Arte

Decoro urbano

Da sempre i muri sono il primo luogo in cui la “voce del popolo” si alza senza controllo e senza censura, nelle nostre città questa libera espressione si manifesta con scritte, graffiti, tag, manifesti abusivi. Come sappiamo, questi interventi sono sempre fuorilegge, non sono mai graditi dai proprietari dei muri (perché ogni muro ha un padrone) e vengono interpretati dalla maggioranza della cittadinanza come segni deturpanti, sollevando dibattiti sul decoro urbanoe veementi richieste da parte di associazioni di cittadini di buon gusto dell’intervento della polizia e della pulizia: secondini e imbianchini che a forza di far scattare manette e rullare colore sterilizzino lo spazio contaminato. 

Sappiamo anche che il vero problema rappresentato da questi segni non è il “decoro” ma la messa in questione della proprietà dello spazio urbano perché pongono una domanda semplice ma mai espressa: di chi è la città? è del Comune? dei proprietari dei palazzi, degli immobiliaristi? delle agenzie di pubblicità che speculano sui muri? la città è privata o è di tutti, e quindi anche mia? Alessandro Dal Lago e Serena Giordano la spiegano così: «Il conflitto sul decoro urbano ci sembra tutto qui: da una parte la pretesa che a decidere sull’estetica urbana siano i detentori del potere, economico e politico, o i tutori dell’ordine; dall’altra il proliferare di messaggi alternativi, espressivi, critici che contestano di fatto questa pretesa»1.

Le nostre città sono una semplice somma di spazi privati, di recinti più o meno visibili, il cosiddetto “spazio pubblico”, lo spazio di tutti, di fatto non esiste, anche i giardini, le piazze sono espropriate e soggette al controllo: c’è sempre un guardiano, un vigile, una telecamera. Così, quando passeggio per la città, il mio sguardo – che dovrebbe essere uno strumento di inalienabile libertà – risulta imprigionato dalla privatizzazione dello spazio pubblico, ingabbiato in un orizzonte fatto solo di cancelli, muri imbiancati, telecamere di sorveglianza, pubblicità, divieti. Alla repressione dello sguardo si oppone l’inopportuno segno vandalico – un disegno, un’ingiuria, una dichiarazione d’amore: segno di libera espressione non richiesta che interferisce e disturba, che non ha la pretesa di essere estetico, cioè integrato alla logica della comunicazione e quindi dell’utilità ma che, anzi, è lì a offrirmi, proprio perché turba la mia acquiescenza, la possibilità di immaginare qualcosa di diverso tra le sbarre della gabbia urbana.

I graffiti esprimono questo conflitto, da una parte i detentori del potere e i tutori dell’ordine (che servono il potere) e dall’altra i cittadini (che siamo noi). Un regime che si rispetti, anche se democratico come il nostro, non può certo tollerare la libera espressione che viene dal basso e impone con ogni mezzo il proprio “regime estetico“ nello spazio che controlla. L’infrazione estetica è anche una disobbedienza culturale, è diserzione civile, è sabotaggio poetico e politico.

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1 Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata. Derive Approdi, Roma, 2018. p.11

Ornamento

Secondo Christine Buci-Glucksmann «l’ornamento e il decorativo sono legati ma non per questo si identificano», in ogni caso entrambi «designano accessori esteriori del bello»1. L’ornamento ha a che fare con la superficie e con l’abbellimento e si potrebbe intendere (e in effetti è stato interpretato così) come un supplemento al vero contenuto della forma. L’ornamentazione attraversa ogni espressione estetica, dalle arti visive, all’architettura, alla musica e «non è dovuta a un eccesso, ma fa coesistere struttura e dettaglio, decorazione e svelamento»2. L’ornamento si pone quindi come una mediazione tra i diversi elementi che costituiscono la forma. 

Per cercare di delimitare l’ambito in cui ci muoveremo possiamo cominciare definendo l’ornamento come una categoria filosofica e insieme un’attitudine estetica che, agendo per astrazione e metamorfosi, ha il compito di compiere una mediazione tra gli elementi di un discorso. 

L’ornamento ha quindi la funzione di mettere in connessione le parti di un oggetto estetico: un’architettura, un brano musicale, un vaso, un testo…. Per semplificare, possiamo dire che serve per mettere in relazione, in dialogo, la forma e il suo contenuto. L’ornamento si produce quindi nel movimento e nella metamorfosi e soprattutto nella dinamica di forze che: «nella maggior parte dei casi […] funzionano per opposizione: in movimento e statiche, grazia e forza, determinazione e indeterminazione, stilizzazione e letteralità, struttura e dettaglio, convenzione e innovazione, superficie piana e rilievo, lineare e curvilineo. È in questo modo che i mosaici dell’Alhambra – per fare un esempio flagrante – combinano la piattezza estrema dovuta al supporto con arabeschi, con il gioco dei pattern ripetitivi, per lo più geometrici, e con un certo movimento»3.

L’ornamento è quindi una forza capace di trasformare, finanche trasfigurare, gli oggetti, facendo perno proprio sulla dinamica creata da queste opposizioni. Un’energia metamorfica che nel corso del Settecento – secolo in cui si gettano le basi dell’ideologia moderna – è stata avvertita come nemica del vero e del bello. Immanuel Kant nella sua Critica del giudizio – testo su cui si fonda l’estetica moderna – avverte che gli ornamenti «non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessori esteriori», operando così una distinzione radicale tra contenuto e forma esteriore, tra bello come espressione del vero e bello come estensione sensibile, suo supplemento subordinato. «Riducendo l’ornamento a un supplemento, distinguendo il buon ornamento dal cattivo, Kant apre una breccia: all’alba del moderno la preziosità e la sensualità ornamentali diventano progressivamente oggetto di esclusione se non un tabù»4.

Tuttavia, la scomunica Ottocentesca della decorazione, avvertita come nemica del vero, ha radici ancora più profonde, Giuliana Altea nota che: «ne è spia il ricorrere, nella retorica antica, dell’immagine dell’ornamento come trucco o belletto; una metafora che trova riscontro nella stessa etimologia della parola «cosmetica» (kosmos in greco significa sia «ornamento» che «ordine»). Equiparato al cosmetico è anche, nella tradizione classica, il colore, bollato da Platone come falso, disonesto, ingannevole e volgare. La condanna platonica scaturita dalla svalutazione del mondo sensibile rispetto a quello intellegibile e dalla riduzione delle immagini a pura imitazione, è all’origine della contrapposizione fra disegno e colore tramandata dalla teoria artistica accademica: mentre il primo pone la rappresentazione sotto il segno della ragione teoretica il secondo la sottrae all’orizzonte di questa, consegnandola al dominio dei sensi. Il colore-cosmetico è puro ornamento: femminile e sensuale, coinvolge emotivamente fuggendo allo scrutinio razionale; per contro il disegno, intellettuale e virile, è garante della forma, definisce e costringe entro i suoi contorni la mutevole sostanza cromatica»5.

La dinamica tra forma e contenuto o, meglio, tra espressione sensibile della verità (che dovrebbe essere) contenuta nella forma e l’aspetto esteriore della forma è un nodo spesso irrisolto che attraversa la creatività occidentale sin dagli albori. L’ornamento dovrebbe essere appunto l’elemento che  media e mette in relazione le diverse parti della forma.

