Arte

Immagini tecniche

Nel libro Immagini Vilém Flusser riflette sull’importanza che queste hanno assunto nella nostra cultura. Il testo, scritto a metà degli anni Ottanta, registra l’invasione mediale e l’impatto delle immagini generate tecnicamente sui modelli di riproduzione sociale prefigurando gli odierni scenari. Flusser scrive all’alba della rivoluzione informatica, negli anni in cui si verifica un cambiamento di paradigma, in cui le immagini generate tecnicamente diventano sempre meno emissioni centralizzate (cinema, televisione, pubblicità, informazione pubblica) e cominciano ad assumere la dimensione reticolare, polverizzata e autogenerativa che conosciamo oggi. 

Per Flusser è in atto un cambiamento antropologico: «si tratta di una rivoluzione culturale la cui ampiezza noi iniziamo solo ora a intuire». L’autore esordisce definendo la natura della trasformazione imposta dal proliferare delle immagini tecniche nella cultura moderna: «poiché l’uomo, a differenza delle altre specie viventi, vive soprattutto sulla base delle informazioni ricevute, e meno su quelle ereditate geneticamente, la struttura del portatore di informazione ha un influsso decisivo sulla nostra forma di vita».

L’uomo vive grazie alle informazioni che raccoglie e trasmette, grazie a queste informazioni riesce a modificare l’ambiente adattandolo alle sue necessità. Durante la modernità le immagini sono diventate il veicolo con il quale si trasmettono le informazioni, queste sono andate a sostituirsi ai testi lineari che per secoli sono stati il supporto per la trasmissione e la conservazione delle informazioni. «Se i testi vengono sostituiti dalle immagini, noi viviamo, conosciamo e valutiamo il mondo e noi stessi diversamente da quanto facevamo in precedenza: non più in maniera unidimensionale, lineare, processuale, storica, bensì in maniera bidimensionale, come superfici, come contesto, come scena». Per Flusser dunque la nostra cultura si costruisce attraverso le immagini, come contesti, scene e noi ci comportiamo di conseguenza, non più «drammaticamente» ma come «collocati in campi relazionali»1.

Secondo Flusser «Le immagini tecniche non rappresentano qualcosa (sebbene sembra facciano ciò), bensì proiettano qualcosa. Il significato delle immagini tecniche è qualcosa progettato dall’interno verso l’esterno (è indifferente, se sia una casa fotografata o l’immagine al computer di un aereo da costruire) ed è là fuori solo dopo che è stato progettato. Perciò le immagini tecniche sono da decifrare non a partire dal significato, ma piuttosto dal significante. Non da ciò che esse mostrano, ma dal modo in cui lo mostrano»2.

Le immagini tecniche pertanto non rappresentano ma proiettano, sono emissioni di senso, Flusser disarticola così il mito dell’oggettività, dell’aderenza dell’immagine generata tecnologicamente all’oggetto a cui si riferisce. E, sempre più, le immagini tecniche non si pongono come rappresentazioni, per quanto fedeli, della realtà ma come simulazioni entro cui la realtà si dissolve. In questo evaporare della realtà dentro le immagini generate tecnologicamente si produce anche l’effetto della scomparsa delle stesse immagini nell’efficacia della simulazione: una forma silenziosa e paradossale di iconoclastia.

[N]

1 Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009. p. 6

2 Ivi, p. 65

Immaginazione interattiva

Negli ultimi trent’anni la rivoluzione informatica ha compiuto un radicale processo trasformazione dello spazio pubblico e personale, modificando radicalmente le dinamiche relazionali tra i singoli e tra i gruppi, definendo nuovi modelli di socialità e di narrazione di sé. I dispositivi con cui produciamo e facciamo circolare le immagini diventano ogni giorno più solubili, corporei portando a uno stato di astrazione il nostro rapporto con la realtà e con noi stessi. Su questi temi riflette Pietro Montani nel libro Tecnologie della sensibilità, cercando di costruire una filosofia – e quindi una prassi – che consenta di comprendere e magari governare questi processi di trasformazione antropologica.

Montani descrive tre tipi di immaginazione: «riproduttiva (un discorso che conserva e richiama ciò che ha conservato), produttiva (un dispositivo che ricombina, integra, progetta e configura) e interattiva (un dispositivo che incide sulla modificazione dell’ambiente facendosi guidare da ciò che vi trova o da ciò che vi trova o proietta)»1. L’immaginazione è lo strumento con il quale definiamo, conosciamo, modifichiamo e rendiamo abitabile il nostro ambiente. Gli animali non umani non sono dotati di immaginazione. L’autore fa questo esempio: gli animali non umani non scorgono, non immaginano, nel ramo flessibile, la funzione “arco” e la potenzialità dello scagliare frecce. Pertanto «la profilatura che mette a fuoco nel ramo di oleandro la possibilità di trasformarsi in un arco, in altri termini, è un prodotto di immaginazione interattiva»2

L’autore afferma che la sensibilità umana è naturalmente predisposta alla delega tecnica: «la sensibilità umana, in altri termini, è fatta in modo tale da prolungarsi spontaneamente in artefatti inorganici (protesi della sensibilità) senza, con questo, alterare la sua specificità»3. L’autore si chiede anche se ci sia «una soglia critica oltre la quale la delega tecnica […] rischia di esercitare un effetto di occultamento del carattere “misto” (un intreccio tra naturale e artefatto) […] » dentro la quale la sensibilità umana «esercita la sua attività».

Un eccesso di delega tecnica può affievolire la nostra capacità di immaginare, di produrre un dialogo con l’ambiente che ci circonda, dirottandola in «pratiche di carattere autoreferenziale»4 e subire i discorsi degli apparati che ci governano. Il superamento di questa soglia produrrebbe disturbi nella relazione tra la nostra sensibilità (all’ambiente), la nostra immaginazione (facoltà di interagire in modo creativo con l’ambiente) e il nostro linguaggio (capacità di relazionarci con l’ambiente) fino la limite di dissociare queste facoltà così interconnesse. Rischio che si intravvede nelle attuali prestazioni dei social network: ripetitivi, standardizzati, omologanti5.

Per recuperare (stimolare, eccitare, ampliare) la facoltà dell’immaginazione bisogna tornare a essere interattivi in senso pieno: per definire l’argomento l’autore utilizza la ricerca filosofica di Dewey «che pone al centro della riflessione l’interazione tra la peculiare sensibilità del corpo umano – pulsionalità, percezione, immaginazione, emozioni, senso del possibile, bisogno di condivisione – e ciò che questa sensibilità riceve, elabora e trasforma». L’ambiente che ci circonda però non è una «semplice materia da ordinare e mettere in forma (cognitivamente e operativamente)» ma è una «indeterminata e ricca molteplicità di stimoli da cui estrapolare di volta in volta le proprietà […] che fanno dell’ambiente reale un ambiente che appare disponibile proprio in quanto non è immediatamente sottomano ma oppone resistenza». L’ambiente quindi, stimola la nostra immaginazione proprio perché oppone resistenza, non solo «preserva ampie zone di irriducibilità all’azione organizzatrice»6.

