Dada

1 Dada: arte e anti-arte

Nella Svizzera neutrale, nel mezzo della Prima guerra mondiale, un piccolo gruppo di poeti e artisti poco più che adolescenti fonda Dada: il movimento più radicale della storia dell’arte. Pacifisti, rifugiati, reduci, gente espulsa dalla storia, disgustata da un conflitto nato dall’abbraccio mortale tra nazionalismo e capitalismo. Artisti che si sentono traditi da un sistema di valori che, anche nelle sue forme più moderne e rivoluzionarie, è comunque intimamente legato al capitalismo, assoggettato al mercato e al profitto, alienante e ingiusto, non riformabile e quindi da rifiutare integralmente.

Il gruppo si forma a Zurigio nel 1916: l’artista Hugo Ball e la cantante Emmy Hennings convincono il proprietario di un bar a lasciarli utilizzare una sala sul retro del locale promettendo un incremento nella vendita della birra1. Nasce così il Cabaret Voltaire, il luogo in cui si riuniranno i primi dadaisti Huelsenbeck, Richter, Janco e Tzara. Al Cabaret Voltaire il movimento compirà i primi scandalosi esperimenti in cui teatro, musica, arte e vita si mescolano, scontrano e deflagrano. Già il nome del movimento, quel Dada che non significa nulla, scelto a caso forse da Tzara, segna la distanza dalle posizioni di tutte le altre avanguardie europee: Futurismo, Suprematismo, Cubismo, Costruttivismo, ecc. tradiscono nel nome la concezione di un’arte strutturata ideologicamente e motivata filosoficamente, lontanissima da quello spirito anarchico, antifilosofico, antisistema e distruttivo che sarà l’anima di Dada.

Nel libro Dada, arte e antiarte, la più organica testimonianza dell’esperienza dadaista scritta da uno dei suoi membri, Hans Richter scrive: «Il Dada non solo non ebbe alcun programma, ma fu in tutto e per tutto antiprogrammatico. Dada aveva come programma quello di non averne alcuno… e questo fatto, in quell’epoca e in quel momento storico, conferì a questo movimento la forza esplosiva per potersi estendere in TUTTE le direzioni senza impegni estetici e sociali. Questa assoluta mancanza di premesse costituì in effetti una assoluta novità nella storia dell’arte»2. Dada, nato nel cuore dell’Europa dilaniata da una guerra di matrice violentemente nazionalista, sarà un movimento trans-nazionale, a differenza di tutte le altre esperienze delle avanguardie storiche, radicate nell’identità nazionale (Futurismo-Italia, Bauhaus-Germania, Cubismo-Francia, Costruttivismo-Russia…).

Lo scopo di Tristan Tzara (poeta e autore dei primi strepitosi manifesti) e compagni è semplicemente quello di distruggere ogni linguaggio del passato, demolire ogni sistema di valori – culturali quanto economici – fare tabula rasa dei concetti di stile, genio, creazione, arte, gusto, bellezza. Per fare questo i dadaisti abbandonano i modi tradizionali dell’espressione artistica (la rappresentazione simbolica) e si affidano a procedimenti totalmente nuovi: ready-made, collage, assemblaggio, installazione, happening, performance, (di fatto, tutti i linguaggi che definiranno l’arte dal secondo Novecento a oggi); prediligono la fotografia e in genere la tecnologia perché anti-artistica e anti-naturalistica. I dadaisti adottano atteggiamenti che minano alla base tanto il contegno borghese quanto il fiducioso attivismo modernista: si affidano al caso, al gioco, alla provocazione insensata, al dileggio, ai gesti improduttivi, alle pratiche dispersive, cercano in ogni modo di sciogliere l’arte dentro i ritmi della vita quotidiana. 

«Noi – a parlare è ancora Hans Richter – abbiamo dipinto con le forbici, con la colla e con nuovi materiali, con gesso e con tela da sacchi, carta e ogni altro genere di mezzi, con collages e montaggi. Era un’avventura persino trovare una pietra, scoprire un meccanismo, trovare un semplice biglietto tranviario, un bell’osso, un insetto, “capire” un angolo della propria stanza: tutto ciò era capace di suscitare sentimenti genuini e diretti. Quando si fa aderire l’arte alla vita quotidiana e a esperienze particolari, l’arte medesima viene assoggettata agli stessi rischi delle leggi dell’imprevisto e al caso, al gioco delle forze vive»3.

Prelievo e collage

La tecnica d’elezione che i dadaisti utilizzano per demolire i canoni dell’arte, con i suoi linguaggi storicamente codificati e le sue tecniche rigidamente definite (disegno, pittura, scultura…) è quella del prelievo: cioè l’utilizzo di oggetti o segni prelevati direttamente dal mondo reale e collocati nel contesto artistico. È una strategia rivoluzionaria: per la prima volta dopo secoli l’artista non è più colui che rappresenta il mondo ma è colui che seleziona e presenta un pezzo di mondo.