La funzione di mediazione dell’ornamento entra in crisi nell’Ottocento, quando, agli albori del movimento moderno l’ornamento comincia a essere avvertito come superfluo, se non deleterio; è una crisi che attraverserà tutta la cultura fino alla fine del Novecento. Nell’estetica modernista, impegnata nella ricerca di una forma sempre più pura, assoluta, autosufficiente l’ornamento è stato espunto dal discorso in quanto percepito come inquinante e disfunzionale, come kitsch e ipocrita.

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1 Christine Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento. Traduzione di Simone Verde. Sellerio, Palermo, 2010. p.21

2 Ivi, p.21

3 Ivi, p.22

4 Ivi, p.24

5 Giuliana Altea, Il fantasma del decorativo. Il Saggiatore, Milano, 2012. p. 22

Lo spazio delle immagini

Il filosofo Vilém Flusser, nel libro Immagini, spiega come le emissioni tecniche di immagini non cambiano solamente l’ordine con il quale si producono e trasmettono le informazioni ma mutano anche le condizioni del loro uso e dello spazio entro il quale avviene. L’uomo contemporaneo non si muove più (o lo fa ogni giorno meno) dal suo «privato verso lo spazio pubblico, dal momento che è meglio informato a casa sua e poiché, fondamentalmente, non c’è più nessuno spazio pubblico nel quale potrebbe recarsi». «La piazza del mercato, la scuola e gli spazi pubblici a essi comparabili sono spazi arcaici, non adeguati all’attuale comunicazione e verranno abbandonati»1. Le immagini tecniche – emissioni di senso – definiscono ora quel campo di relazioni che nella cultura pre-moderna definiva lo spazio pubblico. Le immagini ci avvolgono e inseguono fin nel nostro intimo e si sostituiscono allo spazio pubblico, la penetrazione proiettiva delle immagini tecniche spinge l’individuo nell’angolo del suo privato. Le immagini tecniche, però, non solo isolano chi le riceve ma isolano ancora di più chi non le riceve o rifiuta, perché costui si trova tagliato fuori, escluso dal discorso pubblico.

Il nostro ambiente è integralmente definito da apparati tecnici che funzionano automaticamente, senza la necessità del nostro intervento. In un mondo definito dalla tecnica «la libertà umana non consiste più nel trasformare il mondo secondo la propria intenzione (questo gli apparati lo fanno meglio), ma prescrivere agli apparati la forma prevista (programmarli) e fermarli dopo che hanno prodotto questa forma (controllarli)»2. Durante la modernità l’automazione è stata, ed è stata vista, come l’opportunità, e il sogno, di liberare gli uomini dalla necessità di fare, o di fare con meno sforzo, molte cose necessarie al proprio sostentamento. Gli apparati automatici in effetti fanno questo se sono governati dall’azione dell’uomo tuttavia, la velocità di produzione (e oggi, di auto-produzione), li fa sfuggire dal controllo: gli uomini non hanno più la capacità di controllare l’insieme di automatismi che governa la realtà: «l’uomo come singola essenza, come funzionario solitario e distratto, come destinatario, ha definitivamente perso il controllo sugli apparati. La competenza degli apparati, la loro velocità di computazione e la loro capacità di conservare informazioni, la loro “memoria”, sono maggiori rispetto alla competenza del cervello umano»3. Secondo Flusser, anche le immagini tecniche sono sempre di più generate in processi automatici e così sfuggono al controllo, sono ingovernabili. L’automazione nella produzione di immagini tecniche trasforma la libertà umana perché modifica la nostra capacità di generare e trasmettere informazioni.

Flusser distingue chiaramente le differenti modalità con cui si producono e trasmettono le informazioni: il discorso è il mezzo con cui si trasmette l’informazione, il dialogo il metodo con cui si produce l’informazione. La società contemporanea – in cui «i testi vengono sostituiti dalle immagini», immagini sempre di più prodotte da apparati automatici che eludono il nostro intervento e la nostra comprensione – è quindi un luogo di discorsi, le immagini tecniche sono questi discorsi, prodotti da apparati che sfuggono al controllo perché sempre meno leggibili e governabili. La domanda che pone Flusser è semplice: è possibile che le immagini tecniche, da mezzo con cui si veicolano le informazioni – un discorso che, come tale, è sempre subìto – possano farsi elementi di un dialogo – un metodo con cui si produce senso, singolarità? 

Flusser pubblica il suo libro nel 1980 – nel pieno dell’esplosione mediale postmoderna e all’alba della rivoluzione digitale –, per l’autore, così come vengono utilizzati negli anni in cui scrive gli apparati (automatici) di produzione delle immagini tecniche producono solo discorsi – vuoti, corrivi, insensati – puro flusso di immagini, un discorso disperso in tante solitudini.

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1 Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009. p. 70

2 Ivi, p. 101-102

3 Ivi, p. 105

Distanza

Guardare non è semplicemente vedere perché il nostro sguardo crea l’immagine del mondo. Quest’immagine si produce con un vaglio, una selezione di tutti gli impulsi che riceviamo, con un’organizzazione degli stimoli, lo sguardo insomma è uno strumento per fare ordine nel caos, per porre una misura, una gerarchia, una distanza. 

L’idea di uno sguardo capace di porre una distanza, è presente negli scritti di Aby Warburg (storico dell’arte di capitale importanza, che incontreremo ancora), già nei primi anni Venti del secolo scorso. Scrive Michele Cometa: «Tutta l’argomentazione degli appunti del 1923 è sorretta da un’idea che non solo accompagna Warburg sin dalle prime riflessioni ma che è ancora oggi alla base dell’antropologia filosofica: l’idea che l’Homo sapiens è l’animale che sa e deve porre una “distanza” tra sé e il mondo. Questo porre uno iato tra il pensiero e l’azione, tra l’emozione e la reazione, tra l’io e il mondo, è la sua vera chance di sopravvivenza. […] Porre una distanza tra sé e il mondo è non solo lo strumento primario dell’adattamento e della sopravvivenza – come Warburg sa dal confronto con Darwin – ma sta alla base della creazione del segno (verbale e visuale) che è ciò che caratterizza unicamente l’Homo sapiens. Quando Warburg scrive che l’uomo è “un animale manipolatore, la cui attività consiste nello stabilire connessioni e separazioni” allude proprio alla capacità di porre delle distanze tra l’io e il non-io. […] Per questo per Warburg l’esperienza delle immagini è connessa evolutivamente con lo sviluppo della tecnologia e dei media (la manipolazione di strumenti come caratteristica dell’Homo sapiens), e con la necessità biologica dell’esonero dall’oppressione del reale, attraverso pratiche di distanziazione del soggetto dall’oggetto, nonché la costruzione di una “fisiologia della memoria” che possa spiegare la trasmissione delle immagini attraverso spazi temporali vastissimi. Si tratta, come è facile intuire, di questioni che permeano la cultura visuale odierna e per altro la riproiettano su un piano che oggi viene implementato dalle ricerche delle neuroscienze e delle scienze cognitive»1.

Se lo sguardo pone una distanza tra noi e il mondo, permettendoci così di agire e di comprendere il mondo, le immagini sono lo strumento principale con cui compiamo questa operazione di organizzazione e quindi di pensiero. Produrre immagini significa pensare. Non è un caso che molte delle esperienze più importanti dell’arte del Novecento abbiano avuto come punto di innesco proprio la necessità di produrre pensieri sulle immagini, piuttosto che immagini, e per questo la storia di queste esperienze è molto interessante per chi produce immagini – quali che esse siano.