Un eccesso di delega tecnica o di automazione comprime queste zone caotiche e trasforma la relazione con la complessità irriducibile del mondo a una prestazione autoreferenziale e senza imprevedibilità. Se la realtà non oppone resistenza non dobbiamo più utilizzare la nostra capacità di immaginazione (creatività) per superare gli ostacoli, risolvere i problemi, evolvere. Il progetto dei dispositivi tecnici è oggi largamente orientato in «direzione di un livellamento, di una contrazione e di una potente canalizzazione del sentire […], in una direzione prevalentemente anestetica»7. L’estensione della delega tecnica tende a comprimere la nostra esperienza immaginativa, azzerando sempre di più le zone di imprevedibilità, diventando an-estetica. La discussione sul nostro rapporto presente e futuro con le intelligenze artificiali investe precisamente questi problemi.

Montani dice che la tecnica, e l’esperienza ottimizzata che facciamo del mondo attraverso di essa, ci sta spingendo verso una sensibilità e una immaginazione non interattive ma ipomediali8. Per riattivare percorsi di senso altrimenti impossibili bisogna ritrovare auto-nomia, «vale a dire al facoltà di darsi da solo la regola della propria sensatezza, o più precisamente come manifestazione di una creatività capace di istituire in un modo originario un ambito normativo»9. Affermare la propria autonomia, come spettatori o come creativi, rispetto ai palinsesti precompilati serviti quotidianamente dalla macchina del consumo è per altro l’orizzonte, se non la soglia, in cui si sono mossi tanti protagonisti dell’arte del Novecento a partire da Duchamp e Schwitters, ed è anche ciò che molte pratiche artistiche contemporanee invitavo a fare.

[N]

1 Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014. p. 12

2 Ivi, p. 34. Allo stesso modo, è un prodotto di immaginazione interattiva coniugare o “montare” la forma e la funzione orinatoio a quella di fontana e generare un nuova forma, una nuova funzione, partendo da due informazioni divergenti.

3 Ivi, p. 35

4 Ivi, p. 36

5 Ivi, p. 36-37

6 Ivi, p. 40

7 Ivi, p. 44

8 Ivi, p. 48

9 Ivi, p. 53

Happening Unscripted

«Unscripted: I programmi senza sceneggiatura. Sono i cosiddetti contenuti “unscripted”: reality, giochi e talent da tv tradizionale, che stanno diventando sempre più importanti anche per lo streaming. Da ormai quasi un decennio, quando un servizio di streaming vuole guadagnare mercato e nuovi spettatori punta anzitutto su una grande serie tv. Successe per la prima volta nel 2013, quando per farsi conoscere e far capire cosa ambiva a diventare Netflix investì molto su House of Cards, ingaggiando un grande attore hollywoodiano come Kevin Spacey. […] E continua a succedere, come mostrano gli investimenti e l’attesa per la serie Amazon su Il Signore degli Anelli. Negli ultimi anni, tuttavia, chi si occupa di streaming si è accorto che se è vero che certe serie fanno conquistare nuovi abbonati, tra una serie e l’altra servono anche contenuti di altro tipo, per molti versi simili a quelli della televisione tradizionale. Sono i cosiddetti contenuti unscripted, cioè quelli senza una vera e propria sceneggiatura che degli attori devono recitare. I contenuti unscripted possono essere tante cose, dal reality al documentario, dai quiz ai talent, dal talk show alla “tv della gente”. Dai programmi di cucina ai documentari di musica basati sulle interviste, dalle competizioni di drag queen alle Cucine da incubo, tra gli addetti ai lavori non tutti sono d’accordo su dove mettere esattamente i confini tra cosa è o non è unscripted […]. Come ha osservato Bloomberg: “nel tentativo di trattenere abbonati volubili e impazienti, i servizi di streaming sono in competizione per quello che si considerava essere un caposaldo della vecchia televisione, col fine di accaparrarsi varie forme di contenuti unscripted”»1.

L’articolo apparso sul Il Post mette a fuoco la natura di questi contenuti che occupano gran parte dei palinsesti della TV e ora delle piattaforme di steeaming. Si tratta di contenuti che nascono in qualche misura come autogenerati, senza una componente “autoriale” forte, con una cornice narrativa debole e un’altissima componente performativa. È un aspetto diffuso della cultura della rete e si ritrova in modo pulviscolare nei social, in cui gli utenti praticano quotidianamente una forma elementare ma non per questo meno interessante di reality show.

Il reality show fa la sua comparsa nella televisione all’inizio degli anni Novanta, si consolida come format, cioè come linguaggio, nel decennio successivo ma ha la sua origine altrove. Il format televisivo del reality è stato creato da John de Mol: «è un olandese che ha costruito una società creativa, la Endemol. […] de Mol ha al suo attivo idee come The Bus, format televisivo incentrato sulla convivenza, a cui però deve aggiungersi il nomadismo e la sopravvivenza. […] Chains of Love, un esperimento basato sul senso non metaforico del “legame”. […] Infine Big Brother: per quest’ultimo, de Mol sostiene di essersi ispirato al progetto scientifico Biosphere, un esperimento americano teso a ricercare in un ambiente chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. […] Big Brother focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane, considerando come “ambiente” un gruppo ristretto di persone, cinque uomini e cinque donne. […] Il dibattito che Grande Fratello ha scatenato, in bene ma soprattutto in male, dipende dalla sua estetica. Proprio come occorre dire che il grande merito della Body Art non è consistito tanto in un recupero del corpo, ma nel “mediarne la verità tramite il video”, si può sostenere che Grande Fratello è principalmente una performance mediale: per chi sta “dentro”, in quanto tenuto a sperimentare un sistema di relazioni umane; per chi guarda da “fuori”, in quanto non può fare a meno di reagire a questa relazione»2

La performance, come genere artistico e più in generale come linguaggio, è nata negli anni Sessanta diventando un medium diffuso e transmediale nel decennio successivo, ma al di là dei dati storici è innegabile che la performance sia diventata un potente generatore di forme estetiche che poi, dal campo ristretto dell’arte d’avanguardia, si sono travasate (più o meno consapevolmente) nella vita quotidiana di milioni di persone: una piccola danza su Tik tok, un selfie, una challenge sono a tutti gli effetti delle performance, condividono cioè con la pratica artistica “classica” medesimi contenuti formali e identici obiettivi comunicativi. Il fatto più interessante è che le azioni dei milioni di utenti messe in pratica quotidianamente sui social, proprio come una performance di Vico Acconci o Marina Abramovich, non hanno come contenuto l’azione stessa ma il mediarne la verità tramite il video.

