Arte

Dopo la guerra

1 Anni Cinquanta

America anni Cinquanta, dopo la vittoria. È il decennio in cui gli Stati Uniti diventano una super potenza: a livello politico, come nazione egemone dei paesi non comunisti, come modello economico e come produttori di intrattenimento. Di fatto, l’immaginario occidentale dal dopoguerra – cinema, musica, fumetti e, naturalmente, arte – è made in USA (Wim Wenders farà dire al personaggio di un suo film: “gli americani ci hanno colonizzato il subconscio”). Non toccata dalle distruzioni della guerra, con gli apparati produttivi e politici integri, vincente sul piano militare come su quello culturale, l’America si trova nel ‘45 in una situazione di clamoroso vantaggio rispetto alle nazioni europee o asiatiche prostrate dal conflitto. 

La struttura industriale delle nazioni occidentali, che nella prima metà del secolo era destinata perlopiù alla produzione pesante (rispondeva alla necessità di costruire, partendo da zero, grandi reti infrastrutturali) si riconverte nella produzione di beni di consumo. E sul consumo si fonda un nuovo stile di vita: la società americana diventa, prima che in Europa, compiutamente di massa e consumistica,fornendo al mondo occidentale il modello di quello “stile” che sarà chiamato appunto “American way of life”. La comunicazione – il veicolo con cui il consumo si riproduce – comincia a trasformarsi in quello che è oggi, il reale fattore di connessione di questo nuovo modello sociale.

Inizia l’epoca d’oro della comunicazione: l’universo visivo della giovane America si impossessa dello stile dell’avanguardia europea trasformandolo nel lessico del nuovo modernismo, improntato alla leggerezza e all’eleganza, in cui alla semplicità dei segni è unito un senso nuovo di dinamicità e flessibilità.

In ogni campo delle arti industriali [grafica e pubblicità: Saul Bass, Alexey Brodovitch, Henry Wolf, Bradbury Thompson; illustrazione: Jim Flora, Charlie Harper, Alec Steinweiss; design: Charles Eames, Eero Saarien; architettura Frank L. Wright, Mies Van Der Rhoe, Philip Johnson] viene assunto l’imperativo delle avanguardie: sperimentare è innovare.

L’ampio spettro di possibilità tecniche che l’industria mette a disposizione in ogni campo viene sondato senza timore e in breve tempo, a partire dall’eredità europea, si formeranno una cultura e una sensibilità squisitamente americane.

Per descrivere sinteticamente lo stile moderno si può utilizzare il motto “Less is more” – il meno è più – coniato da Mier Van Der Rohe con cui l’architetto riassumeva la sua predilezione per le forme semplici e chiare, ridotte alla loro essenza funzionale: la bellezza insomma è generata attraverso un processo di semplificazione e riduzione, di purificazione.

Tra i mezzi di comunicazione tradizionali – cinema, stampa, musica, fumetti, su cui si forma l’immaginario e il sentire delle masse moderne – compare la televisione e assume un nuovo rilievo la pubblicità, quest’ultima diventa un fenomeno sociale che comincia a essere studiato come tale.

Le trasformazioni indotte nelle abitudini e nella psicologia dei cittadini americani (e poi europei) dalla nuova realtà dei consumi di massa cominciano a essere percepite e interrogate come un fenomeno antropologico (qualche titolo: 1957 Packard, “I persuasori occulti”, sulle insidie della pubblicità; 1957 Barthes, “Miti d’oggi”, sui cambiamenti dell’immaginario; 1963 Eco, “Apocalittici e integrati”, sulla comunicazione di massa; 1964 Mc Luhan, “Gli strumenti del comunicare”, sugli effetti sociali dei mass media; 1968 Dorfles, “Il Kitsch”, sulle trasformazioni del gusto). Come sempre, il giudizio su questi nuovi fenomeni è ambivalente, la società dei consumi garantisce a ogni cittadino un benessere mai raggiunto e un più alto grado di emancipazione e libertà. Al progresso sociale e materiale di grandi masse di persone si accompagna il progresso politico, con una maggiore capacità di azione collettiva – dagli anni Cinquanta inizia anche una stagione di lotte sindacali e di rivendicazioni politiche che trasformeranno profondamente i rapporti di forza nella società e tra le nazioni. Allo stesso tempo, viene anche percepito il pericolo sotteso a questo generale processo di trasformazione: la società dei consumi di massa tende all’omologazione e alla standardizzazione non soltanto dei prodotti ma anche di chi consuma i prodotti, poiché il consumo stesso viene vissuto come un fattore di realizzazione personale e di identificazione sociale. Ecco allora materializzarsi, per gli individui massificati e omologati nel consumo, lo spettro di una perdita di autenticità e libertà, sia materiale che spirituale.

La televisione soprattutto, ma anche il cinema, la pubblicità, il fumetto, la musica, la moda, si presentano come un panorama multiforme e dinamico in superficie ma omogeneo e standardizzato nei suoi elementi fondanti. La società del consumo di massa esiste perché c’è un’industria di produzione di massa, in questo quadro anche il tempo è un elemento essenziale del ciclo produttivo e il tempo libero diviene un prodotto a tutti gli effetti: diventa industria dell’intrattenimento. Le società occidentali vedono, a cominciare dagli anni Cinquanta e a partire dagli Stati Uniti, ridurre progressivamente gli spazi di libertà e di invenzione, erosi proprio dalla logica del consumo. Nasce quella che il filosofo francese Guy Debord battezzerà nel 1967 “La società dello spettacolo”. Alla produzione industriale delle immagini, alla serializzazione, alla riduzione a format facilmente consumabili ed estremamente deperibili e volatili dell’universo visivo (ed esperienziale, emotivo e cognitivo) si oppongono in vario modo molte delle tendenze artistiche che si svilupperanno, protraendosi per un ventennio, a partire dagli anni Cinquanta sia negli Usa che in Europa.