Nelle esperienze futuriste e cubiste la tecnica del prelievo di oggetti del reale era già stata timidamente utilizzata, Picasso e compagni incollavano pezzi di giornale o piccole cose nei loro quadri, tuttavia essi rimanevano saldamente ancorati alla logica della rappresentazione simbolica del mondo e quanto prelevato veniva, per così dire, trasportato nel mondo della rappresentazione, nella cornice separata del quadro-scultura. I dadaisti rifiutano prima di tutto proprio il processo di rappresentazione e simbolizzazione del mondo e della vita (Picasso e Boccioni dipingono ancora quadri al cavalletto come facevano David o Raffaello secoli prima di loro).

Il collage – produrre immagini manipolando altre immagini – diviene lo strumento concettuale prima che tecnico con il quale i dadaisti affrontano i problemi della creazione. L’artista non è più colui che crea immagini dal nulla ma colui che preleva e trasforma le immagini che la società dei consumi rende disponibili. Il passaggio dal collage all’assemblaggio e all’installazione – cioè un collage che è diventato tridimensionale e quindi ambientale – è naturale e necessario.

Il prelievo e il collage promossi a strategia espressiva rappresentano una svolta radicale, un vero e proprio “cambio di paradigma”, e permettono una rivoluzione totale di ogni prassi consolidata, non solo nelle arti visive. Il collage diventa lo strumento per trasformare anche la lingua parlata e la letteratura. La poesia dadaista diventa il luogo di infinite sperimentazioni in cui le parole perdono il loro senso o addirittura s’inventano, (dopotutto, come si può utilizzare la stessa lingua parlata dai potenti che mandano al massacro milioni di persone), le frasi abbandonano la costruzione logica e i significati diventano mobili e ambigui e il linguaggio letterario diventa permeabile ai modi di dire, ai proverbi, alle volgarità, al gergo di strada o alle lallazioni infantili4. Le istruzioni per fare una poesia di Tzara sono, in questo caso, esemplari5.

Dada in mostra 

Le mostre Dada, come gli spettacoli del Cabaret Voltaire o dei festival organizzati in tutta Europa (che si concludevano quasi sempre con delle risse e delle scazzottate), sono il luogo della messa in pratica della furia iconoclasta, ludica e creativa dei dadaisti. Mostre e spettacoli allestiti con il preciso scopo di offendere il buon gusto del pubblico, irritare le autorità e suscitare scandalo e clamore. Ma, oltre a questo, sono il luogo in cui gli artisti e i poeti Dada  sperimentano forme assolutamente originali di allestimento e performance, portando il rapporto tra i diversi linguaggi artistici – arte visiva, teatro, musica, poesia – a un livello di compenetrazione completamente nuovo6.

Dada cammina

«Il 14 aprile 1921 a Parigi, alle tre del pomeriggio e sotto un diluvio torrenziale, Dada si dà appuntamento di fronte alla chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre. Con questa azione intende inaugurare una serie di escursioni nei luoghi banali della città. È un’operazione estetica consapevole, corredata con tanto di comunicato stampa, proclami, volantini e documentazione fotografica. […] Il passaggio dalle sale di spettacolo «all’aria aperta» è il primo passo di una lunga serie di escursioni, deambulazioni e derive che attraversano l’intero secolo come forma di anti-arte. Il primo ready-made urbano di Dada segna il passaggio dalla rappresentazione del moto alla costruzione di un’azione estetica da compiersi nella realtà della vita quotidiana. La frequentazione e la visita dei luoghi insulsi sono per i dadaisti una forma concreta per operare la dissacrazione totale dell’arte, per giungere all’unione tra arte e vita, tra sublime e quotidiano. […] l’operazione di Saint-Julien-le-Pauvre, è un rivoluzionario appello della vita contro l’arte, che contesta apertamente le tradizionali modalità dell’intervento urbano, campo d’azione tradizionalmente di pertinenza dei soli architetti e urbanisti. Prima dell’azione di Dada l’attività artistica poteva inserirsi nello spazio pubblico attraverso operazioni di arredo quali l’installazione di oggetti scultorei nelle piazze e nei parchi. […] Dada non interviene sul luogo lasciandovi un oggetto né prelevandone altri, porta l’artista, meglio ancora il gruppo di artisti, direttamente sul luogo da svelare, senza compiere alcuna operazione materiale, senza lasciare tracce fisiche se non la documentazione legata all’operazione – i volantini, le foto, gli articoli, i racconti – e senza alcun tipo di elaborazione successiva. […] L’opera sta nell’aver concepito l’azione da compiere, la visita, e non nelle azioni ad essa correlate»7.

Ready-made

Il rifiuto della rappresentazione del mondo porta i dadaisti ad adottare il collage come linguaggio di base e conduce, tra il 1914 e il 1917, Marcel Duchamp a concepire i primi ready-made8. Il reday-made è un oggetto trovato-fatto di cui l’artista si appropria e che utilizza per produrre una “scultura” apponendovi semplicemente un titolo e la propria firma9. L’oggetto trovato-fatto rimane sostanzialmente invariato (Fontana l’orinatoio presentato come una scultura continua a rimanere tale) viene però ricontestualizzato e risemantizzato assumendo così un nuovo significato e un diverso uso: è il gesto più radicale (e scandaloso) della storia dell’arte, e l’attacco più deciso al canone estetico occidentale.