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1 Michele Cometa, Cultura visuale. Una genealogia. Raffaello Cortina, Milano, 2020.

 pp. 70-72

Sul montaggio

All’inizio degli anni Ottanta Vilém Flusser1 rileva l’importanza che le immagini hanno assunto nella nostra società: veicolo privilegiato per la formazione e la trasmissione delle informazioni attraverso le quali ci relazioniamo con il mondo, le immagini sono però sempre più prodotte in automatismi, in protocolli ottimizzati che sfuggono al nostro controllo e riducono la complessità della realtà, comprimendo quelle aree di imprevedibilità e caos che sappiamo essere, grazie alle analisi di Pietro Montani2, invece essenziali.

In queste zone di turbolenza, spazi irrisolti e conflittuali, noi possiamo esercitare la nostra immaginazione interattiva e scoprire nuove forme e nuove immagini. I protocolli ottimizzati che ci vengono giornalmente forniti circoscrivono, attutiscono e alla fine eliminano proprio quegli spazi dinamici (il rumore di fondo) entro i quali possiamo agire per scoprire nuovi percorsi di senso – tema più che mai attuale dopo l’ingresso così spettacolare di intelligenze non umane che generano immagini senza (apparente) intervento o controllo da parte dei creatori.

Il problema del nostro rapporto con questi automatismi sempre più potenti e imprevedibili è quanto mai attuale ma, come abbiamo visto, è un tema presente – e irrisolto – sin dall’inizio dell’”epoca della riproducibilità tecnica” delle immagini3.

Per cercare autonomia dentro a questo orizzonte sempre più saturo di immagini e tuttavia sempre più angusto, Montani suggerisce di ritrovare, attraverso la filosofia di Walter Benjamin, il fondamento e l’utilità della pratica del montaggio, di utilizzare cioè le immagini – e i discorsi che queste veicolano – in modo “critico”, personale ed eterodosso. Il montaggio diviene così un potente strumento, concettuale prima che tecnico, per attraversare e connettere le immagini a livello profondo.

Georges Didi-Huberman ci ha mostrato che per “comprendere occorre immaginare”4, sia per permettere al nostro sguardo di estrarre senso da immagini che altrimenti rimarrebbero indecifrabili, sia per scrivere una nuova storia grazie a delle immagini che pensiamo di conoscere. L’analisi di Didi-Huberman del lavoro di Aby Warburg illumina proprio questo specifico aspetto: ogni immagine chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte. Con l’atlante Mnemosyne, attraverso una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio visivo, Warburg trasforma il discorso dello storico – lineare, consolidato, rassicurante – in una esplorazione erratica e aperta.

Il montaggio è oggi lo strumento utilizzato dai designer e dagli artisti contemporanei per lavorare dentro a un mondo ormai saturo di oggetti e di immagini, in cui non sembra esserci più spazio per esercitare la nostra immaginazione. Un luogo comune dice: tutto è già stato inventato, tutto è già stato fatto, ma il montaggio ci assicura invece che tutto può essere re-inventato, ri-fatto, a condizione però che il processo di ri-pensamento avvenga in modo consapevole, tessendo dialoghi con i segni che si manipolano, in autonomia rispetto ai palinsesti precompilati o alle scorciatoie offerte dagli algoritmi, perché l’immaginazione è prima di tutto una forma di conoscenza che non ammette superficialità e disattenzione.

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1 Vedi, Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009.

2 Vedi, Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014.

3 Vedi, Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa. Traduzione di Enrico Filippini. Einaudi, Torino, 1966.

4 Vedi, Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005.

Iconosfera

La tecnologia non è uno strumento, ha da molto tempo superato il limite dello spazio sociale e culturale dentro cui aveva solo funzioni strumentali, finalizzate al raggiungimento di uno scopo preciso (sollevare, scavare, trasportare) assolto il quale cessava la sua utilità e rimaneva separata dal mondo. La tecnologia è oggi il mondo, dentro la tecnologia noi agiamo e pensiamo e non possiamo astrarci da essa perché non è possibile sottrarsi al proprio mondo – nessun animale può vivere al di fuori del proprio ecosistema e per noi, animali umani, la tecnologia è l’ecosistema. Questo ecosistema è costituito da strumenti, apparecchi, dispositivi; protocolli, procedure, azioni, il nostro agire “nella” tecnologia è di fatto un incessante emettere e ricevere una enorme e spesso inavvertita quantità di segnali, informazioni, dati e immagini; una quantità davvero strabiliante, addirittura inconcepibile di immagini ogni giorno.

Rispetto a chi ha vissuto in epoca premoderna il nostro ambiente visuale è enormemente ampliato e comprende immagini naturali, artificiali, mediali. In altri termini, possiamo dire che il nostro ambiente visuale è un’iconosfera cioè «la sfera costituita dall’insieme delle immagini che circolano in un determinato contesto culturale, dalle tecnologie con cui esse vengono prodotte, elaborate, trasmesse e archiviate e dagli usi sociali di cui queste stesse immagini sono oggetto. Dagli anni Novanta […] con l’avvento di internet, la progressiva diffusione delle tecnologie digitali e il sempre più facile accesso a software e dispositivi per la produzione, riproduzione, manipolazione, archiviazione, trasmissione e condivisione di immagini, il semplice numero delle immagini in circolazione è aumentato vertiginosamente, producendo un flusso iconico incessante – più volte descritto come bombardamento, cascata, proliferazione di immagini – che ha trasformato profondamente la nostra esperienza quotidiana. La rapida diffusione dei computer fissi e portatili; il lancio di programmi per l’elaborazione di immagini come Photoshop (la cui versione 1.0 compare nel 1990), di formati per la compressione di immagini fisse come il formato Jpeg (creato nel 1991-92) e di browser per la navigazione su internet come Netscape Navigator (1994) e Microsoft Internet Explorer (1995); la graduale convergenza di media precedentemente distinti dal punto di vista sia tecnologico (macchina fotografica, videocamera, cinepresa, schermo televisivo, schermo cinematografico, radio, telefono, macchina da scrivere, libro, giornale…) verso dispositivi multiuso caratterizzati da interfaccia semplici e intuitive: tutti questi fattori hanno fatto sí che un pubblico sempre più vasto fosse in grado di accedere a tecnologie capaci di produrre, elaborare e condividere immagini in modo rapido e immediato»1.

La complessità della nostra iconosfera è tale che nessuna immagine – e di fatto nessuna delle nostre altre attività2 – può essere più valutata per quello che è in se stessa, ma solo all’interno della rete di relazioni di cui è parte. Dunque anche le immagini che produciamo o consumiamo, per essere comprese, devono essere inserite nel loro contesto narrativo, nella dimensione relazionale di cui fanno parte, la nostra iconosfera è un intreccio, un luogo di transiti e sovrapposizioni, un rizoma direbbero Deleuze e Guattari.