Action painting

Dopo la seconda guerra mondiale emerge negli USA una generazione di artisti che per la prima volta produce un’arte autenticamenteamericana e insieme uno stile perfetto per l’esportazione internazionale (il baricentro della cultura artistica si sposta dalla vecchia e semidistrutta Europa alla giovane New York). L’Action painting di Pollock, Kline, De Kooning e compagni è un’arte in cui la nazione uscita vittoriosa dal conflitto può esprimere tutta la propria energia: l’America si avvia a vivere il suo decennio felice (poi mitizzato e rinarrato a uso dei perplessi nei periodi di crisi: Happy Days, Ritorno al futuro, Grease, American Graffiti…).

Il rock n’ roll rappresenta l’espressione musicale di questa energia sociale e politica: è una musica in cui i gesti si liberano nel movimento, una musica di corpi eccitati, proprio come l’Action painting è una pittura di corpi in azione e sensi sovraccarichi. Pollock più di tutti mette l’accento sul dinamismo del corpo: il “dripping”, lo sgocciolamento della pittura sulla superficie orizzontale della tela, avviene con una specie di danza. L’Action painting esprime una nuova forma di protagonismo del corpo, chiamato in causa integralmente e riecheggia una società dinamica e veloce, in cui il sogno tipicamente Americano (e così intimamente connesso alla logica del capitalismo del «vivere inteso come azione») di produrre da sé la propria vita e la propria fortuna, riprende vigore.

Le conquiste formali delle prime avanguardie europee sono rielaborate e adattate alle esigenze di una società in ascesa: i segni e colori accaldati degli espressionisti e soprattutto il gesto automatico dei surrealisti, il cui il segno anticipa il significato, diventano i punti di partenza degli artisti dell’Action Painting.

Pollock, Kline, De Kooning e gli artisti di questa generazione vivono ambiguamente la nuova dimensione sociale americana: è un’arte letta da molta critica come una presa di distanza da quella cultura di massa – rumorosa e superficiale – che si impone nel corso del decennio e che gli artisti delle generazioni precedenti non sono con la loro opera riusciti a intercettare (almeno non direttamente). È una pittura che fa dell’autoreferenzialità il suo cardine e che pone proprio nel distacco con la società dei consumi la sua misura morale. Ancora una volta, si torna a parlare di lontananza dell’arte dalla prassi della vita, una lontananza vissuta però come una scelta. Tuttavia, nel distacco degli artisti dell’Action painting non si cela una vera e propria critica e il rifiuto verso il presente non sarà mai radicalizzato in forme estreme. Risiede anche in questo rapporto ambiguo con la sensibilità diffusa, con il gusto e con il sistema economico dell’arte il motivo dell’immediato successo mediatico e commerciale di Pollock e compagni.

Più i gesti si fanno liberi e potenti, più l’immagine aumenta di dimensioni: gli artisti dell’Action Painting prediligono le ampie superfici, i quadri assumono dimensioni proporzionate agli ambienti extra-large del modernismo americano. È una pittura perfetta per le grandi sale riunioni delle multinazionali, per gli ampi salotti dell’alta borghesia, per i moderni musei metropolitani: di fatto, l’arte d’avanguardia americana non vivrà mai conflitti insanabili con le istituzioni culturali ed economiche del paese e si svilupperà proprio in seno a esse, a differenza di quella europea che proprio sul conflitto con le istituzioni ha fondato la sua storia nella prima parte del secolo e la sua strategia negli anni Sessanta e Settanta1.

Sul medium

La vicenda dei linguaggi artistici dell’avanguardia è stata una storia di progressive radicalizzazioni: dalla seconda metà dell’Ottocento gli artisti hanno cercato di liberarsi da tutti i condizionamenti e i vincoli esterni al linguaggio come la rappresentazione, la simbologia, la narrazione, l’iconografia, la mitologia, la committenza. Dall’Impressionismo in poi il medium della pittura coincide sempre di più con lo scopo della pittura. L’astrattismo è il passo ulteriore verso un’arte che trova dentro a se stessa le ragioni teoriche e operative della propria esistenza, un’arte che sembra così toccare la sua stessa origine. Al medium (la pittura o la scultura) è affidato il compito di contenere integralmente il destino dell’artista e l’artista stesso comincia a coincidere con il suo medium. L’Action paintin è il punto di approdo di questo percorso (per usare un’immagine di Mc Luhan il medium è il messaggio, la forma è il contenuto)2. L’artista si inabissa dentro la pittura, chiudendosi – con un atteggiamento sospeso tra l’aristocratico e l’autistico – nel suo stesso linguaggio: Pollock è il dripping, è il “suo” medium particolare.

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1 «Non va dimenticato che negli Stati Uniti l’arte contemporanea nasce nelle sale museali, in un equilibrio irrisolto tra avanguardia e istituzionalizzazione, dove prima – depotenziato il suo carattere eversivo – portava, sin dalla sua apparizione le stimmate della seconda. Se le avanguardie storiche volevano riconciliare l’artista con la collettività, nel dopoguerra quest’ultima sembrava non indicare altro che la cultura di massa. Come scrive lucidamente Greenberg: “Una società interamente capitalizzata e industrializzata come quella americana, si sforza in modo implacabile di organizzare ogni possibile sfera di attività e di consumo in direzione del profitto, a dispetto di qualsiasi immunità dalla commercializzazione di cui ogni attività specifica possa aver goduto in passato”». Riccardo Venturi, Black Paintings, eclissi sul modernismo. Electa, Milano, 2008. pp. 50-51

2 «Così l’Espressionismo astratto diede rilievo allo spessore della pittura, evitando che si trasfigurasse in immagini e soggetti: sostanza e soggetto erano una cosa sola. Poiché il soggetto era la pittura stessa, un artista era un pittore e l’azione fondamentale era dipingere (non copiare, imitare, rappresentare, affermare, ma dipingere). L’artista, nella definizione di Harold Rosenberg, usa la tela come un’arena; su di essa l’artista interviene con con una pennellata che non ha alcun significato ulteriore e che, tutt’al più, è il soggetto di se stessa». Arthur C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte. Traduzione di Stefano Velotti. Laterza, Bari, 2008. p. 130

2 Espressionismo astratto o Informale europeo

Gli artisti che si trovano a lavorare nell’Europa degli anni Cinquanta vivono ovviamente una situazione molto diversa da quella dei colleghi americani: mentre questi ultimi si stanno fiduciosamente impossessando del mondo i primi devono confrontarsi con la distruzione materiale della guerra a cui si somma la devastazione morale e culturale, impossibile non prenderne coscienza e reagire producendo immagini che rispecchino lo stato delle cose. 