La prima conseguenza di questo gesto è quella di demolire la figura dell’artista come genio creatore: per fare un ready-made non occorre saper dipingere come, per essere poeta, secondo Tristan Tzara, non serve saper comporre versi (le sue istruzioni per fare una poesia sono a tutti gli effetti un metodo per realizzare un ready-made letterario). Una conseguenza che porta a una liberazione e a una democratizzazione dei processi artistici totalmente nuova.

Un’altra conseguenza è che il destino dell’oggetto artistico non è più quello di essere un evento estetico. La bellezza come scopo dell’arte è una categoria filosofica che non si può più applicare a uno scolabottiglie o a un gabinetto. L’oggetto artistico non è né bello né brutto, i sensi dell’osservatore non sono più chiamati in causa e a essere decisivo nel rapporto con l’opera è il rapporto mentale, concettuale che si instaura con essa.

Nel ready-made la forma e il contenuto (il significato e il significante) vengono separati, in questa scissione si apre uno spazio di libertà inedito: l’esperienza artistica dadaista si produce tutta in questo iato, una zona sgombra in cui si crescerà anche tutta l’arte, che abbandonata l’idea di personalizzazione e di integrale adesione dell’artista al proprio medium, si può definire contemporanea

Indifferenza e Caso

Con il ready-made Marchel Duchamp introduce nel lavoro dell’artista due elementi completamente nuovi e profondamente rivoluzionari: il caso e l’indifferenza.Come si sceglie un oggetto per farne un ready-made? Semplice, si sceglie a caso. Gli oggetti non si selezionano in base a qualche loro tratto peculiare: un orinatoio, una pala da neve, uno scolabottiglie sono oggetti di origine industriale, sono prodotti e sono identici agli infiniti altri sfornati dal ciclo industriale. Le cose (che nei primi anni del Novecento si stavano massicciamente e inesorabilmente trasformando in merci) si offrono indifferentemente allo sguardo del consumatore, prive di qualità che non siano eminentemente utilitaristiche (uno scolabottiglie deve scolare in modo efficiente, una pala da neve deve spalare bene, un orinatoio…). Il ready-made distrugge l’idea di opera d’arte come oggetto unico, inimitabile e originale – infatti tutti i ready-made esistenti oggi sono repliche di quelli fatti da Duchamp, repliche autorizzate dall’artista perché, in realtà, non esiste un originaledei suoi ready-made.

Gli oggetti quindi non sono portatori di valori estetici e spirituali (siamo molto lontani dall’idealismo razionalista del Bauhaus) e Duchamp li vede, ed è il primo artista a vederli così, proprio per come sono: semplici cose, disposte indifferentemente alla sceltao alla non scelta del consumatore. Duchamp accetta l’oggetto per com’è veramente: effimero, obsolescente, anonimo. Se gli oggetti sono indifferenti gli uni dagli altri perché privi di un valore intrinseco, ontologico, l’artista dovrà affidarsi al caso per operare le sue selezioni e i suoi prelievi.

L’indifferenza e il caso diventano quindi dei generatori di forme e di pensieri e, soprattutto, la chiave per scardinare in modo irreversibile la logica dell’arte occidentale. Con Duchamp l’artista abdica a quello che è stato per secoli il suo potere: scegliere non cosa ma come mostrare e, attraverso la differenza (lo stile), definire in modo personale, inedito il mondo. 

L’attività di Duchamp ovviamente non si limita al ready-made, tutta la sua opera, specialmente quella giovanile è un incessante lavoro di demolizione e di ricombinazione degli elementi che compongono il canone aulico dell’arte. Sbeffeggiare la Gioconda, l’icona per eccellenza della pittura; mettere in dubbio la propria identità, la propria razza e il proprio genere sessuale; miniaturizzare la propria opera e trasformarla in una collezione portatile: ogni pezzo di Duchamp demistifica l’arte e la sua storia, irride gli artisti e la loro arrogante presunzione di essere diversi, demolisce l’oggetto artistico come portatore di un significato trascendente.

Ma l’aspetto veramente decisivo dell’opera di Duchamp, da cui deriva anche la capitale importanza per la storia dei linguaggi artistici (ed extra-artistici) del Novecento, è il privilegio assegnato alla dimensione speculativa su quella sensoriale (su quella che lui stesso definiva componente retinica o olfattiva dell’opera d’arte). Dopo Duchamp l’arte diverrà, piuttosto che un generatore di forme estetiche, una macchina che produce pensieri sulle forme, e quindi sulla vita. Con Duchamp e la rivoluzione dadaista l’arte si avvia a diventare quella che conosciamo e pratichiamo oggi: un luogo in cui si fa soprattutto filosofia, un esito che comincerà a diventare possibile grazie al lavoro di alcuni grandi precursori a partire dagli anni Cinquanta (Cage, Warhol, Manzoni, Klein) e percorribile a partire dagli anni Sessanta e Settanta con l’arte concettuale.