Per quanto concerne i contenuti unscripted delle televisioni e delle piattaforme e che sono, di fatto, il modello dei social network, si potrebbe definirli meglio utilizzando i parametri dell’happening, performace di gruppo formalizzata negli anni Sessanta da Allan Kaprow. Allievo di John Cage, influenzato dalle forme derivate dall’interazione casuale di elementi diversi e dalle pratiche aperte di matrice orientale del maestro, Kaprow interpreta e formalizza teoricamente la pratica dell’happening. Partendo dall’estetica cumulativa e vitalista degli assemblaggi New-Dada compie quel passaggio che dall’environment, la costruzione di ambienti e installazioni immersive (che hanno, come sappiamo, il loro modello nel Merzbau di Schwitters) porta all’happening, – letteralmente “accadimenti” – la costruzione di situazioni in cui l’arte coincide con l’esperienza che si compie, portando alle estreme conseguenze l’idea di fusione tra arte e vita. L’happening è una pratica in bilico tra teatro e performance in cui, in una cornice debole, con una bassa possibilità di controllo da parte dell’autore, il pubblico diventa parte attiva, protagonista senza copione di situazioni spesso stravaganti che sovvertono i rapporti sociali e le logiche dei comportamenti. Nell’happening c’è quindi una sorta di “messa in scena” che funziona come una cornice che stacca i suoi partecipanti dalla normalità, calandoli in situazioni imprevedibili e indefinite; così accade anche in un reality show e in ogni contenuto unscripted – una stanza chiusa a chiave, un’isola deserta, una cucina, ma anche una diretta su un social o un flash-mob in un museo – in cui, come diceva John Cage, “succede quello che deve succedere”.

Performance e happening sono quindi diventate pratiche diffuse a livello globale, nota Valentina Tanni: «Come accaduto prima per altre forme d’arte quali la fotografia e il video, anche la performance art oggi è una pratica espressiva definitivamente liberata, che cresce e muta in mano alle persone, al di fuori del mondo dell’arte, trasformandosi in un vero linguaggio. Performance selvagge del genere sono indagini pratiche sull’esistenza: esperimenti sul corpo, sulla durata, sull’identità, sul significato della comunità, sulla condizione umana. Non si tratta, nella maggioranza dei casi, di riflessioni di genere filosofico o linguistico, come accade nell’arte concettuale, quanto piuttosto di un rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta»3. Per concludere, possiamo chiosare dicendo che questo “rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta” – che è molto spesso ripetizione, emulazione: cioè copia e incolla, cioè prelievo e processo – è una forma di filosofia pratica e di creazione, per quanto inconsapevole, di una soggettività selvaggia e vitale.

[N]

1 www.ilpost.it/2022/03/13/programmi-senza-sceneggiatura-unscripted/

2 Marco Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico. Meltemi, Roma, 2003-2006. p. 235-236.

3 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. pp. 166-167

Decoro urbano

Da sempre i muri sono il primo luogo in cui la “voce del popolo” si alza senza controllo e senza censura, nelle nostre città questa libera espressione si manifesta con scritte, graffiti, tag, manifesti abusivi. Come sappiamo, questi interventi sono sempre fuorilegge, non sono mai graditi dai proprietari dei muri (perché ogni muro ha un padrone) e vengono interpretati dalla maggioranza della cittadinanza come segni deturpanti, sollevando dibattiti sul decoro urbanoe veementi richieste da parte di associazioni di cittadini di buon gusto dell’intervento della polizia e della pulizia: secondini e imbianchini che a forza di far scattare manette e rullare colore sterilizzino lo spazio contaminato. 

Sappiamo anche che il vero problema rappresentato da questi segni non è il “decoro” ma la messa in questione della proprietà dello spazio urbano perché pongono una domanda semplice ma mai espressa: di chi è la città? è del Comune? dei proprietari dei palazzi, degli immobiliaristi? delle agenzie di pubblicità che speculano sui muri? la città è privata o è di tutti, e quindi anche mia? Alessandro Dal Lago e Serena Giordano la spiegano così: «Il conflitto sul decoro urbano ci sembra tutto qui: da una parte la pretesa che a decidere sull’estetica urbana siano i detentori del potere, economico e politico, o i tutori dell’ordine; dall’altra il proliferare di messaggi alternativi, espressivi, critici che contestano di fatto questa pretesa»1.

Le nostre città sono una semplice somma di spazi privati, di recinti più o meno visibili, il cosiddetto “spazio pubblico”, lo spazio di tutti, di fatto non esiste, anche i giardini, le piazze sono espropriate e soggette al controllo: c’è sempre un guardiano, un vigile, una telecamera. Così, quando passeggio per la città, il mio sguardo – che dovrebbe essere uno strumento di inalienabile libertà – risulta imprigionato dalla privatizzazione dello spazio pubblico, ingabbiato in un orizzonte fatto solo di cancelli, muri imbiancati, telecamere di sorveglianza, pubblicità, divieti. Alla repressione dello sguardo si oppone l’inopportuno segno vandalico – un disegno, un’ingiuria, una dichiarazione d’amore: segno di libera espressione non richiesta che interferisce e disturba, che non ha la pretesa di essere estetico, cioè integrato alla logica della comunicazione e quindi dell’utilità ma che, anzi, è lì a offrirmi, proprio perché turba la mia acquiescenza, la possibilità di immaginare qualcosa di diverso tra le sbarre della gabbia urbana.

I graffiti esprimono questo conflitto, da una parte i detentori del potere e i tutori dell’ordine (che servono il potere) e dall’altra i cittadini (che siamo noi). Un regime che si rispetti, anche se democratico come il nostro, non può certo tollerare la libera espressione che viene dal basso e impone con ogni mezzo il proprio “regime estetico“ nello spazio che controlla. L’infrazione estetica è anche una disobbedienza culturale, è diserzione civile, è sabotaggio poetico e politico.

[N]

1 Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata. Derive Approdi, Roma, 2018. p.11

Ornamento

Secondo Christine Buci-Glucksmann «l’ornamento e il decorativo sono legati ma non per questo si identificano», in ogni caso entrambi «designano accessori esteriori del bello»1. L’ornamento ha a che fare con la superficie e con l’abbellimento e si potrebbe intendere (e in effetti è stato interpretato così) come un supplemento al vero contenuto della forma. L’ornamentazione attraversa ogni espressione estetica, dalle arti visive, all’architettura, alla musica e «non è dovuta a un eccesso, ma fa coesistere struttura e dettaglio, decorazione e svelamento»2. L’ornamento si pone quindi come una mediazione tra i diversi elementi che costituiscono la forma. 

Per cercare di delimitare l’ambito in cui ci muoveremo possiamo cominciare definendo l’ornamento come una categoria filosofica e insieme un’attitudine estetica che, agendo per astrazione e metamorfosi, ha il compito di compiere una mediazione tra gli elementi di un discorso. 

L’ornamento ha quindi la funzione di mettere in connessione le parti di un oggetto estetico: un’architettura, un brano musicale, un vaso, un testo…. Per semplificare, possiamo dire che serve per mettere in relazione, in dialogo, la forma e il suo contenuto. L’ornamento si produce quindi nel movimento e nella metamorfosi e soprattutto nella dinamica di forze che: «nella maggior parte dei casi […] funzionano per opposizione: in movimento e statiche, grazia e forza, determinazione e indeterminazione, stilizzazione e letteralità, struttura e dettaglio, convenzione e innovazione, superficie piana e rilievo, lineare e curvilineo. È in questo modo che i mosaici dell’Alhambra – per fare un esempio flagrante – combinano la piattezza estrema dovuta al supporto con arabeschi, con il gioco dei pattern ripetitivi, per lo più geometrici, e con un certo movimento»3.