Anche in Europa c’è una generazione che riprende il discorso delle avanguardie rielaborandone il retaggio con posizioni e proposte differenti da paese a paese (e da artista ad artista); tuttavia in ogni gruppo – Tachisme in Francia, COBRA nel nord Europa, Informale in Italia – c’è un’uguale riutilizzo del gesto automatico surrealista, della tensione emotiva espressionista, del dinamismo futurista, elementi che servono a far emergere i traumi spirituali, le ferite culturali e i sensi di colpa politici della guerra. 

Ancora una volta e in modo simile a quanto accaduto negli anni Venti, mentre il tessuto politico ed economico viene ricostruito su solide basi capitaliste e il modello modernista e razionalista riprende vigore, le voci degli intellettuali si alzano per denunciarne i pericoli e le bugie. 

CO.BR.A. (acronimo che sintetizza le città di origine dei suoi esponenti Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam) è una delle espressioni più significative dell’Espressionismo astratto europeo. Dell’Espressionismo storico riattiva la componente emotiva e le posizioni politiche antiborghesi. Nelle opere di Appel, Jorn, Constant (che dal 1957 contribuì a fondare l’Internazionale Situazionista) viene liberata un’energia nervosa e sofferta, la materia pittorica diventa spesso greve, pesante, concreta ed è trattata con brutalità e violenza. Come nell’Action painting, il segno anticipa il significato diventando autonomo e organico e l’opera si disfa delle gabbie concettuali e dalle costrizioni formali.

Posizioni simili a Cobra, anche se non così insolenti, sono quelle assunte in Francia dagli artisti attivi sotto l’etichetta di Tachisme. In questi prevale spesso l’elemento materico e la pagina pittorica diviene più che campo in cui si liberano forze contrapposte, il luogo di sedimenti di memoria, di concrezioni emotive (sulla scia della stella polare del movimento Alberto Giacometti). Nell’opera di Fautrier, a esempio, la materia appare deformata dalla violenza. Dubuffet guarda invece all’arte dei pazzi, dei malati di mente vedendovi, pur nella brutalità dei gesti e nel dolore, una possibilità di liberazione per i sentimenti profondi, sorgivi, non contaminati dal razionalismo e dalla logica profitto. È un modo per non guardare all’Occidente, alla sua storia vincolante, al suo retaggio e alle sue colpe che abbiamo già incontrato all’inizio del secolo: guardare altrove è stata la strategia di molti artisti che hanno scelto, davanti alle trasformazioni imposte dalla modernità, di andarsene. Henri Michaux sceglie invece un “altrove” diverso e parte della sua opera pittorica (come quella letteraria) sarà compiuta sotto l’effetto di sostanze psicoattive1.

Non diversa è l’esperienza degli artisti variamente raggruppati sotto l‘etichetta di Informale: Hans Hartung, Pierre Soulages, Geroges Mathieu, Emilio Vedova, Afro, Toti Scialoja, Wols. Questi pittori condividono un sentimento tragico del tempo e una pratica che trova nella forzatura dei gesti, nell’energia dei segni e nella consistenza della materia elementi di affinità con il Tachisme francese.

Fuori dagli ambienti dell’informale artisti diversi per formazione e storia personale, rivolgono lo sguardo alla lezione razionalista della prima parte del secolo. Gli esiti formali sono diversi e a volte contrastanti: dalle forme drammatiche, dolorose ma che hanno il respiro di una pagina rinascimentale, di Burri; alla proposta di un nuovo tipo spazio figurativo di Fontana; ai concitati tessuti di forme e colori di Capogrossi. In ognuno si riconosce la capacità di trasformare segni antichi in gesti moderni; la scelta di abbandonare spesso il medium classico del colore per utilizzare materiali estrapolati da mondo contemporaneo; la necessità di uno stretto rapporto con le forme della storia dell’arte che viene riattivata e utilizzata come elemento propulsivo di un nuovo modernismo. Sono artisti che pur nella consapevolezza della tragedia che ha consumato l’Europa cercano di agire nel presente rinnovando gli strumenti dell’arte per produrre nuove forme estetiche e di pensiero adatte a un mondo in ricostruzione.

Sono esperienze che crescono accanto a tendenze neorealiste (in letteratura, Vitorini, Silone, nel cinema De Sica, Rossellini o in arte Guttuso per stare in Italia, di cui non ci occuperemo) molto lontane formalmente e ideologicamente ma che hanno in comune con queste il desiderio di affrontare la realtà e farne emergere la verità.

Arte programmata

Il razionalismo, che è stato uno degli elementi portanti dell’avanguardia prebellica, ha modo di trovare anche nelle arti visive spazi di espressione, seppure residuali, in cui si fa strada una sensibilità attratta dall’approccio scientifico del Bauhaus. Un atteggiamento che torna a indagare la struttura delle immagini analizzandone i fondamenti teorici e psicologici, i meccanismi di funzionamento e riproduzione. Una corrente che interesserà, dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Settanta tra le due sponde dell’Atlantico, artisti di differente formazione ma con l’uguale desiderio di affrontare gli eventi visivi come fenomeni scientifici per ricondurli sotto il controllo della ragione e dell’esattezza.

In Italia, dagli inizi degli anni Sessanta seguendo la stella di Lucio Fontana e in concomitanza con la rinascita politica e industriale del paese, molti artisti variamente raggruppati sotto l’ombrello di Arte programmata, esplorano l’attività creativa come esito tecnico di una dimensione speculativa. È un atteggiamento che ovviamente riflette un clima di fiducia nella forza del progresso e una partecipazione dinamica a quella che fin da subito viene percepita come una stagione eccezionale: sono gli anni del Boom, del miracolo economico.