Merzbau

Si è detto come il passaggio dal prelievo al collage e quindi all’installazione sia una progressione naturale: ecco allora che, nell’alveo delle esperienze dadaiste, appare l’altro grande oggetto che con il ready-made di Duchamp rappresenta un punto di svolta decisivo per le sorti dei linguaggi, non solo artistici, del Novecento: il Merzbau di Kurt Schwitters.

Schwitters ha lavorato al Merzbau per oltre dieci anni. L’artista ha cominciato a «comporre» la sua opera agglomerando ogni sorta di oggetto in disposizioni sempre più vaste e complesse, dapprima nel suo studio, spingendosi poi nel resto della sua casa, invadendo le stanze attigue, forando pareti e soffitti, costruendo cunicoli e passaggi, tunnel che attraversavano tutti i tre piani dell’edificio, eccone in sintesi la storia: «Il Merzbau è stato creato negli anni dal 1920 al 1936 nell’appartamento di Kurt Schwitters, nella Waldhausenstrasse 5A a Hannover. Cominciò nel suo atelier e si estese, fino alla partenza di Kurt Schwitters per la Norvegia nel 1936 (per fuggire dai nazisti), nei locali adiacenti dell’appartamento, e nell’appartamento due piani sopra, sulla veranda, nel semi interrato sottostante ecc. Locale centrale restava l’atelier di Kurt Schwitters. Nell’anno 1932/33 l’atelier venne fotografato in tre viste grandangolari del formato 18x24cm (dal fotografo del Landesmuseum di Hannover). Degli altri locali non esistono fotografie. Erns Schwitters, il figlio di Kurt, raccontava che nei primi anni della guerra si era fatto spedire il suo archivio fotografico, tra cui numerose fotografie del Merzbau, con un volo corriere notturno per la Norvegia: l’aereo fu abbattuto. Nel 1943 una bomba colpì la Waldhausenstrasse 7A e il Merzbau venne distrutto. Ernst Schwitters, il figlio: Così scomparve quasi tutta l’opera scultorea di Kurt Schwitters. Si trattava sicuramente almeno della metà della lavoro della sua vita, gli ha dedicato più tempo e fatica, che a tutte le altre opere rimanenti. Sono restate unicamente le piccole e meravigliose colorate forme dei suoi disegni, gli impressionanti quadri più grandi, e la sua prosa umoristica-filosofica. E il mito del Merzbau»10.

Il Merzbau si presenta, piuttosto che come un’opera d’arte tradizionale risolta in se stessa, come un “processo” creativo fluido, in-terminabile e aperto a continue trasformazioni, in cui ogni nuova aggiunta o sottrazione modifica la rete di relazioni e significati di cui è composta. Il cuore del Merzbau risiede proprio nel fatto di essere un processo di creazione e la sua manifestazione materiale, il cumulo di detriti, non è che il residuo fisico di una esperienza, di un pezzo di vita dell’autore. Si introduce in arte (e più in generale nella cultura) un altro di quei concetti chiave su cui si articoleranno le esperienze delle neoavanguardie del dopoguerra e delle estetiche contemporanee: l’oggetto artistico si scioglie nelle pratiche performative, nei gesti e si riduce (o si amplifica, dipende dai punti di vista) a essere il sedimento di un’esperienza piuttosto che il suo obiettivo.

Il Merzbau porta in arte il concetto di opera aperta e di bricolage: la possibilità quindi di lavorare adottando metodi che si sottraggono alla logica del progetto (nel progetto il risultato finale, l’oggetto, non è che il punto di arrivo di un percorso premeditato) e di sperimentare tattiche creative opposte a quelle che in quegli stessi anni si stavano mettendo a punto nel mondo dell’industria e dell’arte modernista in cui la prassi era assoggettata alla teoria e il risultato allo scopo. Il Merzbau rappresenta un modello di creazione completamente alternativo in cui la prassi è svincolata dalla teoria e lo scopo è la prassi stessa.

La stessa forza disaggregante e ricombinatoria che muove l’opera visiva di Schwitters è alla base anche della sua straordinaria esperienza letteraria, la cui maggiore realizzazione è la Ursonate, la sonata presillabica, in cui le sillabe si compongono come in un poderoso collage sonoro. Come il Merzbau, la Ursonate è fatta di scarti, in questo caso verbali, che si agglomerano in nuove e imprevedibili disposizioni e, come il Merzbau, trova il suo senso non tanto nel sua compiutezza letteraria, quanto nel processo performativo della sua esecuzione.

