme geometriche, prevalentemente rettangolari, è stata accettata come premessa stabilita […] Ma rimane problematico il fatto che che l’ordine modulare e seriale è un ordine imposto, non è inerente al materiale, non ha una relazione con la fisicità delle unità esistenti». Poli, Cit. p. 19.
5 Alessandro Dal Lago e Serena Giordani, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte. Einaudi, Torino, 2008. pp . 92-93.
3 Situazionismo
«Nel 1952, quattro o cinque persone di Parigi poco raccomandabili decisero di perseguire il superamento dell’arte. […] Questo superamento dell’arte è il “passaggio a nord-ovest” della geografia della vita vera, spesso cercato da più di un secolo». Con queste parole Guy Debord, una delle quattro o cinque persone poco raccomandabili – gli altri sono Asger Jorn, Constant e Pinot Galizio – descrive le ragioni della nascita dell’Internazionale Situazionista. Il movimento si presenta con gli stessi tratti di critica radicale e di intenzione rivoluzionaria del Dadaismo (di cui riattiva tutte le pratiche anti-arte) e del Surrealismo (di cui riattiva la matrice marxista e libertaria) con i quali è diretta continuità.
L’azione situazionista prende le mosse dalle analisi del filosofo Guy Debord, confluite nel libro La società dello spettacolo pubblicato nel 1967 – e accusato in seguito di aver dato il lessico ai moti di rivolta iniziati con il maggio francese del ‘68. La società dello spettacolo è la più lucida (e ancora attuale) analisi del mondo contemporaneo apparsa dopo Il Capitale di Carl Marx, di cui Debord aggiorna i modelli interpretativi e le prospettive d’azione. Secondo il pensatore francese: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini»1.
Compito dell’arte è demolire lo spettacolo del capitalismo2 per riconquistare l’esperienza della vita reale. Per questo, i situazionisti cercano il superamento dell’arte, cioè dell’esperienza mediata (e imprigionata) dal linguaggio3. Per superare l’arte i situazionisti si affidano alla creazione di “situazioni”. «La situazione è definita come un “momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito per mezzo dell’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti»4.
Il tempo è, con lo spazio, il principale bersaglio della critica situazionista. Si tratta innanzitutto di affrancare il tempo libero delle persone, sottraendolo al controllo dei dispositivi spettacolari dello svago (cinema, stadio, televisione, spiaggia…) che trasformano il tempo in consumo e quindi, ancora una volta, in uno strumento del capitalismo. Proprio per ritornare in possesso del proprio tempo, i situazionisti si affidano alla creazione di situazioni: momenti in cui il gioco e i gesti improduttivi diventano i modelli per liberare energie psichiche profonde e produrre forme ingovernabili di socialità (il riferimento alle esperienze dadaiste degli anni Venti è obbligatorio).
Il teatro della sovversione situazionista è la città, non più intesa come rigida griglia in cui si dispongono ordinatamente i luoghi e i tempi della produzione e del consumo, ma come spazio fluido e privo di barriere in cui muoversi e socializzare liberamente. Il primo obiettivo dei situazionisti è quindi scardinare la struttura della città.
Per riconquistare l’esperienza dello spazio i situazionisti si affidano al procedimento della deriva: perdersi per le strade seguendo persone sconosciute o animali randagi; cambiando a caso mezzi di trasporto; visitare una città seguendo scrupolosamente le indicazioni della guida di una città diversa. Il modello per questa epopea di scoperta della città nelle sue pieghe meno spettacolari, predeterminate e turistiche è ovviamente quello della passeggiata dadaista del 1921.
In questo modo, la città rivive in erranze ogni volta originali e libere, non soggette al controllo e alla disciplina, ricomposte poi in mappe psicografiche che sono la rappresentazione di uno spazio vissuto in modo personale. La città diventa un luogo aperto a infinite scoperte e peregrinazioni: la mappa psicografica – in cui la rappresentazione di uno spazio urbano che può essere percorso in modo razionale, efficiente, controllato deflagra per essere riconfigurata seguendo percorsi erratici e casuali – è l’emblema di questo progetto.
Ma per la teoria situazionista è la città stessa che deve essere demolita: Constant, architetto e urbanista visionario e quanto mai attuale, pensa una città in cui non ci sia distinzione tra spazio privato e spazio pubblico, in cui le persone tornate a uno stato nomade, possono muoversi in transumanze incessanti. Constant pensa a una città mobile e leggera, multietnica e ludica – in opposizione ai grandi modelli metropolitani fatti di grattacieli e megastrutture, oggi si direbbe sostenibile – e arriverà a immaginare il pianeta stesso come un territorio percorso da grandi flussi di popoli erranti, infine liberati dal vincolo stanziale della produzione capitalista5.
Ma anche il linguaggio deve essere decostruito e liberato: i situazionisti sviluppano la tecnica e il concetto di détournement6, con cui il lessico dello spettacolo (pubblicità, cinema, letteratura d’intrattenimento come i fotoromanzi…) viene svuotato dei contenuti originari e riempito di nuove proposizioni rivoluzionarie. Si tratta sostanzialmente di una pratica di sabotaggio dei contenuti stabiliti e si inserisce in una più ampia attività di controinformazione e lotta politica che di fatto non ha soluzione di continuità con la pratica creativa: nel Situazionismo politica e arte coincidono.
Il détournement (distrazione: una via di mezzo tra collage e ready-made, ancora una volta la riattivazione di procedimenti dadaisti)7 si applica anche all’arte visiva. In pittura viene rifiutata ogni idea di stile: Pinot Galizio immagina una pittura industriale prodotta in serie, da vendere al metro, con cui sovvertire i meccanismi di creazione, diffusione e consumo dell’opera d’arte intesa come merce, in cui la figura dell’artista, romanticamente artefice di pezzi unici e originali, perde tutto il suo potere (il debito verso Schwitters è evidente).
[N]
1 Guy Debord, La società dello spettacolo. Traduzione di Paolo Salvadori. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008. p. 53-54.
2 Così Debord: «Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento, e la negazione della vita reale». Ivi. p 180.
3 «Per Debord l’arte ha il compito di sottrarre al tempo e rendere eterne le esperienze vissute; si contrappone perciò alla vita proprio perché immobilizza, reifica, riduce a cosa l’esistenza soggettiva del singolo. Inoltre essa è una forma di pseudo-comunicazione che ostacola la comunicazione diretta tra gli individui». Mario Perniola, I situazionisti. Il movimento che ha profetizzato la Società dello spettacolo. Castelvecchi, Roma, 2005. p 13.
4 Ivi, p 19.
5 Vedi Francesco Careri, Constant. New Babylon, una città nomade. Testo & Immagine, Roma, 2001.
6 Ancora Debord: «Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento. […] Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia». Debord, Cit. p 174.
7 «Si tratta in fondo di una pratica già frequente nell’attività dell’avanguardia artistica: il collage e il ready-made rappresentano appunto l’attribuzione di un nuovo valore a elementi preesistenti. La differenza tra i détournement artistici e quelli situazionisti consiste nel fatto che mentre il punto di arrivo dei primi è un’opera che ha un valore autonomo ancora artistico, il punto di arrivo dei secondi è un prodotto che, pur potendosi avvalere di mezzi artistici […] si rivela immediatamente come la negazione dell’arte, soprattutto per il carattere di comunicazione immediata che contiene». Perniola, Cit. p 22.