America Astratta

A ridosso dell’esplosione dell’Action painting, e dell’immediato successo che riscuote, altri artisti americani cercano strade alternative di espressione. Si tratta sempre di pittori che partono dalle conquiste formali delle avanguardie europee ma che fissano l’attenzione sulle esperienze legate al razionalismo e all’idealismo positivista. L’alfabeto si raffredda, c’è una decisiva rinuncia al gesto emotivo, irrazionale e le soluzioni formali sono più meditate.

Man mano che ci si inoltra nel decennio la tensione razionalista prevale su un certo spiritualismo di fondo – spiritualismo sotteso a esempio al lavoro di Rothko, Newman e Francis. E proprio Rothko è il migliore esempio di una proposta formale che pone l’accento sulla dimensione spirituale, quasi mistica: i quadri devono rispondere alle esigenze emotive profonde che non trovano possibilità di espressione nell’epoca moderna, dominata dalla tecnica e dal profitto (un problema che si erano già posti Kandinsky e Klee).

Verso il minimalismo

La ricerca di immagini in cui le scorie emotive superficiali sono estromesse per lasciare spazio a una forma pura, assoluta, diventa l’obiettivo di Louis, Newmann e soprattutto Reinhardt e Stella, artisti che apriranno la strada alle proposte minimaliste degli anni Sessanta, in cui il linguaggio approderà a una sorta di grado zero. È una pittura che riflette su se stessa, e si pensa come forma autosufficiente, che non ha bisogno di altro significato se non quello che esprime nella propria immanenza. Viene così portata a uno sviluppo ulteriore una delle conquiste dell’Action painting: il processo di produzione dell’immagine è più importante dell’immagine che si è formata. È un passo sulla via della radicalizzazione dei linguaggi e sulla preminenza del medium artistico su ogni altra componente. Tutto ciò che non è inerente alla pittura è bandito: l’emotività dell’artista, la presenza emorragica dell’ego, la petulante necessità di espressione interiore sono un intralcio.

Più ci si addentra nel decennio più i passaggi si fanno rapidi e stringenti. L’arte del decennio successivo radicalizza ulteriormente questa tendenza producendo una prassi in cui l’arte non serve più a produrre immagini in cui il mondo possa rispecchiarsi o narrarsi ma piuttosto serve a pensare se stessa, e pensando se stessa, definendo i propri mezzi e la propria natura, definisce il mondo: l’arte si appresta a diventare un dispositivo filosofico.

La sensibilità artistica continua anche nella seconda parte del secolo a dividersi in due diverse possibilità: da una parte viene enfatizzata la dimensione emotiva, narrativa e psicologica dell’artista, dall’altra l’accento viene posto sulla componente razionale e speculativa4.

Una radicalizzazione che procede di pari passo con l’affermazione della cultura di massa, della società dei consumi e della comunicazione. Negli anni Sessanta, gli anni del boom economico e del benessere diffuso, il mondo si riempie di immagini e messaggi, la vita delle persone è un proliferare di cose e informazioni. La cultura del progetto – o, nella definizione di Maurizio Vitta, delle «belle arti industriali»5 – si è ampiamente emancipata e non ha più bisogno di tutele estetiche o filosofiche, né di drenare contenuti e modelli dal mondo delle arti nobili. L’arte non è più quel luogo in cui si sperimentano forme pure da calare nella prassi della vita: perdendo anche questo ultimo tratto di utilità il sapere artistico si trova a dover rinegoziare il proprio senso, il proprio posto nel mondo, nelle prossime lezioni vedremo come.

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1 Vedi gli straordinari libri di Henri Michaux, Altrove. Traduzione di Gianni Celati e Jean Talon. Quodlibet, Macerata, 2005, volume che raccoglie i suoi diari di viaggio in paesi immaginari. o Conoscenza degli abissi. Traduzione di Jean Talon. Quodlibet, Macerata, 2006, sulle sue esperienze con le sostanze stupefacenti.

2 Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica dal 1851 a oggi. Einaudi, Torino, 2011. p.227.

3 Ivi, p. 233.

4 È la componente che Filiberto Menna descrive nel libro La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone. Einaudi, Torino, 1983.

5 Vedi Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali. Einaudi, Torino, 2012.

Dada

1 Dada: arte e anti-arte

Nella Svizzera neutrale, nel mezzo della Prima guerra mondiale, un piccolo gruppo di poeti e artisti poco più che adolescenti fonda Dada: il movimento più radicale della storia dell’arte. Pacifisti, rifugiati, reduci, gente espulsa dalla storia, disgustata da un conflitto nato dall’abbraccio mortale tra nazionalismo e capitalismo. Artisti che si sentono traditi da un sistema di valori che, anche nelle sue forme più moderne e rivoluzionarie, è comunque intimamente legato al capitalismo, assoggettato al mercato e al profitto, alienante e ingiusto, non riformabile e quindi da rifiutare integralmente.

Il gruppo si forma a Zurigio nel 1916: l’artista Hugo Ball e la cantante Emmy Hennings convincono il proprietario di un bar a lasciarli utilizzare una sala sul retro del locale promettendo un incremento nella vendita della birra1. Nasce così il Cabaret Voltaire, il luogo in cui si riuniranno i primi dadaisti Huelsenbeck, Richter, Janco e Tzara. Al Cabaret Voltaire il movimento compirà i primi scandalosi esperimenti in cui teatro, musica, arte e vita si mescolano, scontrano e deflagrano. Già il nome del movimento, quel Dada che non significa nulla, scelto a caso forse da Tzara, segna la distanza dalle posizioni di tutte le altre avanguardie europee: Futurismo, Suprematismo, Cubismo, Costruttivismo, ecc. tradiscono nel nome la concezione di un’arte strutturata ideologicamente e motivata filosoficamente, lontanissima da quello spirito anarchico, antifilosofico, antisistema e distruttivo che sarà l’anima di Dada.