Processuale e concettuale

I dadaisti, Duchamp e Schwitters, lasciano sul campo due modelli creativi completamene nuovi: con il ready-made l’arte si trasforma in un fatto mentale, concettuale in cui a essere interrogati non sono i sensi dell’osservatore ma il suo “appetito di comprensione” come diceva lo stesso Duchamp; e un’opzione processuale in cui l’arte si scioglie nella vita e l’oggetto artistico diviene il sedimento di un’esperienza. Le due opzioni, così innovative per la pratica dell’arte – ready-made (arte come concetto) e dal Merzbau (arte come processo) – non troveranno sviluppi negli anni immediatamente successivi. Le esperienze delle avanguardie saranno spente negli anni Trenta dai regimi totalitari e poi dalla guerra – ma diventeranno a partire dagli anni Sessanta il punto di partenza di una nuova stagione avanguardista e diventeranno la base dei linguaggi delle arti del XXI secolo.

L’esperienza dadaista non si può comprimere nell’opera, seppure capitale di Duchamp e Schwitters, nella loro furia iconoclasta gli artisti dadaisti ritagliano, incollano, assemblano, accumulano e mescolano gli elementi della realtà, creano caos dove c’è ordine e misura, sconvolgono le gerarchie tra gli oggetti, le forme, i generi; ammassano scarti, raccolgono e combinano rifiuti, contaminano le forme (proprio in un momento in cui in Europa prende fatalmente sempre più piede un ideale di purezza e igiene sociale, politico, culturale, razziale); capovolgono il senso degli oggetti; ridefiniscono il senso dei luoghi; si travestono confondendo le biografie, le storie personali, le genealogie, rifiutando l’identità anche sessuale. Con i ready-made, i collages, gli accumuli demoliscono le pratiche della creazione costruite sul mito dell’inimitabile personalità dell’artista; con le performance urbane rifiutano gli spazi angusti delle gallerie e liberano le loro energie sovversive nella città; con gli happening cercano di trascinare gli spettatori, fino ad allora elementi separati ed esterni alla creazione artistica, dentro al vortice stesso della creazione, annullando l’alienante distanza tra il produttore di valori, in questo caso estetici, e il suo consumatore.

L’esperienza Dada è di breve durata, dieci anni circa, consumata dalla sua stessa furia distruttiva, dispersa proprio da quell’energia centrifuga che ne ha dato origine. Molte le straordinarie innovazioni dadaiste saranno assunte dal Surrealismo, movimento che in buona parte sorge proprio sulle macerie di quello fondato da Tzara.

[N]

1 «Quando fondai il Cabaret Voltaire, ero convinto che ci sarebbero stati in Svizzera altri giovani desiderosi quanto me, non solo di godere della loro indipendenza, ma di darne anche la prova. Mi recai dal signor Ephraim, proprietario della Meierei, e gli dissi: “Vi prego signor Ephreim di darmi la sala. Vorrei fondare un cabaret artistico”. Ci mettemmo d’accordo e Ephreim mi diede la sala. Andai da alcuni miei conoscenti. “Datemi, vi prego, un quadro, un disegno, una stampa. Vorrei associare una piccola mostra al mio cabaret.” Alla stampa favorevole di Zurigo dissi: “Aiutatemi. Voglio fare un cabaret internazionale: faremo belle cose”. Mi furono dati dei quadri, si pubblicarono dei trafiletti. Così il 5 febbraio noi avemmo un cabaret. La signora Hennings e la signora Leconte cantarono in francese e in danese. Tristan Tzara lesse alcune delle sue poesie rumene. Un’orchestra di balalaiche eseguì canzoni popolari e danze russe. (…) Il piccolo fascicolo che pubblichiamo oggi è frutto della nostra iniziativa, e della collaborazione dei nostri amici in Francia, in Italia e in Russia. Esso deve indicare l’attività e gli interessi del Cabaret, la cui intenzione è esclusivamente quella di ricordare, al di là della guerra e delle patrie, quei pochi indipendenti che vivono di altri ideali. Lo scopo immediato degli artisti qui riuniti è l’edizione di una rivista internazionale. La rivista nascerà a Zurigo e porterà il nome di “Dada”. Dada Dada Dada Dada». Hugo Ball, Cabaret Voltaire. Traduzione di Agnese Cornelio e Nino Muzzi. Castelvecchi, Roma, 2017. p.7. 

2 Hans Richter, Dada arte e antiarte. Mazzotta, Milano, 1966, p. 40.

3 Cit. p. 59.

4 Vedi Valerio Magrelli, profilo del dada. Laterza, Bari, 2006.

5 Per fare una poesia dadaista: Prendete un giornale. / Prendete le forbici. /Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia. / Ritagliate l’articolo. / Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettetele in un sacco. / Agitate delicatamente. / Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco. / Copiate scrupolosamente. / La poesia vi somiglierà. / Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.

Tristan Tzara, Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, letto al Festival dada a Parigi il 12 dicembre 1920 e pubblicato nel n.4 della rivista Vie des Letters, 1921. Tristan Tzara, Manifesti del dadaismo. Traduzione di Ornella Volta. Einaudi, Torino, 1964. p. 56.