L’ornamento è quindi una forza capace di trasformare, finanche trasfigurare, gli oggetti, facendo perno proprio sulla dinamica creata da queste opposizioni. Un’energia metamorfica che nel corso del Settecento – secolo in cui si gettano le basi dell’ideologia moderna – è stata avvertita come nemica del vero e del bello. Immanuel Kant nella sua Critica del giudizio – testo su cui si fonda l’estetica moderna – avverte che gli ornamenti «non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessori esteriori», operando così una distinzione radicale tra contenuto e forma esteriore, tra bello come espressione del vero e bello come estensione sensibile, suo supplemento subordinato. «Riducendo l’ornamento a un supplemento, distinguendo il buon ornamento dal cattivo, Kant apre una breccia: all’alba del moderno la preziosità e la sensualità ornamentali diventano progressivamente oggetto di esclusione se non un tabù»4.

Tuttavia, la scomunica Ottocentesca della decorazione, avvertita come nemica del vero, ha radici ancora più profonde, Giuliana Altea nota che: «ne è spia il ricorrere, nella retorica antica, dell’immagine dell’ornamento come trucco o belletto; una metafora che trova riscontro nella stessa etimologia della parola «cosmetica» (kosmos in greco significa sia «ornamento» che «ordine»). Equiparato al cosmetico è anche, nella tradizione classica, il colore, bollato da Platone come falso, disonesto, ingannevole e volgare. La condanna platonica scaturita dalla svalutazione del mondo sensibile rispetto a quello intellegibile e dalla riduzione delle immagini a pura imitazione, è all’origine della contrapposizione fra disegno e colore tramandata dalla teoria artistica accademica: mentre il primo pone la rappresentazione sotto il segno della ragione teoretica il secondo la sottrae all’orizzonte di questa, consegnandola al dominio dei sensi. Il colore-cosmetico è puro ornamento: femminile e sensuale, coinvolge emotivamente fuggendo allo scrutinio razionale; per contro il disegno, intellettuale e virile, è garante della forma, definisce e costringe entro i suoi contorni la mutevole sostanza cromatica»5.

La dinamica tra forma e contenuto o, meglio, tra espressione sensibile della verità (che dovrebbe essere) contenuta nella forma e l’aspetto esteriore della forma è un nodo spesso irrisolto che attraversa la creatività occidentale sin dagli albori. L’ornamento dovrebbe essere appunto l’elemento che  media e mette in relazione le diverse parti della forma.

La funzione di mediazione dell’ornamento entra in crisi nell’Ottocento, quando, agli albori del movimento moderno l’ornamento comincia a essere avvertito come superfluo, se non deleterio; è una crisi che attraverserà tutta la cultura fino alla fine del Novecento. Nell’estetica modernista, impegnata nella ricerca di una forma sempre più pura, assoluta, autosufficiente l’ornamento è stato espunto dal discorso in quanto percepito come inquinante e disfunzionale, come kitsch e ipocrita.

[N]

1 Christine Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento. Traduzione di Simone Verde. Sellerio, Palermo, 2010. p.21

2 Ivi, p.21

3 Ivi, p.22

4 Ivi, p.24

5 Giuliana Altea, Il fantasma del decorativo. Il Saggiatore, Milano, 2012. p. 22

Lo spazio delle immagini

Il filosofo Vilém Flusser, nel libro Immagini, spiega come le emissioni tecniche di immagini non cambiano solamente l’ordine con il quale si producono e trasmettono le informazioni ma mutano anche le condizioni del loro uso e dello spazio entro il quale avviene. L’uomo contemporaneo non si muove più (o lo fa ogni giorno meno) dal suo «privato verso lo spazio pubblico, dal momento che è meglio informato a casa sua e poiché, fondamentalmente, non c’è più nessuno spazio pubblico nel quale potrebbe recarsi». «La piazza del mercato, la scuola e gli spazi pubblici a essi comparabili sono spazi arcaici, non adeguati all’attuale comunicazione e verranno abbandonati»1. Le immagini tecniche – emissioni di senso – definiscono ora quel campo di relazioni che nella cultura pre-moderna definiva lo spazio pubblico. Le immagini ci avvolgono e inseguono fin nel nostro intimo e si sostituiscono allo spazio pubblico, la penetrazione proiettiva delle immagini tecniche spinge l’individuo nell’angolo del suo privato. Le immagini tecniche, però, non solo isolano chi le riceve ma isolano ancora di più chi non le riceve o rifiuta, perché costui si trova tagliato fuori, escluso dal discorso pubblico.

Il nostro ambiente è integralmente definito da apparati tecnici che funzionano automaticamente, senza la necessità del nostro intervento. In un mondo definito dalla tecnica «la libertà umana non consiste più nel trasformare il mondo secondo la propria intenzione (questo gli apparati lo fanno meglio), ma prescrivere agli apparati la forma prevista (programmarli) e fermarli dopo che hanno prodotto questa forma (controllarli)»2. Durante la modernità l’automazione è stata, ed è stata vista, come l’opportunità, e il sogno, di liberare gli uomini dalla necessità di fare, o di fare con meno sforzo, molte cose necessarie al proprio sostentamento. Gli apparati automatici in effetti fanno questo se sono governati dall’azione dell’uomo tuttavia, la velocità di produzione (e oggi, di auto-produzione), li fa sfuggire dal controllo: gli uomini non hanno più la capacità di controllare l’insieme di automatismi che governa la realtà: «l’uomo come singola essenza, come funzionario solitario e distratto, come destinatario, ha definitivamente perso il controllo sugli apparati. La competenza degli apparati, la loro velocità di computazione e la loro capacità di conservare informazioni, la loro “memoria”, sono maggiori rispetto alla competenza del cervello umano»3. Secondo Flusser, anche le immagini tecniche sono sempre di più generate in processi automatici e così sfuggono al controllo, sono ingovernabili. L’automazione nella produzione di immagini tecniche trasforma la libertà umana perché modifica la nostra capacità di generare e trasmettere informazioni.

Flusser distingue chiaramente le differenti modalità con cui si producono e trasmettono le informazioni: il discorso è il mezzo con cui si trasmette l’informazione, il dialogo il metodo con cui si produce l’informazione. La società contemporanea – in cui «i testi vengono sostituiti dalle immagini», immagini sempre di più prodotte da apparati automatici che eludono il nostro intervento e la nostra comprensione – è quindi un luogo di discorsi, le immagini tecniche sono questi discorsi, prodotti da apparati che sfuggono al controllo perché sempre meno leggibili e governabili. La domanda che pone Flusser è semplice: è possibile che le immagini tecniche, da mezzo con cui si veicolano le informazioni – un discorso che, come tale, è sempre subìto – possano farsi elementi di un dialogo – un metodo con cui si produce senso, singolarità? 