La complessità e la stratificazione del nostro mondo visuale è tale che anche il nostro sguardo è stratificato, complesso, mutevole, si adatta ai contesti e si modifica in base alle rete di altre azioni a cui è connesso e, soprattutto, il nostro sguardo è specializzato: un medico ha uno sguardo completamente differente da quello di un sarto o di un grafico, se tutti costoro guardano, ad esempio, un corpo, il loro sguardo allenato e specializzato vedrà di questo corpo aspetti diversi invisibili agli altri. La questione è ulteriormente arricchita da fatto che ognuno di questi sguardi specializzati è ormai integrato (anche inconsciamente) a tutta una serie di protesi tecnologiche specifiche (una macchina per la risonanza magnetica, una fotocamera, un programma di modellizzazione, un algoritmo di simulazione somatica…) che ampliano enormemente e specializzano ancor di più lo spettro del visibile. Se il corpo che questi specialisti stanno guardando è il nostro ci rendiamo conto che allo sguardo umano, naturale che si posa su di noi si sovrappone anche uno sguardo macchinico, inumano e in qualche misura inconcepibile. Le macchine con cui guardiamo, a loro volta, ci rivolgono degli sguardi. Comprendere la qualità di questi sguardi non-umani su di noi e sul mondo è la sfida dell’attuale riflessione sulla natura della nostra iconosfera.

La riflessione sugli sguardi che le macchine ci rivolgono (satelliti e droni che ci osservano inosservati, videocamere di sorveglianza, macchine mediche, fotocamere dei device, tag sulle fotografie in cui appariamo inconsapevolmente, intelligenze artificiali che scrutano i nostri movimenti…) ripropone in modo del tutto nuovo un problema in verità antichissimo: il potere che le immagini esercitano su di noi. 

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1 Andrea Pinotti, Antonio Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi. Einaudi, Torino, 2016. p.18

2 «Nella tarda modernità – scrive Massimo De Carolis – tutti i sistemi sociali – dalla politica all’economia o alla scienza – tendono a organizzarsi e comprendersi non più come sistemi d’azione, ma come sistemi di comunicazione. Ciò non vuol dire che si agisca o si produca meno che in passato. Il punto però è che ogni azione socialmente significativa è valutata di fatto come proposta comunicativa concernente l’intero aspetto del sistema in cui è inscritta: il prezzo, poniamo, per un singolo titolo azionario comunica una certa lettura dell’intero mercato, una singola opera d’arte ridefinisce a suo modo la distinzione generale fra ciò che è arte e ciò che non lo è, e così via. In altri termini, perquanto il contenuto materiale di un’azione possa essere del tutto diverso in un campo o in un altro, la crescente complessità sociale fa emergere via via, in tutti questi diversi settori sociali un aspetto formale che è sostanzialmente lo stesso: quello per cui, a parità di contenuti, il significato di una data azione dipende dal modo in cui essa riassume in sé la rete di altre azioni cui è connessa, offrendone una possibile rappresentazione». Massimo De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Bollati Boringhieri, Milano, 2004.

Mnemosyne

Il lavoro sull’arte di Aby Warburg insiste nello scoprire forme antecedenti che emergono come fantasmi nei quadri, nelle sculture e negli affreschi degli artisti Rinascimentali: sotto le forme di una Madonna di Botticelli Warburg rintraccia la memoria di una figura etrusca; nelle sculture di Donatello scopre le maschere funerarie fiorentine medioevali e da queste risale alla scultura votiva romana. Memorie attive, dinamiche, sepolte sotto un’iconografia che allora, e spesso ancora oggi, si credeva cristallizzata.

L’attualità del pensiero di Warburg risulta immediatamente evidente osservando l’atlante Mnemosyne, la raccolta di immagini messe insieme dallo storico nella sua biblioteca con le quali dimostrava le potenzialità del suo metodo storico. Mnemosyne è composto da un’insieme 79 pannelli neri su cui sono fissate centinaia di fotografie, ogni pannello affronta un tema montando immagini diverse che lo attraversano in modo da costruire imprevedibili percossi di senso. Questo disporre immagini differenti e metterle in risonanza è un «atto interpretativo»: Warburg «disponendo, sullo schermo nero, vari riferimenti visivi organizzati o in polarità o in sequenze di dettagli-fotogrammi»1 compie un’azione ermeneutica in grado di connettere a livello profondo immagini che sono state prodotte in luoghi e tempi differenti ma anche di far emergere l’insieme di immagini preesistenti, di simboli, forme, riferimenti intessuti in ogni immagine. Questa pratica di montaggio rende visibile come gli stessi materiali che Warburg prende in oggetto sono frutto di stratificazioni e accumuli, di sopravvivenze consapevoli e reminiscenze inconsce. «Il primo modello dell’atlante Mnemosine va quindi cercato nella struttura stessa degli oggetti che interroga, che smonta e rimonta analiticamente»2, perché nessuna immagine, ci dice Warburg, può esistere senza quelle che l’hanno preceduta e seguita.

Ogni immagine si presenta allora come un insieme di elementi eterogenei che convivono nella stessa porzione di spazio e di tempo e in ogni immagine è intrinseca questa dimensione dialettica – come suggerisce Benjamin, è dialettica in posizione di arresto. Per questo, il lavoro di decifrazione si deve svolgere con un montaggio: con «un’interpretazione che non cerca di ridurre la complessità, ma di mostrarla, di esporla, di dispiegarla»3. E per poter dispiegare completamente la complessità delle immagini «Warburg aveva capito che doveva rinunciare a fissare le immagini, come un filosofo deve saper rinunciare a fissare le sue opinioni. Il pensiero è fatto di plasticità, di mobilità, di metamorfosi. Per questo Warburg si vide costretto a rinunciare persino a incollare le stampe fotografiche su tavole cartonate. […] Il semplice protocollo tecnico dei fermagli permetteva di lasciare alle immagini la loro mobilità e di non completare mai il gioco»4.

Ecco allora apparire chiaramente uno dei tratti che rende Mnemosyne una delle esperienze visive più formidabili del secolo: la capacità di Warburg di accettare la complessità della materia che manipola senza avere mai la tentazione di fissarla in una forma definitiva, in una forma che potremmo definire ottimizzata e dimostrare la necessità di mantenere la materia della propria analisi in uno stato di perenne mobilità e apertura, di caos irriducibile a ogni ordine definitivo, perché è proprio questo stato di turbolenza a stimolare la nostra facoltà di immaginare percorsi di senso sempre nuovi.

Lo stesso tipo di esperienza che ha compiuto Kurt Schwitters all’opera nel suo Merzbau, costruzione sempre in fieri, mai compiuta, mai fissata in una forma definitiva e consegnata a un perenne processo di ridefinizione e ri-pensamento.

Il desiderio di mantenere la scrittura della storia delle forme in uno stato di apertura e di instabilità è quanto di più lontano e avverso al tipo di storia che si andava scrivendo in Europa negli stessi anni, su cui le nazioni stavano fondando il mito del loro destino. «Mnemosyne – scrive Didi-Huberman – è un oggetto d’avanguardia in quanto osa decostruire l’album-souvenir storicistico delle “influenze dell’Antichità” per sostituirgli un atlante della memoria erratico, regolato dall’inconscio, saturo di immagini eterogenee, invaso di elementi anacronici o immemoriali, assillato dal quel nero degli schermi che, spesso, assume il ruolo di indicatore di spazi vuoti, di missing-links, di buchi di memoria. Essendo la memoria fatta di buchi, il nuovo ruolo attribuito da Warburg allo storico della cultura è quello di un interprete della rimozione, di un “veggente” dei buchi della memoria. Mnemosyne è un oggetto intempestivo, in quanto osa nell’età del positivismo e della storia trionfante, funzionare come un puzzle o come una partita i tarocchi sproporzionati – configurazione senza limiti, numero di carte variabile all’infinito. Le differenze non vengono mai riassorbite in qualche identità superiore: come nel mondo fluido della partecipazione, esse si animano dei loro legami, che – con sperimentazione sempre rinnovata – il cartomante di questo gioco con il tempo trova»5.