6 Due resoconti di mostre dadaiste. Così Montesamo nella postfazione del romanzo di Max Ernest, Una settimana di bontà: «All’inizio del 1920 un Ernst ventottenne organizzò con gli amici artisti Baargeld e Arp una mostra dadaista nel cortile di un caffè nel centro di Colonia: la mostra si chiamava Dada Ausstellung, Dada-Worfrühling. […] Per accedere alla mostra bisognava passare per i bagni dove faceva bella mostra di sé un orinatoio duchampiano, e che, all’ingresso una «petite fille» che indossava il vestito della prima comunione […] recitava poemi osceni. Al centro del cortile si levava un objet dadaista di Ernst, una sorta di ceppo da macellaio o da carnefice a cui era attaccata una con una catena una mannaia che il pubblico era invitato a usare per distruggere il ceppo-patibolo. In un angolo Baargeld aveva installato un misterioso e incongruo «Fluidoskeptrik»: un acquario di vetro colmo di un’acqua rossa a simulare il sangue, in fondo al quale giaceva una sveglia e sulla cui superficie si muoveva mollemente una chioma femminile. […] Alle pareti erano appesi collage dada sarcasticamente sacrileghi o scandalosamente erotici. La mostra scatenò la rabbiosa reazione degli abitanti di Colonia, che staccarono i collage dalle pareti, li calpestarono e distrussero quasi tutti gli objets dadaisti: finché le autorità di Colonia, per impedire che lo scandalo crescesse, proibirono la mostra». Giuseppe Montesano, Le sirene cantano quando la ragione si addormenta. In Max Ernst, Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini. A cura di G. Montesano. Adelphi, Milano, 2007. p. 491.

E così Pugliese in Monumenti effimeri: «Dal 30 giugno al 25 agosto 1920 Raoul Hausmann, George Grosz e John Heartfield organizzarono a Berlino la “Erste Internationale Dada-Messe” ovvero la Prima Fiera Internazionale Dada, una mostra di dipinti, collage, manifesti e assemblaggi. L’allestimento era parte integrante del progetto, dipinti e collage erano circondati da manifesti che riportavano stampati slogan dadaisti contro arte, guerra e borghesia. Alle pareti erano anche appese riproduzioni di opere di maestri della storia dell’arte, da Picasso a Botticelli, opportunamente “corrette” con scritte e manifesti. Un manichino in uniforme con la faccia da suino pendeva dal soffitto mentre in una seconda saletta era esposto quale “architettura monumentale dadaista” il Grande-plasto-dio-dada-drama di Johannes Baader, un precario assemblaggio polimaterico». Barbara Ferriani e Marina Pugliese, Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni. Electa, Milano, 2009. p. 26.

7 Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica. Einaudi, Torino, 2006. p. 45.

8 Marcel Duchamp, Scritti. A cura di Michel Sanouillet, traduzione di Maria Rosaria D’Angelo. Abscondita, Milano, 2005. p. 165.

9 Nella letteratura sull’argomento si distinguono con il termine Readymade le opere realizzate da Duchamp selezionando gli oggetti ed elevandoli allo statuto di arte apponendovi titolo e firma (falsa), dagli oggetti – o immagini o parole – che, in vario modo, sono utilizzati per produrre arte. Con il termine ready-made si indica quindi la procedura di manipolare oggetti trovati-fatti per produrre arte. La scolastica (e magistrale) descrizione che Giulio Carlo Argan dà del Readymade di Duchamp può, per estensione, diventare una definizione di ready-made: «Duchamp ha esposto un orinatoio firmandolo con un nome qualsiasi, Mutt. Tuttavia, ponendo una firma, ha voluto dire che quell’oggetto non aveva un valore artistico in sé, ma lo assumeva col giudizio formulato da un soggetto. Ma come lo formula se non dispone più di modelli di valore? Di fatto si limita a separare l’oggetto da contesto che gli è abituale ed in cui adempie ad una funzione pratica: lo disambienta, lo svia, lo porta su un binario morto. Stralciandolo da un contesto in cui tutto essendo utilitario nulla può essere estetico, lo situa in una dimensione in cui nulla essendo utilitario tutto può essere estetico. Ciò che determina il valore estetico, dunque, non è più un procedimento tecnico, un lavoro, ma un puro atto mentale, una diversa attitudine nei confronti della realtà». Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770/1970. Sansoni Firenze, 1971-1982. p. 435.

10 merzbaurekonstruktion.com

2 Surrealismo

La stagione di Dada è tanto feconda quanto breve, il movimento si disgrega proprio in virtù dell’energia entropica, della forza dissolutoria che ha liberato. Nel 1924 André Breton, si stacca da quello che resta del movimento (poco dopo dichiarato morto dallo stesso Tzara) pubblica il primo manifesto surrealista1. Il Surrealismo si pone in precisa continuità con la poetica dadaista ma con una più densa struttura teorica e con un preciso progetto politico. La cesura più netta con il dadaismo risiede nel fatto che i surrealisti ricominciano a dipingere e la pratica artistica è riportata dentro ai confini della rappresentazione simbolica del mondo (che da realistica diventa onirica) e le immagini che si producono tornano a rispondere alla logica tradizionale del quadro-scultura.