Nel libro Dada, arte e antiarte, la più organica testimonianza dell’esperienza dadaista scritta da uno dei suoi membri, Hans Richter scrive: «Il Dada non solo non ebbe alcun programma, ma fu in tutto e per tutto antiprogrammatico. Dada aveva come programma quello di non averne alcuno… e questo fatto, in quell’epoca e in quel momento storico, conferì a questo movimento la forza esplosiva per potersi estendere in TUTTE le direzioni senza impegni estetici e sociali. Questa assoluta mancanza di premesse costituì in effetti una assoluta novità nella storia dell’arte»2. Dada, nato nel cuore dell’Europa dilaniata da una guerra di matrice violentemente nazionalista, sarà un movimento trans-nazionale, a differenza di tutte le altre esperienze delle avanguardie storiche, radicate nell’identità nazionale (Futurismo-Italia, Bauhaus-Germania, Cubismo-Francia, Costruttivismo-Russia…).

Lo scopo di Tristan Tzara (poeta e autore dei primi strepitosi manifesti) e compagni è semplicemente quello di distruggere ogni linguaggio del passato, demolire ogni sistema di valori – culturali quanto economici – fare tabula rasa dei concetti di stile, genio, creazione, arte, gusto, bellezza. Per fare questo i dadaisti abbandonano i modi tradizionali dell’espressione artistica (la rappresentazione simbolica) e si affidano a procedimenti totalmente nuovi: ready-made, collage, assemblaggio, installazione, happening, performance, (di fatto, tutti i linguaggi che definiranno l’arte dal secondo Novecento a oggi); prediligono la fotografia e in genere la tecnologia perché anti-artistica e anti-naturalistica. I dadaisti adottano atteggiamenti che minano alla base tanto il contegno borghese quanto il fiducioso attivismo modernista: si affidano al caso, al gioco, alla provocazione insensata, al dileggio, ai gesti improduttivi, alle pratiche dispersive, cercano in ogni modo di sciogliere l’arte dentro i ritmi della vita quotidiana. 

«Noi – a parlare è ancora Hans Richter – abbiamo dipinto con le forbici, con la colla e con nuovi materiali, con gesso e con tela da sacchi, carta e ogni altro genere di mezzi, con collages e montaggi. Era un’avventura persino trovare una pietra, scoprire un meccanismo, trovare un semplice biglietto tranviario, un bell’osso, un insetto, “capire” un angolo della propria stanza: tutto ciò era capace di suscitare sentimenti genuini e diretti. Quando si fa aderire l’arte alla vita quotidiana e a esperienze particolari, l’arte medesima viene assoggettata agli stessi rischi delle leggi dell’imprevisto e al caso, al gioco delle forze vive»3.

Prelievo e collage

La tecnica d’elezione che i dadaisti utilizzano per demolire i canoni dell’arte, con i suoi linguaggi storicamente codificati e le sue tecniche rigidamente definite (disegno, pittura, scultura…) è quella del prelievo: cioè l’utilizzo di oggetti o segni prelevati direttamente dal mondo reale e collocati nel contesto artistico. È una strategia rivoluzionaria: per la prima volta dopo secoli l’artista non è più colui che rappresenta il mondo ma è colui che seleziona e presenta un pezzo di mondo.

Nelle esperienze futuriste e cubiste la tecnica del prelievo di oggetti del reale era già stata timidamente utilizzata, Picasso e compagni incollavano pezzi di giornale o piccole cose nei loro quadri, tuttavia essi rimanevano saldamente ancorati alla logica della rappresentazione simbolica del mondo e quanto prelevato veniva, per così dire, trasportato nel mondo della rappresentazione, nella cornice separata del quadro-scultura. I dadaisti rifiutano prima di tutto proprio il processo di rappresentazione e simbolizzazione del mondo e della vita (Picasso e Boccioni dipingono ancora quadri al cavalletto come facevano David o Raffaello secoli prima di loro).

Il collage – produrre immagini manipolando altre immagini – diviene lo strumento concettuale prima che tecnico con il quale i dadaisti affrontano i problemi della creazione. L’artista non è più colui che crea immagini dal nulla ma colui che preleva e trasforma le immagini che la società dei consumi rende disponibili. Il passaggio dal collage all’assemblaggio e all’installazione – cioè un collage che è diventato tridimensionale e quindi ambientale – è naturale e necessario.

Il prelievo e il collage promossi a strategia espressiva rappresentano una svolta radicale, un vero e proprio “cambio di paradigma”, e permettono una rivoluzione totale di ogni prassi consolidata, non solo nelle arti visive. Il collage diventa lo strumento per trasformare anche la lingua parlata e la letteratura. La poesia dadaista diventa il luogo di infinite sperimentazioni in cui le parole perdono il loro senso o addirittura s’inventano, (dopotutto, come si può utilizzare la stessa lingua parlata dai potenti che mandano al massacro milioni di persone), le frasi abbandonano la costruzione logica e i significati diventano mobili e ambigui e il linguaggio letterario diventa permeabile ai modi di dire, ai proverbi, alle volgarità, al gergo di strada o alle lallazioni infantili4. Le istruzioni per fare una poesia di Tzara sono, in questo caso, esemplari5.

Dada in mostra 

Le mostre Dada, come gli spettacoli del Cabaret Voltaire o dei festival organizzati in tutta Europa (che si concludevano quasi sempre con delle risse e delle scazzottate), sono il luogo della messa in pratica della furia iconoclasta, ludica e creativa dei dadaisti. Mostre e spettacoli allestiti con il preciso scopo di offendere il buon gusto del pubblico, irritare le autorità e suscitare scandalo e clamore. Ma, oltre a questo, sono il luogo in cui gli artisti e i poeti Dada  sperimentano forme assolutamente originali di allestimento e performance, portando il rapporto tra i diversi linguaggi artistici – arte visiva, teatro, musica, poesia – a un livello di compenetrazione completamente nuovo6.