Ma la bellezza del Mnemosyne risiede anche nel suo essere un modello attivo e utile nel nostro presente: archetipo di tanti atlanti, raccolte di immagini, collezioni che percorreranno il Novecento arrivando sino a noi per rendere evidente – nell’era delle immagini interrelate da automatismi portatori di contenuti stabiliti in anticipo, dei link prodotti da algoritmi scritti per ottimizzare le nostre esperienze visive e cognitive e fissarle così a standard concepiti altrove e per scopi che non sono i nostri – che il significato di ogni immagine, o di ogni insieme di immagini deve essere cercato incessantemente, tessendo reti, disegnando analogie, mettendo in risonanza, scoprendo affinità e discrasie, accettando soprattutto di lavorare «non sul significato delle figure […] ma sui rapporti complessi che queste figure intrattengono tra di loro in un dispositivo visivo complesso, e irriducibile all’ordine del discorso»6.

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1 Didi-Huberman, Georges, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte. Traduzione di Alessandro Serra. Bollati Boringhieri, Milano, 2006. p.447

2 Ivi, p.447

3 Ivi, p.455

4 Ivi, p. 423-424

5 Ivi, p.444-445

8 Elio Grazioli, La collezione come forma d’arte. Johan & Levi Editore, Milano, 2012. p 36

Pensare, copiare

«Il più grande libro di scrittura non creativa è già stato scritto. Da 1927 al 1940, Walter Benjamin ha sintetizzato molte delle idee su cui aveva lavorato nel corso della sua carriera in un’opera intitolata I «passages» di Parigi. Molti credono che non si tratti d’altro di centinaia e centinaia di pagine piene di note, una pila di frammenti e di bozze, in vista di un’opera di pensiero mai realizzata. Ma altri sostengono che si tratta di una rivoluzionaria opera di circa mille pagine, basata sull’appropriazione e sulla citazione, così radicale nella sua forma non digerita che è impossibile pensare a un’altra opera nella storia della letteratura che abbia lo stesso approccio. È uno sforzo enorme: la maggior parte di ciò che è contenuto nel libro non è stata scritta da Benjamin, che ha invece copiato testi scritti da altri, presi da mucchi di libri conservati nelle biblioteche, con alcuni passaggi che durano diverse pagine. Restano comunque le convenzioni: ogni estratto è citato correttamente e la “voce” di Benjamin si inserisce brillantemente con commenti e postille a ciò che ha copiato»1.

Dunque, I «passages» di Parigi sono un grande collage di testi giustapposti, parole e pensieri di cui l’autore si è appropriato, sottraendoli dal loro contesto, per immetterli dentro una nuova cornice discorsiva, in un certo senso si può dire che Benjamin fa dire ad altri le cose che desidera, a volte sovvertendone il senso – trasforma un orinatoio in una fontana.

Benjamin era perfettamente consapevole della natura della propria operazione – cioè produrre pensiero originale attraverso l’appropriazione, la trasformazione, il ready-made – in una nota ai «passages» scrive: «Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico mondo possibile: usandoli». E ancora: «Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio»2.

Continua Goldsmith: «Benjamin non fa alcun tentativo di unificare [i propri materiali], se non quello di  organizzare liberamente le sue citazioni per categorie. […] Invece di ammirare la capacità di sintesi dell’autore, siamo portati a riflettere sulla squisita qualità delle scelte di Benjamin, sul suo gusto. È ciò che sceglie di copiare che rende questo lavoro un’opera riuscita. […] Per tanti versi, il modo in cui leggiamo i «passages» parla del modo in cui abbiamo imparato a usare il Web: viaggiando da un luogo all’altro dell’ipertesto, navigando attraverso la sua immensità; parla di come siamo diventati dei flaneur virtuali, surfando in modo casuale; di come abbiamo imparato a gestire e a raccogliere le informazioni, senza sentire la necessità di leggere il Web in modo lineare, e così via»3.

Assumiamo quotidianamente contenuti disseminati in miliardi di pagine digitali scollegate tra loro e li organizziamo secondo il nostro personale palinsesto, non si tratta semplicemente di una pratica dovuta a una specifica contingenza è, invece, un modello di pensiero che la cultura occidentale sperimenta da un centinaio d’anni, e in modi sempre diversi, il web non ne è che la versione più tecnologicamente aggiornata.

La scrittura filosofica di Benjamin, che si fonda su una pratica di raffinatissimo prelievo e montaggio di materiali differenti, è molto simile tanta poesia surrealista che negli stessi anni sperimentava nuove forme letterarie, disarticolando la struttura linguistica con montaggi, ritagli, giochi; e collezioni, raccolte, antologie.

Ad esempio, nel 1939 André Breton, per metter a fuoco un concetto centrale ma nebuloso del Surrealismo, quello di humor nero – non un genere letterario preciso ma una maniera di concepire la scrittura come emanazione, esplosione, provocazione, irrisione, rovesciamento – ha costruito un’antologia raccogliendo decine di testi, stralci, frammenti, citazioni per comporre un grande mosaico (un collage, un merzbau) di voci differenti, a volte antitetiche ma comunque convergenti, assonanti.

L’Antologia dello Humor nero di Breton è un altro grande esempio di pensiero prodotto attraverso la collezione e il montaggio: «Abbiamo a che fare – scrive Breton – con un soggetto scottante, avanziamo su un terreno infuocato, abbiamo di volta in volta il vento della passione favorevole o contrario, dal momento in cui pensiamo di sollevare il velo sul quell’humor di cui riusciamo tuttavia, con immensa soddisfazione, a individuare i prodotti evidenti nella letteratura, nell’arte, nella vita»4.

L’Antologia quindi disegna una figura dai contorni imprecisi ma “scottanti” che si producono non tanto nell’analisi di un testo isolato quanto nel rapporto che questo riesce a instaurare con gli altri testi della stessa scottante natura, il “senso” è dunque una questione di relazioni tra gli oggetti – un meccanismo intertestuale, direbbe Stoichita. In altre parole, Breton, come Benjamin – e come Schwitters all’opera nel suo Merzbau – ha costruito una storia della letteratura seguendo un processo non lineare e narrativo ma  aggregando materiali differenti in maniera rizomatica. L’antologia così concepita forma un’immagine in cui i significati si dispongono in modo fluido, aperto, in cui i concetti nascono grazie a imprevedibili accostamenti e collisioni.

Questa figura, Walter Benjamin, la chiamerebbe costellazione: «La prima cosa di questo cammino sarà assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale. Rompere, dunque, con il volgare naturalismo storico. Cogliere la costruzione della storia in quanto tale nella struttura del commentario. […] Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto»5.