Al centro dell’attenzione surrealista c’è ancora la condizione del cittadino moderno: alienato, soggetto al dominio del capitale, represso dalle convenzioni borghesi e sempre più oppresso dallo stato. Scrive Mario De Micheli: «secondo i surrealisti il problema della libertà presenta due facce: quella della libertà individuale e quella della libertà sociale; quindi devono essere due anche le soluzioni, benché la libertà sociale, da attuare attraverso la rivoluzione, sia premessa indispensabile per realizzare la libertà dello spirito»2.

Marxismo e psicanalisi sono gli strumenti per attuare l’una e l’altra, o meglio l’una nell’altra. Con la vittoria del marxismo si sarebbe liberata la società dall’oppressione del capitale, con gli strumenti della psicanalisi si sarebbe liberata l’energia repressa in ogni individuo. I surrealisti aderiscono all’Internazionale Comunista e sono politicamente attivi contro i fascismi che si stanno impossessando dell’Europa (in molti andranno a combattere nella guerra civile spagnola).

Scrittura Automatica

Le tattiche estetiche surrealiste sono di derivazione dadaista – collage, ready-made, performance; gioco, provocazione, scandalo – ma vengono affrontate con un approccio meno scalmanato. L’acquisizione fondamentale della prassi surrealista è quella della scrittura automatica: con l’automatismo si può liberare l’energia psichica pura ed esprimere – parola di Breton – sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi atro modo, il funzionamento reale del pensiero. La scrittura automatica produce una sostanziale inversione nella prassi creativa che si può sintetizzare così: il segno anticipa il significato. L’artista non è più colui che pensa e quindi produce un segno, ma comincia a pensare dopo che ha prodotto il segno. La scrittura automatica demistifica uno dei miti su cui si fonda l’idea occidentale di creazione – l’idea governa l’immagine – gettando le basi per il successo delle filosofie orientali e zen della seconda metà del Novecento.

Sul montaggio

Tutta la produzione visiva surrealista si forma a partire dalle acquisizioni dadaiste, quindi: caso come generatore di linguaggio, prelievo come strumento creativo e montaggio (collage) di materiali differenti. Il montaggio è utilizzato dai surrealisti per disarticolare i discorsi e disaggregare la superficie del visibile, per de-costruire il linguaggio, per disorganizzarlo e liberare così le pulsioni profonde normalmente imbrigliate, sedate dalle sovrastrutture concettuali. Nel montaggio si rivela più compiutamente l’estetica surrealista e per questo i risultati migliori sono stati ottenuti con linguaggi fluidi ed ellittici come la poesia o che prevedono il movimento, come cinema. In pittura e scultura – forme statiche e immanenti (a parte rari casi, Picabia e Magritte ma soprattutto Max Ernst) –, l’estetica surrealista non ha prodotto capolavori paragonabili alle esplorazioni letterarie di Breton, Eluard, Desnos, Soupault, Aragon, Artaud… o alle opere cinematografiche di Luis Bunuel (Un chien andalou, L’age d’or), Jean Cocteau (Le sang d’un poète) Man Ray (L’etoile de la mere), Hans Richrer (Dreams that money can buy), René Clair (Entr’acte), film che hanno lasciato tracce profondissime nella cultura cinematografica del secolo.

Il perturbante

Liberare le pulsioni profonde, l’erotismo inibito dalla religione e dalla morale borghese, dare voce all’inespresso, ai pensieri neri, crudeli, confondere veglia e sonno spalancando le porte all’abisso onirico: ecco cosa le opere dei surrealisti cercano di attivare negli spettatori. Per raggiungere questo scopo la ragione deve essere messa in sacco, la logica deve essere imprigionata nei non-sense, lo spirito cartesiano deve perdersi in labirinti di figure enigmatiche e il gendarme dell’utilitarismo deve essere sconfitto da misteri irrisolvibili. Ma anche l’artista deve essere disposto a perdersi dentro le sue stesse figure, a smarrire la propria identità, a essere spettatore delle proprie creazioni: l’automatismo nella scrittura, il collage con l’accostamento casuale di immagini, i cadaveri squisiti (disegni elaborati da più mani) tutto serve per diluire, smorzare, sopraffare la coscienza dell’artista, e infine liberare la creatività profonda in una sorta di viaggio psichedelico antelitteram. Tutto questo porta i surrealisti a interessarsi al concetto freudiano di perturbante.