Dada cammina

«Il 14 aprile 1921 a Parigi, alle tre del pomeriggio e sotto un diluvio torrenziale, Dada si dà appuntamento di fronte alla chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre. Con questa azione intende inaugurare una serie di escursioni nei luoghi banali della città. È un’operazione estetica consapevole, corredata con tanto di comunicato stampa, proclami, volantini e documentazione fotografica. […] Il passaggio dalle sale di spettacolo «all’aria aperta» è il primo passo di una lunga serie di escursioni, deambulazioni e derive che attraversano l’intero secolo come forma di anti-arte. Il primo ready-made urbano di Dada segna il passaggio dalla rappresentazione del moto alla costruzione di un’azione estetica da compiersi nella realtà della vita quotidiana. La frequentazione e la visita dei luoghi insulsi sono per i dadaisti una forma concreta per operare la dissacrazione totale dell’arte, per giungere all’unione tra arte e vita, tra sublime e quotidiano. […] l’operazione di Saint-Julien-le-Pauvre, è un rivoluzionario appello della vita contro l’arte, che contesta apertamente le tradizionali modalità dell’intervento urbano, campo d’azione tradizionalmente di pertinenza dei soli architetti e urbanisti. Prima dell’azione di Dada l’attività artistica poteva inserirsi nello spazio pubblico attraverso operazioni di arredo quali l’installazione di oggetti scultorei nelle piazze e nei parchi. […] Dada non interviene sul luogo lasciandovi un oggetto né prelevandone altri, porta l’artista, meglio ancora il gruppo di artisti, direttamente sul luogo da svelare, senza compiere alcuna operazione materiale, senza lasciare tracce fisiche se non la documentazione legata all’operazione – i volantini, le foto, gli articoli, i racconti – e senza alcun tipo di elaborazione successiva. […] L’opera sta nell’aver concepito l’azione da compiere, la visita, e non nelle azioni ad essa correlate»7.

Ready-made

Il rifiuto della rappresentazione del mondo porta i dadaisti ad adottare il collage come linguaggio di base e conduce, tra il 1914 e il 1917, Marcel Duchamp a concepire i primi ready-made8. Il reday-made è un oggetto trovato-fatto di cui l’artista si appropria e che utilizza per produrre una “scultura” apponendovi semplicemente un titolo e la propria firma9. L’oggetto trovato-fatto rimane sostanzialmente invariato (Fontana l’orinatoio presentato come una scultura continua a rimanere tale) viene però ricontestualizzato e risemantizzato assumendo così un nuovo significato e un diverso uso: è il gesto più radicale (e scandaloso) della storia dell’arte, e l’attacco più deciso al canone estetico occidentale.

La prima conseguenza di questo gesto è quella di demolire la figura dell’artista come genio creatore: per fare un ready-made non occorre saper dipingere come, per essere poeta, secondo Tristan Tzara, non serve saper comporre versi (le sue istruzioni per fare una poesia sono a tutti gli effetti un metodo per realizzare un ready-made letterario). Una conseguenza che porta a una liberazione e a una democratizzazione dei processi artistici totalmente nuova.

Un’altra conseguenza è che il destino dell’oggetto artistico non è più quello di essere un evento estetico. La bellezza come scopo dell’arte è una categoria filosofica che non si può più applicare a uno scolabottiglie o a un gabinetto. L’oggetto artistico non è né bello né brutto, i sensi dell’osservatore non sono più chiamati in causa e a essere decisivo nel rapporto con l’opera è il rapporto mentale, concettuale che si instaura con essa.

Nel ready-made la forma e il contenuto (il significato e il significante) vengono separati, in questa scissione si apre uno spazio di libertà inedito: l’esperienza artistica dadaista si produce tutta in questo iato, una zona sgombra in cui si crescerà anche tutta l’arte, che abbandonata l’idea di personalizzazione e di integrale adesione dell’artista al proprio medium, si può definire contemporanea

Indifferenza e Caso

Con il ready-made Marchel Duchamp introduce nel lavoro dell’artista due elementi completamente nuovi e profondamente rivoluzionari: il caso e l’indifferenza.Come si sceglie un oggetto per farne un ready-made? Semplice, si sceglie a caso. Gli oggetti non si selezionano in base a qualche loro tratto peculiare: un orinatoio, una pala da neve, uno scolabottiglie sono oggetti di origine industriale, sono prodotti e sono identici agli infiniti altri sfornati dal ciclo industriale. Le cose (che nei primi anni del Novecento si stavano massicciamente e inesorabilmente trasformando in merci) si offrono indifferentemente allo sguardo del consumatore, prive di qualità che non siano eminentemente utilitaristiche (uno scolabottiglie deve scolare in modo efficiente, una pala da neve deve spalare bene, un orinatoio…). Il ready-made distrugge l’idea di opera d’arte come oggetto unico, inimitabile e originale – infatti tutti i ready-made esistenti oggi sono repliche di quelli fatti da Duchamp, repliche autorizzate dall’artista perché, in realtà, non esiste un originaledei suoi ready-made.

Gli oggetti quindi non sono portatori di valori estetici e spirituali (siamo molto lontani dall’idealismo razionalista del Bauhaus) e Duchamp li vede, ed è il primo artista a vederli così, proprio per come sono: semplici cose, disposte indifferentemente alla sceltao alla non scelta del consumatore. Duchamp accetta l’oggetto per com’è veramente: effimero, obsolescente, anonimo. Se gli oggetti sono indifferenti gli uni dagli altri perché privi di un valore intrinseco, ontologico, l’artista dovrà affidarsi al caso per operare le sue selezioni e i suoi prelievi.

L’indifferenza e il caso diventano quindi dei generatori di forme e di pensieri e, soprattutto, la chiave per scardinare in modo irreversibile la logica dell’arte occidentale. Con Duchamp l’artista abdica a quello che è stato per secoli il suo potere: scegliere non cosa ma come mostrare e, attraverso la differenza (lo stile), definire in modo personale, inedito il mondo. 

L’attività di Duchamp ovviamente non si limita al ready-made, tutta la sua opera, specialmente quella giovanile è un incessante lavoro di demolizione e di ricombinazione degli elementi che compongono il canone aulico dell’arte. Sbeffeggiare la Gioconda, l’icona per eccellenza della pittura; mettere in dubbio la propria identità, la propria razza e il proprio genere sessuale; miniaturizzare la propria opera e trasformarla in una collezione portatile: ogni pezzo di Duchamp demistifica l’arte e la sua storia, irride gli artisti e la loro arrogante presunzione di essere diversi, demolisce l’oggetto artistico come portatore di un significato trascendente.