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1 Goldsmith, Kenneth, CTRL+C CTRL+V (scrittura non creativa). Traduzione di Valerio Mannucci. Nero, Roma, 2019. p. 129

2 Benjamin, Walter Benjamin, I «passages» di Parigi. Edizione italiana a cura di Enrico Ganni. Einaudi, Torino 2000 e 2010. p. 514, p. 512

3 Goldsmith, cit. p. 133, p. 136

4 André Breton, Antologia dello Humor nero. A cura di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis. Einaudi, Torino, 1970. p. 10

5 Benjamin, cit. p. 116

Pensiero selvaggio

Benjamin con suoi «passages», Warburg con l’atlante Mnémosyne, Bataille segretario generale di “Documents”, Schwitters all’opera nel suo Mezbau hanno tutti lavorato adottando una erudita quanto immaginativa pratica di montaggio: ogni immagine, ogni oggetto, ogni parola chiede e genera una infinita possibilità di correlazioni, incollaggi, scoperte.

Un “modus” rizomatico e imprevedibile, una fluidità che ammette anche una cospicua dose di rischio perché costringe ad agire sui materiali senza un progetto, senza uno schema preventivo, consegnandosi all’alea del caso e alla possibilità dell’inconcludenza, del fallimento.

Proprio come fa il bricoleur, colui che costruisce arrangiandosi con quello che trova, senza perseguire un progetto definito in partenza. Il bricoleur è una figura omologa a quella del montatore perché agisce con ciò che ha a disposizione, lavorando con quello che il caso ha voluto assegnargli, mettendo in risonanza oggetti e pensieri diversi, decostruendo il senso che è stato progettato per loro e immaginando una nuova forma, un nuovo destino.

La cultura occidentale sintonizzata sulle frequenze della modernità, in cui regna quel principio di ottimizzazione che discende dalla ragione produttiva in cui ogni azione è guidata da un calcolo, ha guardato poco e con sospetto a queste pratiche in auge invece nelle società primitive. Il primo ad accorgersi della fondamentale peculiarità dei modelli concettuali e operativi che stanno alla base del fare tradizionale (extra-occidentale o pre-moderno e, ora, post-moderno) è stato Claude Lévi-Strauss: tra il 1950 e il 1960 l’antropologo francese ha lungamente studiato le società pre-moderne, in cui la logica del progetto è sostituita dalla pratica del bricolage.

Nel libro “Il pensiero selvaggio” (1962) Lévi-Strauss distingue il pensiero occidentale moderno, improntato alla logica astratta e scientifica, dalle pratiche di conoscenza delle società primitive guidate invece da una scienza del concreto e precisa che «sopravvive fra noi una forma di attività che, sul piano tecnico, ci consente di renderci conto abbastanza bene delle caratteristiche, sul piano speculativo, di una scienza che preferiamo chiamare primaria anziché primitiva: questa forma è di solito designata col termine bricolage». E continua: «Oggi per bricoleur s’intende chi esegue un lavoro con le proprie mani, utilizzando mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo di mestiere. […] Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè un insieme via via finito di arnesi e materiali, per altro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni o distruzioni precedenti»1.

Il bricoleur è insomma un montatore che costruisce il proprio discorso con i materiali e gli arnesi di cui dispone, accettando la complessità di questo stato di cose; il bricoleur non lavora ottimizzando i suoi sforzi, e nemmeno massimizzando i suoi profitti; il suo processo creativo è sempre aperto e permane in uno stato di fluidità che è insieme incertezza, caos e ricchezza potenziale.

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1 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio. Traduzione di Paolo Caruso. Il Saggiatore, Milano, 2003. pp. 29-30

Uso e consumo

Negli anni Ottanta, quando la cultura occidentale comincia a scoprirsi postmoderna e la fiducia nei modelli di produzione materiale e culturale che l’hanno guidata negli ultimi duecento anni mostra qualche crepa, la pratica del bricolage, con tutto il suo portato concettuale e operativo, torna ad assumere un nuovo rilievo. Si deve a Michel De Certeau una nuova messa a fuoco di questi temi. Con il libro L’invenzione del quotidiano dedicato alle “arti del fare”, apparso nel 1980, il filosofo francese ha ridisegnato la lettura che la società occidentale dava di se stessa. Il testo di De Certeau diventerà negli anni Novanta la stella polare di una nuova generazione di intellettuali e artisti che dovrà imparare a maneggiare i cambiamenti imposti dall’avvento della globalizzazione e dalla rivoluzione informatica nella produzione di beni e informazioni, nella circolazione del sapere, nei modelli economici e nella forma delle relazioni interumane.

Michel De Certeau si interroga su come le persone usano quello che consumano. La distinzione tra “uso” e “consumo” getta una luce nuova sui nostri comportamenti e illumina degli spazi rimasti ignoti – una distinzione molto attuale oggi, nel nostro presente ottimizzato da algoritmi sempre più sofisticati che ci inseguono fino nelle pieghe della nostra biografia. 

Sappiamo ormai che, grazie all’apparato burocratico, alle ricerche di mercato, alle analisi dei sociologi, alle indagini della polizia, alle tracce sempre più cospicue che lasciamo negli archivi digitali, il potere, qualsiasi esso sia, sa tutto di noi, conosce le nostre preferenze e le nostre idee, il nostro stato di salute e la nostra situazione economica, la nostra propensione di spesa, il nostro orientamento sessuale…

Tuttavia, dice De Certeau, le cose non sono così semplici: «Per esempio, l’analisi delle immagini diffuse dalla televisione (rappresentazioni) e della quantità di tempo passata davanti allo schermo (comportamento) dev’essere completata dallo studio di ciò che il consumatore culturale fabbrica durante queste ore e con queste immagini. Lo stesso vale per lo studio dello spazio urbano, dei prodotti acquistati al supermercato o dei racconti e delle leggende che i giornali mettono in circolazione. Questa fabbricazione da svelare è una produzione, una “poietica” (dal greco poiein: creare, inventare, generare) – ma nascosta, perché si dissemina negli spazi definiti e occupati dai sistemi della produzione (televisiva, urbanistica, commerciale eccetera) e perché l’estensione sempre più totalitaria di tali sistemi non lascia più ai consumatori un luogo in cui rivelare ciò che fanno dei prodotti. A una produzione razionalizzata, espansionista e al tempo stesso centralizzata, chiassosa e spettacolare, ne corrisponde un’altra, definita consumo: un’attività astuta, dispersa, che però s’insinua ovunque, silenziosa e quasi invisibile, poiché non si segnala con prodotti propri, ma attraverso i modi di usare, quelli imposti da un ordine economico dominante»1.

L’autore scopre la sottile ma profonda differenza tra uso e consumo: cosa facciamo veramente con i prodotti che la macchina delle merci ci mette in casa, tra le mani, nello sguardo? Questi modi di usare, spesso in maniera eterodossa ciò che ci viene assegnato, implicano un processo di decostruzione e riassemblaggio, un lavoro di montaggio, un bricolage appunto; pratiche che hanno strutturato tutti i processi creativi dagli anni Novanta sino a oggi, come ha chiaramente mostrato Nicolas Bourriuad nel libro Postproduction.