Il Surrealismo è il movimento che più di ogni altro si è interessato del mondo delle merci e delle immagini pubblicitarie. Nella loro critica a una società asservita dal mercato gli artisti hanno comunque guardato con interesse al linguaggio pubblicitario, soprattutto nella tecnica di isolare e presentare i prodotti: «L’isolamento dell’oggetto è infatti visto in ambito surrealista come una decontestualizzazione che lo evidenzia come simbolo sessuale o come oggetto del desiderio – come feticcio – in una visione di quello che Freud ha battezzato il Perturbante, il familiare che si ripresenta sotto nuove vesti e in un altro contesto come non-familiare, come insieme noto ma portatore di ignoto»3.

Tutta l’estetica surrealista si forma attorno a quest’idea di perturbante: nel cinema come in pittura, in fotografia o in poesia, gli elementi dell’espressione subiscono torsioni e spostamenti, modificazioni nella sintassi e nell’iconografia, sfasamenti nel montaggio e nello sviluppo logico. L’arte surrealista è quindi un luogo in cui le cose familiari sono facilmente identificabili ma insieme estranee e ambigue. Questa ambiguità, che è tipica della dimensione onirica – anche se non in modo esclusivo – è il tratto peculiare dell’estetica surrealista.

[N]

1 Vedi, André Breton, Manifesti del Surrealismo. Traduzione di Liliana Magrini. Einaudi, Torino, 2003.

2 De Micheli, Le avanguardie artistiche. p. 175.

3 Elio Grazioli, Arte e pubblicità. Bruno Mondadori, Milano, 2001. Citazione modificata. p.96.

3 Ritorno all’ordine

Ma, mentre dadaisti e surrealisti progettano la rivoluzione e cercano di incendiare gli sguardi e le coscienze, in buona parte d’Europa s’impara a marciare al passo dell’oca. In Italia, dopo le fiammate del primo Futurismo e dopo i massacri della Prima Guerra Mondiale, s’insediano poteri reazionari prima e totalitari poi. Per molti artisti è tempo di una revisione delle proprie posizioni – i futuristi Carrà e Severini, ad esempio, abbandonano il movimento – per altri è il momento di esprimere meglio il proprio dissenso verso gli atteggiamenti iconoclasti e dissacratori degli avanguardisti. Per i Futuristi di Marinetti ancora attivi è tempo invece di sincronizzare la propria attività con le esigenze di un potere che di rivoluzione (che non sia quella fascista) non vuole sentir parlare.

Gli anni Venti e Trenta sono gli anni del ritorno all’ordine. Ritorno alle forme antiche dell’espressione artistica: pittura e scultura sono interpretate nella maniera più tradizionale; riemergono temi come il ritratto, il nudo, il paesaggio trattati in pagine di ferma classicità. È un’arte che guarda al passato, che nel passato, nella grandezza della storia, nei modelli, nel canone dell’antichità cerca la propria legittimazione. È un’arte che naturalmente piace a un regime che proprio nella storia, nei fasti passati della nazione, nel destino di grandezza “dell’italico suolo” fonda la sua mitologia e cerca la sua legittimazione. 

È un’arte che si confronta anche con una censura via via più stingente e opprimente (parafrasando il Montale degli stessi anni: un’arte che può dire quello che non è), e con le pretese di un regime che ha bisogno di essere rappresentato secondo i canoni precisi di una robusta, maschia e orgogliosamente fascista classicità.

Art Déco

Gli anni Trenta sono comunque un periodo complesso in tutta Europa, la crisi economica del ’29 spegne molti dei fiduciosi furori modernisti che hanno alimentato le avanguardie artistiche, anche se la progressiva trasformazione della società in “società di massa” non si arresta e i nodi tra capitale, industria, potere, cultura, ideologia andranno stringendosi sempre di più trascinando l’Europa e poi il mondo nella guerra.

La cultura popolare di questa nuova “società di massa” trova in questi anni nello stile Déco il proprio linguaggio: «Nell’Art Déco confluirono i geometrismi del Cubismo, il dinamismo futurista, le accese cromie dei Fauves, le morbidezze cromatiche dell’Orfismo»1. Uno “stile borghese” e di largo consumo – dal cinema al design, dall’architettura ai fumetti, dalla moda alla pubblicità – che si appropria di tutte le invenzioni dell’arte d’avanguardia (immaginate proprio in antagonismo allo stile dei borghesi) traducendo in un linguaggio accattivante, semplice e diffuso le esperienze estreme e intransigenti del modernismo militante. Gli esperimenti degli artisti d’avanguardia diventano, una volta svuotati dai contenuti ideologici e sgravati dalle elaborazioni teoriche, forme pure da spendere nel gioco della comunicazione e dell’intrattenimento. A titolo di esempio: il cinema diventa un luogo in cui tutte sperimentazioni dell’avanguardia, anche le più ardite e apparentemente fini a se stesse, diventano praticabili. Persino il cinema astratto di Richter e Opus trova nelle coreografie hollywoodiane (di Busby Berkeley) fatte di forme in movimento (con apparati scenici in cui corpi e macchine si fondono, impossibile non pensare a Schlemmer) esiti sorprendenti.

[N]

1 Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica dal 1851 a oggi. Einaudi, Torino, 2011. p.183.

Lascia un commento