Flusser pubblica il suo libro nel 1980 – nel pieno dell’esplosione mediale postmoderna e all’alba della rivoluzione digitale –, per l’autore, così come vengono utilizzati negli anni in cui scrive gli apparati (automatici) di produzione delle immagini tecniche producono solo discorsi – vuoti, corrivi, insensati – puro flusso di immagini, un discorso disperso in tante solitudini.

[N]

1 Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009. p. 70

2 Ivi, p. 101-102

3 Ivi, p. 105

Distanza

Guardare non è semplicemente vedere perché il nostro sguardo crea l’immagine del mondo. Quest’immagine si produce con un vaglio, una selezione di tutti gli impulsi che riceviamo, con un’organizzazione degli stimoli, lo sguardo insomma è uno strumento per fare ordine nel caos, per porre una misura, una gerarchia, una distanza. 

L’idea di uno sguardo capace di porre una distanza, è presente negli scritti di Aby Warburg (storico dell’arte di capitale importanza, che incontreremo ancora), già nei primi anni Venti del secolo scorso. Scrive Michele Cometa: «Tutta l’argomentazione degli appunti del 1923 è sorretta da un’idea che non solo accompagna Warburg sin dalle prime riflessioni ma che è ancora oggi alla base dell’antropologia filosofica: l’idea che l’Homo sapiens è l’animale che sa e deve porre una “distanza” tra sé e il mondo. Questo porre uno iato tra il pensiero e l’azione, tra l’emozione e la reazione, tra l’io e il mondo, è la sua vera chance di sopravvivenza. […] Porre una distanza tra sé e il mondo è non solo lo strumento primario dell’adattamento e della sopravvivenza – come Warburg sa dal confronto con Darwin – ma sta alla base della creazione del segno (verbale e visuale) che è ciò che caratterizza unicamente l’Homo sapiens. Quando Warburg scrive che l’uomo è “un animale manipolatore, la cui attività consiste nello stabilire connessioni e separazioni” allude proprio alla capacità di porre delle distanze tra l’io e il non-io. […] Per questo per Warburg l’esperienza delle immagini è connessa evolutivamente con lo sviluppo della tecnologia e dei media (la manipolazione di strumenti come caratteristica dell’Homo sapiens), e con la necessità biologica dell’esonero dall’oppressione del reale, attraverso pratiche di distanziazione del soggetto dall’oggetto, nonché la costruzione di una “fisiologia della memoria” che possa spiegare la trasmissione delle immagini attraverso spazi temporali vastissimi. Si tratta, come è facile intuire, di questioni che permeano la cultura visuale odierna e per altro la riproiettano su un piano che oggi viene implementato dalle ricerche delle neuroscienze e delle scienze cognitive»1.

Se lo sguardo pone una distanza tra noi e il mondo, permettendoci così di agire e di comprendere il mondo, le immagini sono lo strumento principale con cui compiamo questa operazione di organizzazione e quindi di pensiero. Produrre immagini significa pensare. Non è un caso che molte delle esperienze più importanti dell’arte del Novecento abbiano avuto come punto di innesco proprio la necessità di produrre pensieri sulle immagini, piuttosto che immagini, e per questo la storia di queste esperienze è molto interessante per chi produce immagini – quali che esse siano.

[N]

1 Michele Cometa, Cultura visuale. Una genealogia. Raffaello Cortina, Milano, 2020.

 pp. 70-72

Sul montaggio

All’inizio degli anni Ottanta Vilém Flusser1 rileva l’importanza che le immagini hanno assunto nella nostra società: veicolo privilegiato per la formazione e la trasmissione delle informazioni attraverso le quali ci relazioniamo con il mondo, le immagini sono però sempre più prodotte in automatismi, in protocolli ottimizzati che sfuggono al nostro controllo e riducono la complessità della realtà, comprimendo quelle aree di imprevedibilità e caos che sappiamo essere, grazie alle analisi di Pietro Montani2, invece essenziali.

In queste zone di turbolenza, spazi irrisolti e conflittuali, noi possiamo esercitare la nostra immaginazione interattiva e scoprire nuove forme e nuove immagini. I protocolli ottimizzati che ci vengono giornalmente forniti circoscrivono, attutiscono e alla fine eliminano proprio quegli spazi dinamici (il rumore di fondo) entro i quali possiamo agire per scoprire nuovi percorsi di senso – tema più che mai attuale dopo l’ingresso così spettacolare di intelligenze non umane che generano immagini senza (apparente) intervento o controllo da parte dei creatori.

Il problema del nostro rapporto con questi automatismi sempre più potenti e imprevedibili è quanto mai attuale ma, come abbiamo visto, è un tema presente – e irrisolto – sin dall’inizio dell’”epoca della riproducibilità tecnica” delle immagini3.

Per cercare autonomia dentro a questo orizzonte sempre più saturo di immagini e tuttavia sempre più angusto, Montani suggerisce di ritrovare, attraverso la filosofia di Walter Benjamin, il fondamento e l’utilità della pratica del montaggio, di utilizzare cioè le immagini – e i discorsi che queste veicolano – in modo “critico”, personale ed eterodosso. Il montaggio diviene così un potente strumento, concettuale prima che tecnico, per attraversare e connettere le immagini a livello profondo.

Georges Didi-Huberman ci ha mostrato che per “comprendere occorre immaginare”4, sia per permettere al nostro sguardo di estrarre senso da immagini che altrimenti rimarrebbero indecifrabili, sia per scrivere una nuova storia grazie a delle immagini che pensiamo di conoscere. L’analisi di Didi-Huberman del lavoro di Aby Warburg illumina proprio questo specifico aspetto: ogni immagine chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte. Con l’atlante Mnemosyne, attraverso una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio visivo, Warburg trasforma il discorso dello storico – lineare, consolidato, rassicurante – in una esplorazione erratica e aperta.

Il montaggio è oggi lo strumento utilizzato dai designer e dagli artisti contemporanei per lavorare dentro a un mondo ormai saturo di oggetti e di immagini, in cui non sembra esserci più spazio per esercitare la nostra immaginazione. Un luogo comune dice: tutto è già stato inventato, tutto è già stato fatto, ma il montaggio ci assicura invece che tutto può essere re-inventato, ri-fatto, a condizione però che il processo di ri-pensamento avvenga in modo consapevole, tessendo dialoghi con i segni che si manipolano, in autonomia rispetto ai palinsesti precompilati o alle scorciatoie offerte dagli algoritmi, perché l’immaginazione è prima di tutto una forma di conoscenza che non ammette superficialità e disattenzione.