Bourriaud ricolloca le analisi di De Certeau nel panorama contemporaneo scrivendo: «Ne L’invenzione del quotidiano lo strutturalista Michel De Certeau analizza i movimenti nascosti sotto la superficie della coppia “produzione-consumo”, dimostrando che il consumatore, lungi dall’essere quell’elemento passivo al quale pensiamo, è impegnato in un insieme di operazioni assimilabili ad una veritiera “produzione silenziosa” e clandestina. Servirsi di un oggetto comporta necessariamente una sua interpretazione. Utilizzare un prodotto significa a volte tradirne il concetto. Leggere, guardare un’opera d’arte o un film significa anche sapere operare uno scarto: l’uso stesso è un atto di micro-pirateria, il grado zero della postproduzione. […] A partire dalla lingua che ci viene imposta (il sistema della produzione), costruiamo le nostre frasi (atti di vita quotidiana), riappropriandoci così di micro-bricolage clandestini, ultima parola della catena produttiva. […] Ciò che conta davvero è ciò che facciamo con gli elementi a nostra disposizione. Dunque siamo affittuari della cultura: la società è un testo la cui legge è la produzione, una legge che i cosiddetti utenti passivi scartano dall’interno grazie alle pratiche della postproduzione. Ogni opera d’arte, suggerisce Michel De Certeau, si può abitare come un appartamento in affitto»2.

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1 Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano. Traduzione di Mario Baccianini. Edizioni Lavoro, Roma, 2010. p.7

2 Nicolas Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo. Traduzione di Gianni Romano. Postmediabooks, Milano, 2004. p. 18

Decoro postmoderno

Scrive Nicolas Bourriaud: «Sfrondare, epurare, eliminare, sottrarre, far ritorno al principio primo: tale fu il denominatore comune di tutte le avanguardie del XX secolo. […] Tornare al punto di partenza per ricominciare dall’inizio e fondare un nuovo linguaggio sgombro dalle scorie. Alan Badiou paragona questa passione per la “sottrazione” a un lavoro di epurazione, senza obliterare le sinistre connotazioni politiche del termine: nel modernismo, scrive, si manifesta sempre una “passione del cominciamento” cioè la necessità di fare il vuoto, tabula rasa come condizione preliminare di un discorso che inaugura e getta i semi dell’avvenire: la radice»1.

La passione del cominciamento del modernismo novecentesco ha avuto come primo risultato quello di epurare ogni motivo ornamentale. Dopo la fine della guerra fredda, nel generale ridispiegamento della cultura occidentale verso posizioni definite postmoderne, in cui a venire meno è prima di tutto la fiducia nella forza positiva del progresso, cioè la meta-narrazione che ha innervato tutta la modernità, il decorativo è tornato a mostrarsi nei linguaggi dell’arte e della creatività. Un ritorno avvenuto proprio in virtù dell’antiradicalità del decorativo, del suo essere efflorescente, superficiale e contagioso, del suo opporsi in ogni modo alla sottrazione e alla tabula rasa. Il postmoderno è così il tempo in cui i segni possono crescere in modo incontrollato e intrecciarsi e interagire e proliferare in forme impossibili nel recente passato modernista. Un’esplosione che cresce con l’intrecciarsi dei media vecchi e nuovi su scala mondiale, con la sempre maggiore circolazione di cose, capitali e persone imposta dalla globalizzazione: il traffico – di informazioni, immagini, denaro, merci e popoli – è la vera cifra del nostro presente postmoderno.

«La fine del modernismo – scrive ancora Bourriaud – coincide così con la tacita accettazione dell’ingorgo come modo di vita tra le cose»2. In questo ingorgo globale e permanente la funzione di mediazione del decorativo torna ad assumere un nuovo rilievo. Allo stesso modo, secondo Bourriaud, molta arte contemporanea ha la funzione di fornire forme di traduzione fra diversi contesti3. Mediazione e traduzione indicano in fondo lo stesso principio in cui, nella forma espressiva, a prevalere non è la ricerca della forma originale, radicalmente nuova, quanto piuttosto l’incontro e l’integrazione di elementi diversi.

Ecco allora riapparire, all’alba del nostro presente postmoderno, quelle figure dell’alterità che la tradizione antidecorativa moderna aveva espunto e marginalizzato. A partire dai tardi anni Settanta e lungo tutto il decennio successivo, grazie ai cultural studies, si sono trovati nuovi motivi d’interesse in tutti quei linguaggi eccentrici e differenziali – popolari, subalterni, extraeuropei – che lungo il Novecento hanno proliferato ai margini del discorso culturale. Sono quelle alterità indicate da Jaques Soulillou che sono state la controparte della cultura moderna razionale e, contrapposte al soggetto maschile, bianco e occidentale, ne hanno confermano l’identità. In questo quadro, sull’onda delle culture jamming4, all’alba del nuovo millennio si colloca anche l’emersione del fenomeno underground dei graffiti e quindi l’esplosione della street art, espressioni di una creatività urbana fuori dal controllo della cultura “ufficiale”.

Detto questo, malgrado la sostanziale caduta delle ragioni che hanno sostenuto la scomunica modernista del decorativo, il sospetto verso le forme ornamentali è ancora largamente presente nell’estetica contemporanea, specialmente nella cultura del progetto (anche grafico) dove è ancora largamente preminente la componente razionalista e funzionalista.

L’ornamento oggi si trova ampiamente declinato nell’arte contemporanea e in tutte quelle componenti della creatività ancora ostinatamente assegnate – in una sopravvivenza dei pregiudizi ottocenteschi – alla creatività femminile: bricolage e abbigliamento, arredamento d’interni; è tollerato – ma spesso non compreso – in quelle forme estetiche che arrivano dalle culture extraeuropee, ancora una volta, una sopravvivenza dei pregiudizi ottocenteschi; allo stesso modo, è dato per scontato nei linguaggi popolari e nella così detta cultura d’intrattenimento.

Riaffiorano così, sebbene in modo contraddittorio, nel presente postcoloniale e globalizzato, tendenze antimoderne, eccentriche e differenziali che reintegrano nel discorso culturale e artistico quegli elementi che la modernità razionalista aveva espunto o messo a tacere: le figure periferiche della donna, del primitivo e del proletario alle quali era associato l’ornamento. Un’emancipazione avvenuta assieme alla caduta di una rigida distinzione tra cultura alta e bassa, accademica e popolare, di ricerca e commerciale.

Per sintetizzare, possiamo affermare che la dimensione ornamentale vive nel presente postmoderno una situazione ambigua: solo in parte reintegrata nel discorso culturale, è spesso guardata con sospetto. Vi è però un campo in cui il decorativo ha invece elaborato una nuova cultura prendendo il sopravvento su ogni componente razionalista, uno spazio dinamico ed espressivo in cui la decorazione ha riformulato la propria funzione di mediazione, uno luogo in cui germoglia tutta la paradossale carica creativa – dissolutoria e insieme aggregatrice – che arriva direttamente dalla stagione dadaista. Questo spazio è quello della strada.

[N]

1 Nicolas Bourriaud, Il radicante. Traduzione di Marco Enrico Giacomelli. Postmediabooks, Milano, 2014. p. 45 

2 Ivi, p. 49

3 Ivi, p. 52. Su questo punto vedi il libro di Cinzia Pagani, L’ornamento non è + un delitto. Spunti di riflessione sulla decorazione contemporanea. Franco Angeli, Milano, 2018, in cui si precisano i termini del ritorno al gusto ornamentale nel nostro presente in architettura e nel design e, per estensione, in tutta la cultura del progetto e nella creatività in genere.