Ma l’aspetto veramente decisivo dell’opera di Duchamp, da cui deriva anche la capitale importanza per la storia dei linguaggi artistici (ed extra-artistici) del Novecento, è il privilegio assegnato alla dimensione speculativa su quella sensoriale (su quella che lui stesso definiva componente retinica o olfattiva dell’opera d’arte). Dopo Duchamp l’arte diverrà, piuttosto che un generatore di forme estetiche, una macchina che produce pensieri sulle forme, e quindi sulla vita. Con Duchamp e la rivoluzione dadaista l’arte si avvia a diventare quella che conosciamo e pratichiamo oggi: un luogo in cui si fa soprattutto filosofia, un esito che comincerà a diventare possibile grazie al lavoro di alcuni grandi precursori a partire dagli anni Cinquanta (Cage, Warhol, Manzoni, Klein) e percorribile a partire dagli anni Sessanta e Settanta con l’arte concettuale.

Merzbau

Si è detto come il passaggio dal prelievo al collage e quindi all’installazione sia una progressione naturale: ecco allora che, nell’alveo delle esperienze dadaiste, appare l’altro grande oggetto che con il ready-made di Duchamp rappresenta un punto di svolta decisivo per le sorti dei linguaggi, non solo artistici, del Novecento: il Merzbau di Kurt Schwitters.

Schwitters ha lavorato al Merzbau per oltre dieci anni. L’artista ha cominciato a «comporre» la sua opera agglomerando ogni sorta di oggetto in disposizioni sempre più vaste e complesse, dapprima nel suo studio, spingendosi poi nel resto della sua casa, invadendo le stanze attigue, forando pareti e soffitti, costruendo cunicoli e passaggi, tunnel che attraversavano tutti i tre piani dell’edificio, eccone in sintesi la storia: «Il Merzbau è stato creato negli anni dal 1920 al 1936 nell’appartamento di Kurt Schwitters, nella Waldhausenstrasse 5A a Hannover. Cominciò nel suo atelier e si estese, fino alla partenza di Kurt Schwitters per la Norvegia nel 1936 (per fuggire dai nazisti), nei locali adiacenti dell’appartamento, e nell’appartamento due piani sopra, sulla veranda, nel semi interrato sottostante ecc. Locale centrale restava l’atelier di Kurt Schwitters. Nell’anno 1932/33 l’atelier venne fotografato in tre viste grandangolari del formato 18x24cm (dal fotografo del Landesmuseum di Hannover). Degli altri locali non esistono fotografie. Erns Schwitters, il figlio di Kurt, raccontava che nei primi anni della guerra si era fatto spedire il suo archivio fotografico, tra cui numerose fotografie del Merzbau, con un volo corriere notturno per la Norvegia: l’aereo fu abbattuto. Nel 1943 una bomba colpì la Waldhausenstrasse 7A e il Merzbau venne distrutto. Ernst Schwitters, il figlio: Così scomparve quasi tutta l’opera scultorea di Kurt Schwitters. Si trattava sicuramente almeno della metà della lavoro della sua vita, gli ha dedicato più tempo e fatica, che a tutte le altre opere rimanenti. Sono restate unicamente le piccole e meravigliose colorate forme dei suoi disegni, gli impressionanti quadri più grandi, e la sua prosa umoristica-filosofica. E il mito del Merzbau»10.

Il Merzbau si presenta, piuttosto che come un’opera d’arte tradizionale risolta in se stessa, come un “processo” creativo fluido, in-terminabile e aperto a continue trasformazioni, in cui ogni nuova aggiunta o sottrazione modifica la rete di relazioni e significati di cui è composta. Il cuore del Merzbau risiede proprio nel fatto di essere un processo di creazione e la sua manifestazione materiale, il cumulo di detriti, non è che il residuo fisico di una esperienza, di un pezzo di vita dell’autore. Si introduce in arte (e più in generale nella cultura) un altro di quei concetti chiave su cui si articoleranno le esperienze delle neoavanguardie del dopoguerra e delle estetiche contemporanee: l’oggetto artistico si scioglie nelle pratiche performative, nei gesti e si riduce (o si amplifica, dipende dai punti di vista) a essere il sedimento di un’esperienza piuttosto che il suo obiettivo.

Il Merzbau porta in arte il concetto di opera aperta e di bricolage: la possibilità quindi di lavorare adottando metodi che si sottraggono alla logica del progetto (nel progetto il risultato finale, l’oggetto, non è che il punto di arrivo di un percorso premeditato) e di sperimentare tattiche creative opposte a quelle che in quegli stessi anni si stavano mettendo a punto nel mondo dell’industria e dell’arte modernista in cui la prassi era assoggettata alla teoria e il risultato allo scopo. Il Merzbau rappresenta un modello di creazione completamente alternativo in cui la prassi è svincolata dalla teoria e lo scopo è la prassi stessa.

La stessa forza disaggregante e ricombinatoria che muove l’opera visiva di Schwitters è alla base anche della sua straordinaria esperienza letteraria, la cui maggiore realizzazione è la Ursonate, la sonata presillabica, in cui le sillabe si compongono come in un poderoso collage sonoro. Come il Merzbau, la Ursonate è fatta di scarti, in questo caso verbali, che si agglomerano in nuove e imprevedibili disposizioni e, come il Merzbau, trova il suo senso non tanto nel sua compiutezza letteraria, quanto nel processo performativo della sua esecuzione.

Processuale e concettuale

I dadaisti, Duchamp e Schwitters, lasciano sul campo due modelli creativi completamene nuovi: con il ready-made l’arte si trasforma in un fatto mentale, concettuale in cui a essere interrogati non sono i sensi dell’osservatore ma il suo “appetito di comprensione” come diceva lo stesso Duchamp; e un’opzione processuale in cui l’arte si scioglie nella vita e l’oggetto artistico diviene il sedimento di un’esperienza. Le due opzioni, così innovative per la pratica dell’arte – ready-made (arte come concetto) e dal Merzbau (arte come processo) – non troveranno sviluppi negli anni immediatamente successivi. Le esperienze delle avanguardie saranno spente negli anni Trenta dai regimi totalitari e poi dalla guerra – ma diventeranno a partire dagli anni Sessanta il punto di partenza di una nuova stagione avanguardista e diventeranno la base dei linguaggi delle arti del XXI secolo.