[N]

1 Vedi, Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009.

2 Vedi, Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014.

3 Vedi, Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa. Traduzione di Enrico Filippini. Einaudi, Torino, 1966.

4 Vedi, Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005.

Iconosfera

La tecnologia non è uno strumento, ha da molto tempo superato il limite dello spazio sociale e culturale dentro cui aveva solo funzioni strumentali, finalizzate al raggiungimento di uno scopo preciso (sollevare, scavare, trasportare) assolto il quale cessava la sua utilità e rimaneva separata dal mondo. La tecnologia è oggi il mondo, dentro la tecnologia noi agiamo e pensiamo e non possiamo astrarci da essa perché non è possibile sottrarsi al proprio mondo – nessun animale può vivere al di fuori del proprio ecosistema e per noi, animali umani, la tecnologia è l’ecosistema. Questo ecosistema è costituito da strumenti, apparecchi, dispositivi; protocolli, procedure, azioni, il nostro agire “nella” tecnologia è di fatto un incessante emettere e ricevere una enorme e spesso inavvertita quantità di segnali, informazioni, dati e immagini; una quantità davvero strabiliante, addirittura inconcepibile di immagini ogni giorno.

Rispetto a chi ha vissuto in epoca premoderna il nostro ambiente visuale è enormemente ampliato e comprende immagini naturali, artificiali, mediali. In altri termini, possiamo dire che il nostro ambiente visuale è un’iconosfera cioè «la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano in un determinato contesto culturale, dalle tecnologie con cui esse vengono prodotte, elaborate, trasmesse e archiviate e dagli usi sociali di cui queste stesse immagini sono oggetto. Dagli anni Novanta […] con l’avvento di internet, la progressiva diffusione delle tecnologie digitali e il sempre più facile accesso a software e dispositivi per la produzione, riproduzione, manipolazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di immagini, il semplice numero delle immagini in circolazione è aumentato vertiginosamente, producendo un flusso iconico incessante – più volte descritto come bombardamento, cascata, proliferazione di immagini – che ha trasformato profondamente la nostra esperienza quotidiana. La rapida diffusione dei computer fissi e portatili; il lancio di programmi per l’elaborazione di immagini come Photoshop (la cui versione 1.0 compare nel 1990), di formati per la compressione di immagini fisse come il formato Jpeg (creato nel 1991-92) e di browser per la navigazione su internet come Netscape Navigator (1994) e Microsoft Internet Explorer (1995); la graduale convergenza di media precedentemente distinti dal punto di vista sia tecnologico (macchina fotografica, videocamera, cinepresa, schermo televisivo, schermo cinematografico, radio, telefono, macchina da scrivere, libro, giornale…) verso dispositivi multiuso caratterizzati da interfaccia semplici e intuitive: tutti questi fattori hanno fatto sí che un pubblico sempre più vasto fosse in grado di accedere a tecnologie capaci di produrre, elaborare e condividere immagini in modo rapido e immediato»1.

La complessità della nostra iconosfera è tale che nessuna immagine – e di fatto nessuna delle nostre altre attività2 – può essere più valutata per quello che è in se stessa, ma solo all’interno della rete di relazioni di cui è parte. Dunque anche le immagini che produciamo o consumiamo, per essere comprese, devono essere inserite nel loro contesto narrativo, nella dimensione relazionale di cui fanno parte, la nostra iconosfera è un intreccio, un luogo di transiti e sovrapposizioni, un rizoma direbbero Deleuze e Guattari.

La complessità e la stratificazione del nostro mondo visuale è tale che anche il nostro sguardo è stratificato, complesso, mutevole, si adatta ai contesti e si modifica in base alle rete di altre azioni a cui è connesso e, soprattutto, il nostro sguardo è specializzato: un medico ha uno sguardo completamente differente da quello di un sarto o di un grafico, se tutti costoro guardano, ad esempio, un corpo, il loro sguardo allenato e specializzato vedrà di questo corpo aspetti diversi invisibili agli altri. La questione è ulteriormente arricchita da fatto che ognuno di questi sguardi specializzati è ormai integrato (anche inconsciamente) a tutta una serie di protesi tecnologiche specifiche (una macchina per la risonanza magnetica, una fotocamera, un programma di modellizzazione, un algoritmo di simulazione somatica…) che ampliano enormemente e specializzano ancor di più lo spettro del visibile. Se il corpo che questi specialisti stanno guardando è il nostro ci rendiamo conto che allo sguardo umano, naturale che si posa su di noi si sovrappone anche uno sguardo macchinico, inumano e in qualche misura inconcepibile. Le macchine con cui guardiamo, a loro volta, ci rivolgono degli sguardi. Comprendere la qualità di questi sguardi non-umani su di noi e sul mondo è la sfida dell’attuale riflessione sulla natura della nostra iconosfera.

La riflessione sugli sguardi che le macchine ci rivolgono (satelliti e droni che ci osservano inosservati, videocamere di sorveglianza, macchine mediche, fotocamere dei device, tag sulle fotografie in cui appariamo inconsapevolmente, intelligenze artificiali che scrutano i nostri movimenti…) ripropone in modo del tutto nuovo un problema in verità antichissimo: il potere che le immagini esercitano su di noi. 

[N]

1 Andrea Pinotti, Antonio Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi. Einaudi, Torino, 2016. p.18

2 «Nella tarda modernità – scrive Massimo De Carolis – tutti i sistemi sociali – dalla politica all’economia o alla scienza – tendono a organizzarsi e comprendersi non più come sistemi d’azione, ma come sistemi di comunicazione. Ciò non vuol dire che si agisca o si produca meno che in passato. Il punto però è che ogni azione socialmente significativa è valutata di fatto come proposta comunicativa concernente l’intero aspetto del sistema in cui è inscritta: il prezzo, poniamo, per un singolo titolo azionario comunica una certa lettura dell’intero mercato, una singola opera d’arte ridefinisce a suo modo la distinzione generale fra ciò che è arte e ciò che non lo è, e così via. In altri termini, perquanto il contenuto materiale di un’azione possa essere del tutto diverso in un campo o in un altro, la crescente complessità sociale fa emergere via via, in tutti questi diversi settori sociali un aspetto formale che è sostanzialmente lo stesso: quello per cui, a parità di contenuti, il significato di una data azione dipende dal modo in cui essa riassume in sé la rete di altre azioni cui è connessa, offrendone una possibile rappresentazione». Massimo De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Bollati Boringhieri, Milano, 2004.

Mnemosyne

Il lavoro sull’arte di Aby Warburg insiste nello scoprire forme antecedenti che emergono come fantasmi nei quadri, nelle sculture e negli affreschi degli artisti Rinascimentali: sotto le forme di una Madonna di Botticelli Warburg rintraccia la memoria di una figura etrusca; nelle sculture di Donatello scopre le maschere funerarie fiorentine medioevali e da queste risale alla scultura votiva romana. Memorie attive, dinamiche, sepolte sotto un’iconografia che allora, e spesso ancora oggi, si credeva cristallizzata.