4 Da Wikipedia, l’enciclopedia libera: «Il culture jamming, traducibile in italiano con “sabotaggio culturale” o “interferenza culturale”, è una pratica contemporanea che mira alla contestazione dell’invasività dei messaggi pubblicitari veicolati dai mass media nella costruzione dell’immaginario della mente umana».

Antidecorativo

«È nella Vienna di fine secolo – scrive Buci-Glucksmann –, città di tutte le modernità, di Klimt, di Musil e di Freud, che l’ornamento diventa un crimine. Polemizzando contro la Secessione, Adolf Loos approfondisce nei suoi articoli e nei suoi libri la distinzione occidentale tra arte minore e arte nobile, arte decorativa e arte, e istituisce il primo processo razionalista e puritano contro l’ornamento in arte e in architettura. Più precisamente, un crimine “contrario all’uomo civile”. O meglio, il segno di una “sensualità bestiale”»1. All’alba del moderno, come atto fondante di tutto il movimento c’è un violento rifiuto dell’ornamento. Un attacco che Loos muove come reazione al successo di Klimt e dalla Secessione nell’Austria di fine Ottocento e all’imperante gusto Liberty che attraversa l’Europa. Loos attacca l’ornamento perché lo interpreta come espressione di una cultura dell’apparenza, segno della decadenza della monarchia austro-ungarica; esercizio formale e superficiale che tende a nascondere e a defunzionalizzare l’oggetto ed è quindi anti-economico; perché è tipico delle culture subalterne o non pienamente formate, delle classi sociali inferiori; perché è primitivo e irrazionale (nei suoi scritti Loos evoca gli indigeni con i copricapo di piume e i bracciali di perline).

Loos è capofila di una tendenza culturale che diventerà egemonica nel corso del Novecento. Nota ancora Buci-Glucksmann: «La polemica viennese sull’ornamento è così rivelatrice, perché ci fa riflettere e ci fa vedere la nascita di due forme di modernità: da una parte una modernità razionalista di progresso che funziona su una cesura radicale con il passato e che nel concetto di avanguardia troverà la sua pratica e la sua utopia; dall’altra, una modernità più “intempestiva”, per non dire controcorrente, che si situa in una costellazione di tempi differenziali e rifiuta i grandi dualismi tra arte nobile e arte applicata, tra maschile e femminile, occidentale e non-occidentale, organico e artificio. Se la prima dominerà a lungo […] la seconda avrà una storia più sotterranea. Più ambivalente ma altrettanto permanente»2. Questa seconda modernità, differenziale e intempestiva (che si ritrova dentro agli attraversamenti, ai giochi e alle decostruzioni dadaiste) attraversa in modo carsico tutto il Novecento per riemergere nel nostro presente postmoderno.

Lo stesso approccio critico al decorativo di Loos lo si può ritrovare in un altro grande intellettuale dell’epoca, Charles Baudelaire. Anche per il poeta, tra i più influenti teorici dell’arte moderna, l’ornamento è superfluo e fasullo, un inutile, se non pernicioso, stratagemma che tende a nascondere la forma. L’ornamento per Baudelaire è tollerabile, perché essenziale, solo in un caso, quando ha a che fare con la bellezza femminile. Siamo dunque in un territorio culturale che distingue e gerarchizza con precisione le varie forme di espressione: da una parte c’è il mondo della cultura virile, razionale e volitivo, mondano e politico, orientato alla costruzione e governato dal raziocinio; dall’altro l’universo femminile, frivolo e seducente, composto di soggetti passivi che si danno come strumenti del piacere – e del dominio – maschile. L’ornamento è per Baudelaire una «manifestazione spontanea e irriflessa, propria, oltre che della donna, del selvaggio e del bambino: questi “con la loro ingenua aspirazione verso ciò che brilla, i piumaggi multicolori, le stoffe cangianti, la maestà superlativa delle forme artificiali, attestano il disgusto per il reale, e dimostrano così, inconsapevoli, l’immaterialità della propria anima”»3.

Ecco profilarsi gli elementi che nella cultura del tardo Ottocento connotano l’ornamento: espressione femminea, frivola, passiva e irriflessiva; espressione tipica delle culture primitive (colonizzate dalle potenze Europee); espressione infine delle classi subalterne, popolari e proletarie – quella montante marea rossa che spaventava a morte le classi borghesi. Secondo Jaques Soulillou sono proprio quelle alterità che nel corso del Novecento saranno la controparte della cultura moderna razionale, costruttiva e «che, contrapposte al soggetto maschile, bianco e occidentale, confermano l’identità di questo. Il contadino vestito a festa, la donna agghindata di pizzi e gioielli, il capo tribù con il suo casco di piume e le collane di perline ne sono altrettante vistose incarnazioni»4.

Il rifiuto di Loos, Baudelaire e di tanti altri pionieri del movimento moderno per l’ornamento con tutta la sua carica di alterità, sensualità e ambiguità, e la preminenza assegnata alla componente razionale e positiva troverà nelle esperienze delle avanguardie del primo Novecento il terreno su cui svilupparsi pienamente. Gli artisti, i poeti, i designer del Bauhaus tedesco, del De Stijl olandese, del Costruttivismo russo, ma anche del Futurismo e del razionalismo italiani sono tutti impegnati nella ricerca di una forma pura, essenziale, emendata dalle incrostazioni del passato, in cui non vi sia interferenza tra il contenuto degli oggetti estetici e il loro aspetto esteriore. E, poiché non deve esserci distanza tra forma e funzione, tra contenuto e contenitore viene a cadere la funzione di mediazione dell’ornamento. L’ornamento viene percepito e osteggiato come una impurità: il concetto di impurità, nel primo Novecento europeo attraversa non solo l’arte, ma anche la società e la politica. I totalitarismi che si impossessano del continente negli anni Trenta fondano, non a caso, la loro ideologia su ideali di purezza: di razza, di nazione, di classe.

Contorni degli oggetti, struttura dei quadri, sintassi delle composizioni poetiche o musicali: tutto viene ricondotto a elementi geometrici e funzionali; i colori diventano puri, piatti, senza qualità emotive; le forme si raggiungono in un processo di riduzione e sottrazione. Una tensione che attraversa tutto il movimento moderno e, passando per il celebre anatema “Less in more” di Mies Van Der Rhoe, guiderà le scelte di tutti coloro che negli anni del secondo dopoguerra si muoveranno nel solco del minimalismo. Una anestetizzazione estetica guidata da una precisa presa di posizione teorica e, si potrebbe dire, anche morale, l’astrazione è interpretata come il necessario progresso della civiltà. L’ornamento è quindi espunto dal linguaggio modernista e diventa assente o residuale in tutta l’avanguardia novecentesca orientata ideologicamente che vede nella decorazione l’espressione dell’ipocrisia borghese (sono quello che appaio e non quello che sono) e sembra vivere solo nella cultura popolare che la sensibilità moderna identifica come kitsh. 

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1 Christine Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento. Traduzione di Simone Verde. Sellerio, Palermo, 2010. p. 29

2 Ivi, p. 29

3 Giuliana Altea, Il fantasma del decorativo. Il Saggiatore, Milano, 2012. p. 20

4 Ivi, p. 11