L’attualità del pensiero di Warburg risulta immediatamente evidente osservando l’atlante Mnemosyne, la raccolta di immagini messe insieme dallo storico nella sua biblioteca con le quali dimostrava le potenzialità del suo metodo storico. Mnemosyne è composto da un’insieme 79 pannelli neri su cui sono fissate centinaia di fotografie, ogni pannello affronta un tema montando immagini diverse che lo attraversano in modo da costruire imprevedibili percossi di senso. Questo disporre immagini differenti e metterle in risonanza è un «atto interpretativo»: Warburg «disponendo, sullo schermo nero, vari riferimenti visivi organizzati o in polarità o in sequenze di dettagli-fotogrammi»1 compie un’azione ermeneutica in grado di connettere a livello profondo immagini che sono state prodotte in luoghi e tempi differenti ma anche di far emergere l’insieme di immagini preesistenti, di simboli, forme, riferimenti intessuti in ogni immagine. Questa pratica di montaggio rende visibile come gli stessi materiali che Warburg prende in oggetto sono frutto di stratificazioni e accumuli, di sopravvivenze consapevoli e reminiscenze inconsce. «Il primo modello dell’atlante Mnemosine va quindi cercato nella struttura stessa degli oggetti che interroga, che smonta e rimonta analiticamente»2, perché nessuna immagine, ci dice Warburg, può esistere senza quelle che l’hanno preceduta e seguita.

Ogni immagine si presenta allora come un insieme di elementi eterogenei che convivono nella stessa porzione di spazio e di tempo e in ogni immagine è intrinseca questa dimensione dialettica – come suggerisce Benjamin, è dialettica in posizione di arresto. Per questo, il lavoro di decifrazione si deve svolgere con un montaggio: con «un’interpretazione che non cerca di ridurre la complessità, ma di mostrarla, di esporla, di dispiegarla»3. E per poter dispiegare completamente la complessità delle immagini «Warburg aveva capito che doveva rinunciare a fissare le immagini, come un filosofo deve saper rinunciare a fissare le sue opinioni. Il pensiero è fatto di plasticità, di mobilità, di metamorfosi. Per questo Warburg si vide costretto a rinunciare persino a incollare le stampe fotografiche su tavole cartonate. […] Il semplice protocollo tecnico dei fermagli permetteva di lasciare alle immagini la loro mobilità e di non completare mai il gioco»4.

Ecco allora apparire chiaramente uno dei tratti che rende Mnemosyne una delle esperienze visive più formidabili del secolo: la capacità di Warburg di accettare la complessità della materia che manipola senza avere mai la tentazione di fissarla in una forma definitiva, in una forma che potremmo definire ottimizzata e dimostrare la necessità di mantenere la materia della propria analisi in uno stato di perenne mobilità e apertura, di caos irriducibile a ogni ordine definitivo, perché è proprio questo stato di turbolenza a stimolare la nostra facoltà di immaginare percorsi di senso sempre nuovi.

Lo stesso tipo di esperienza che ha compiuto Kurt Schwitters all’opera nel suo Merzbau, costruzione sempre in fieri, mai compiuta, mai fissata in una forma definitiva e consegnata a un perenne processo di ridefinizione e ri-pensamento.

Il desiderio di mantenere la scrittura della storia delle forme in uno stato di apertura e di instabilità è quanto di più lontano e avverso al tipo di storia che si andava scrivendo in Europa negli stessi anni, su cui le nazioni stavano fondando il mito del loro destino. «Mnemosyne – scrive Didi-Huberman – è un oggetto d’avanguardia in quanto osa decostruire l’album-souvenir storicistico delle “influenze dell’Antichità” per sostituirgli un atlante della memoria erratico, regolato dall’inconscio, saturo di immagini eterogenee, invaso di elementi anacronici o immemoriali, assillato dal quel nero degli schermi che, spesso, assume il ruolo di indicatore di spazi vuoti, di missing-links, di buchi di memoria. Essendo la memoria fatta di buchi, il nuovo ruolo attribuito da Warburg allo storico della cultura è quello di un interprete della rimozione, di un “veggente” dei buchi della memoria. Mnemosyne è un oggetto intempestivo, in quanto osa nell’età del positivismo e della storia trionfante, funzionare come un puzzle o come una partita i tarocchi sproporzionati – configurazione senza limiti, numero di carte variabile all’infinito. Le differenze non vengono mai riassorbite in qualche identità superiore: come nel mondo fluido della partecipazione, esse si animano dei loro legami, che – con sperimentazione sempre rinnovata – il cartomante di questo gioco con il tempo trova»5.

Ma la bellezza del Mnemosyne risiede anche nel suo essere un modello attivo e utile nel nostro presente: archetipo di tanti atlanti, raccolte di immagini, collezioni che percorreranno il Novecento arrivando sino a noi per rendere evidente – nell’era delle immagini interrelate da automatismi portatori di contenuti stabiliti in anticipo, dei link prodotti da algoritmi scritti per ottimizzare le nostre esperienze visive e cognitive e fissarle così a standard concepiti altrove e per scopi che non sono i nostri – che il significato di ogni immagine, o di ogni insieme di immagini deve essere cercato incessantemente, tessendo reti, disegnando analogie, mettendo in risonanza, scoprendo affinità e discrasie, accettando soprattutto di lavorare «non sul significato delle figure […] ma sui rapporti complessi che queste figure intrattengono tra di loro in un dispositivo visivo complesso, e irriducibile all’ordine del discorso»6.

[N]

1 Didi-Huberman, Georges, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte. Traduzione di Alessandro Serra. Bollati Boringhieri, Milano, 2006. p.447

2 Ivi, p.447

3 Ivi, p.455

4 Ivi, p. 423-424

5 Ivi, p.444-445

8 Elio Grazioli, La collezione come forma d’arte. Johan & Levi Editore, Milano, 2012. p 36

Pensare, copiare

«Il più grande libro di scrittura non creativa è già stato scritto. Da 1927 al 1940, Walter Benjamin ha sintetizzato molte delle idee su cui aveva lavorato nel corso della sua carriera in un’opera intitolata I «passages» di Parigi. Molti credono che non si tratti d’altro di centinaia e centinaia di pagine piene di note, una pila di frammenti e di bozze, in vista di un’opera di pensiero mai realizzata. Ma altri sostengono che si tratta di una rivoluzionaria opera di circa mille pagine, basata sull’appropriazione e sulla citazione, così radicale nella sua forma non digerita che è impossibile pensare a un’altra opera nella storia della letteratura che abbia lo stesso approccio. È uno sforzo enorme: la maggior parte di ciò che è contenuto nel libro non è stata scritta da Benjamin, che ha invece copiato testi scritti da altri, presi da mucchi di libri conservati nelle biblioteche, con alcuni passaggi che durano diverse pagine. Restano comunque le convenzioni: ogni estratto è citato correttamente e la “voce” di Benjamin si inserisce brillantemente con commenti e postille a ciò che ha copiato»1.

Dunque, I «passages» di Parigi sono un grande collage di testi giustapposti, parole e pensieri di cui l’autore si è appropriato, sottraendoli dal loro contesto, per immetterli dentro una nuova cornice discorsiva, in un certo senso si può dire che Benjamin fa dire ad altri le cose che desidera, a volte sovvertendone il senso – trasforma un orinatoio in una fontana.

Benjamin era perfettamente consapevole della natura della propria operazione – cioè produrre pensiero originale attraverso l’appropriazione, la trasformazione, il ready-made – in una nota ai «passages» scrive: «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico mondo possibile: usandoli». E ancora: «Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio»2.

Continua Goldsmith: «Benjamin non fa alcun tentativo di unificare [i propri materiali], se non quello di  organizzare liberamente le sue citazioni per categorie. […] Invece di ammirare la capacità di sintesi dell’autore, siamo portati a riflettere sulla squisita qualità delle scelte di Benjamin, sul suo gusto. È ciò che sceglie di copiare che rende questo lavoro un’opera riuscita. […] Per tanti versi, il modo in cui leggiamo i «passages» parla del modo in cui abbiamo imparato a usare il Web: viaggiando da un luogo all’altro dell’ipertesto, navigando attraverso la sua immensità; parla di come siamo diventati dei flaneur virtuali, surfando in modo casuale; di come abbiamo imparato a gestire e a raccogliere le informazioni, senza sentire la necessità di leggere il Web in modo lineare, e così via»3.

Assumiamo quotidianamente contenuti disseminati in miliardi di pagine digitali scollegate tra loro e li organizziamo secondo il nostro personale palinsesto, non si tratta semplicemente di una pratica dovuta a una specifica contingenza è, invece, un modello di pensiero che la cultura occidentale sperimenta da un centinaio d’anni, e in modi sempre diversi, il web non ne è che la versione più tecnologicamente aggiornata.

La scrittura filosofica di Benjamin, che si fonda su una pratica di raffinatissimo prelievo e montaggio di materiali differenti, è molto simile tanta poesia surrealista che negli stessi anni sperimentava nuove forme letterarie, disarticolando la struttura linguistica con montaggi, ritagli, giochi; e collezioni, raccolte, antologie.

Ad esempio, nel 1939 André Breton, per metter a fuoco un concetto centrale ma nebuloso del Surrealismo, quello di humor nero – non un genere letterario preciso ma una maniera di concepire la scrittura come emanazione, esplosione, provocazione, irrisione, rovesciamento – ha costruito un’antologia raccogliendo decine di testi, stralci, frammenti, citazioni per comporre un grande mosaico (un collage, un merzbau) di voci differenti, a volte antitetiche ma comunque convergenti, assonanti.

L’Antologia dello Humor nero di Breton è un altro grande esempio di pensiero prodotto attraverso la collezione e il montaggio: «Abbiamo a che fare – scrive Breton – con un soggetto scottante, avanziamo su un terreno infuocato, abbiamo di volta in volta il vento della passione favorevole o contrario, dal momento in cui pensiamo di sollevare il velo sul quell’humor di cui riusciamo tuttavia, con immensa soddisfazione, a individuare i prodotti evidenti nella letteratura, nell’arte, nella vita»4.

L’Antologia quindi disegna una figura dai contorni imprecisi ma “scottanti” che si producono non tanto nell’analisi di un testo isolato quanto nel rapporto che questo riesce a instaurare con gli altri testi della stessa scottante natura, il “senso” è dunque una questione di relazioni tra gli oggetti – un meccanismo intertestuale, direbbe Stoichita. In altre parole, Breton, come Benjamin – e come Schwitters all’opera nel suo Merzbau – ha costruito una storia della letteratura seguendo un processo non lineare e narrativo ma  aggregando materiali differenti in maniera rizomatica. L’antologia così concepita forma un’immagine in cui i significati si dispongono in modo fluido, aperto, in cui i concetti nascono grazie a imprevedibili accostamenti e collisioni.

Questa figura, Walter Benjamin, la chiamerebbe costellazione: «La prima cosa di questo cammino sarà assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale. Rompere, dunque, con il volgare naturalismo storico. Cogliere la costruzione della storia in quanto tale nella struttura del commentario. […] Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto»5.

[N]

1 Goldsmith, Kenneth, CTRL+C CTRL+V (scrittura non creativa). Traduzione di Valerio Mannucci. Nero, Roma, 2019. p. 129

2 Benjamin, Walter Benjamin, I «passages» di Parigi. Edizione italiana a cura di Enrico Ganni. Einaudi, Torino 2000 e 2010. p. 514, p. 512

3 Goldsmith, cit. p. 133, p. 136

4 André Breton, Antologia dello Humor nero. A cura di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis. Einaudi, Torino, 1970. p. 10

5 Benjamin, cit. p. 116

Pensiero selvaggio

Benjamin con suoi «passages», Warburg con l’atlante Mnémosyne, Bataille segretario generale di “Documents”, Schwitters all’opera nel suo Mezbau hanno tutti lavorato adottando una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio: ogni immagine, ogni oggetto, ogni parola chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte.

Un “modus” rizomatico e imprevedibile, una fluidità che ammette anche una cospicua dose di rischio perché costringe ad agire sui materiali senza un progetto, senza uno schema preventivo, consegnandosi all’alea del caso e alla possibilità dell’inconcludenza, del fallimento.

Proprio come fa il bricoleur, colui che costruisce arrangiandosi con quello che trova, senza perseguire un progetto definito in partenza. Il bricoleur è una figura omologa a quella del montatore perché agisce con ciò che ha a disposizione, lavorando con quello che il caso ha voluto assegnargli, mettendo in risonanza oggetti e pensieri diversi, decostruendo il senso che è stato progettato per loro e immaginando una nuova forma, un nuovo destino.

La cultura occidentale sintonizzata sulle frequenze della modernità, in cui regna quel principio di ottimizzazione che discende dalla ragione produttiva in cui ogni azione è guidata da un calcolo, ha guardato poco e con sospetto a queste pratiche in auge invece nelle società primitive. Il primo ad accorgersi della fondamentale peculiarità dei modelli concettuali e operativi che stanno alla base del fare tradizionale (extra-occidentale o pre-moderno e, ora, post-moderno) è stato Claude Lévi-Strauss: tra il 1950 e il 1960 l’antropologo francese ha lungamente studiato le società pre-moderne, in cui la logica del progetto è sostituita dalla pratica del bricolage.

Nel libro “Il pensiero selvaggio” (1962) Lévi-Strauss distingue il pensiero occidentale moderno, improntato alla logica astratta e scientifica, dalle pratiche di conoscenza delle società primitive guidate invece da una scienza del concreto e precisa che «sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare primaria anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage». E continua: «Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. […] Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè un insieme via via finito di arnesi e materiali, per altro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o distruzioni precedenti»1.

Il bricoleur è insomma un montatore che costruisce il proprio discorso con i materiali e gli arnesi di cui dispone, accettando la complessità di questo stato di cose; il bricoleur non lavora ottimizzando i suoi sforzi, e nemmeno massimizzando i suoi profitti; il suo processo creativo è sempre aperto e permane in uno stato di fluidità che è insieme incertezza, caos e ricchezza potenziale.

[N]

1 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio. Traduzione di Paolo Caruso. Il Saggiatore, Milano, 2003. pp. 29-30