L’esperienza dadaista non si può comprimere nell’opera, seppure capitale di Duchamp e Schwitters, nella loro furia iconoclasta gli artisti dadaisti ritagliano, incollano, assemblano, accumulano e mescolano gli elementi della realtà, creano caos dove c’è ordine e misura, sconvolgono le gerarchie tra gli oggetti, le forme, i generi; ammassano scarti, raccolgono e combinano rifiuti, contaminano le forme (proprio in un momento in cui in Europa prende fatalmente sempre più piede un ideale di purezza e igiene sociale, politico, culturale, razziale); capovolgono il senso degli oggetti; ridefiniscono il senso dei luoghi; si travestono confondendo le biografie, le storie personali, le genealogie, rifiutando l’identità anche sessuale. Con i ready-made, i collages, gli accumuli demoliscono le pratiche della creazione costruite sul mito dell’inimitabile personalità dell’artista; con le performance urbane rifiutano gli spazi angusti delle gallerie e liberano le loro energie sovversive nella città; con gli happening cercano di trascinare gli spettatori, fino ad allora elementi separati ed esterni alla creazione artistica, dentro al vortice stesso della creazione, annullando l’alienante distanza tra il produttore di valori, in questo caso estetici, e il suo consumatore.

L’esperienza Dada è di breve durata, dieci anni circa, consumata dalla sua stessa furia distruttiva, dispersa proprio da quell’energia centrifuga che ne ha dato origine. Molte le straordinarie innovazioni dadaiste saranno assunte dal Surrealismo, movimento che in buona parte sorge proprio sulle macerie di quello fondato da Tzara.

[N]

1 «Quando fondai il Cabaret Voltaire, ero convinto che ci sarebbero stati in Svizzera altri giovani desiderosi quanto me, non solo di godere della loro indipendenza, ma di darne anche la prova. Mi recai dal signor Ephraim, proprietario della Meierei, e gli dissi: “Vi prego signor Ephreim di darmi la sala. Vorrei fondare un cabaret artistico”. Ci mettemmo d’accordo e Ephreim mi diede la sala. Andai da alcuni miei conoscenti. “Datemi, vi prego, un quadro, un disegno, una stampa. Vorrei associare una piccola mostra al mio cabaret.” Alla stampa favorevole di Zurigo dissi: “Aiutatemi. Voglio fare un cabaret internazionale: faremo belle cose”. Mi furono dati dei quadri, si pubblicarono dei trafiletti. Così il 5 febbraio noi avemmo un cabaret. La signora Hennings e la signora Leconte cantarono in francese e in danese. Tristan Tzara lesse alcune delle sue poesie rumene. Un’orchestra di balalaiche eseguì canzoni popolari e danze russe. (…) Il piccolo fascicolo che pubblichiamo oggi è frutto della nostra iniziativa, e della collaborazione dei nostri amici in Francia, in Italia e in Russia. Esso deve indicare l’attività e gli interessi del Cabaret, la cui intenzione è esclusivamente quella di ricordare, al di là della guerra e delle patrie, quei pochi indipendenti che vivono di altri ideali. Lo scopo immediato degli artisti qui riuniti è l’edizione di una rivista internazionale. La rivista nascerà a Zurigo e porterà il nome di “Dada”. Dada Dada Dada Dada». Hugo Ball, Cabaret Voltaire. Traduzione di Agnese Cornelio e Nino Muzzi. Castelvecchi, Roma, 2017. p.7. 

2 Hans Richter, Dada arte e antiarte. Mazzotta, Milano, 1966, p. 40.

3 Cit. p. 59.

4 Vedi Valerio Magrelli, profilo del dada. Laterza, Bari, 2006.

5 Per fare una poesia dadaista: Prendete un giornale. / Prendete le forbici. /Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia. / Ritagliate l’articolo. / Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettetele in un sacco. / Agitate delicatamente. / Tirate poi fuori un ritaglio dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacco. / Copiate scrupolosamente. / La poesia vi somiglierà. / Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità, benché incompresa dal volgo.

Tristan Tzara, Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, letto al Festival dada a Parigi il 12 dicembre 1920 e pubblicato nel n.4 della rivista Vie des Letters, 1921. Tristan Tzara, Manifesti del dadaismo. Traduzione di Ornella Volta. Einaudi, Torino, 1964. p. 56.

6 Due resoconti di mostre dadaiste. Così Montesamo nella postfazione del romanzo di Max Ernest, Una settimana di bontà: «All’inizio del 1920 un Ernst ventottenne organizzò con gli amici artisti Baargeld e Arp una mostra dadaista nel cortile di un caffè nel centro di Colonia: la mostra si chiamava Dada Ausstellung, Dada-Worfrühling. […] Per accedere alla mostra bisognava passare per i bagni dove faceva bella mostra di sé un orinatoio duchampiano, e che, all’ingresso una «petite fille» che indossava il vestito della prima comunione […] recitava poemi osceni. Al centro del cortile si levava un objet dadaista di Ernst, una sorta di ceppo da macellaio o da carnefice a cui era attaccata una con una catena una mannaia che il pubblico era invitato a usare per distruggere il ceppo-patibolo. In un angolo Baargeld aveva installato un misterioso e incongruo «Fluidoskeptrik»: un acquario di vetro colmo di un’acqua rossa a simulare il sangue, in fondo al quale giaceva una sveglia e sulla cui superficie si muoveva mollemente una chioma femminile. […] Alle pareti erano appesi collage dada sarcasticamente sacrileghi o scandalosamente erotici. La mostra scatenò la rabbiosa reazione degli abitanti di Colonia, che staccarono i collage dalle pareti, li calpestarono e distrussero quasi tutti gli objets dadaisti: finché le autorità di Colonia, per impedire che lo scandalo crescesse, proibirono la mostra». Giuseppe Montesano, Le sirene cantano quando la ragione si addormenta. In Max Ernst, Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini. A cura di G. Montesano. Adelphi, Milano, 2007. p. 491.

E così Pugliese in Monumenti effimeri: «Dal 30 giugno al 25 agosto 1920 Raoul Hausmann, George Grosz e John Heartfield organizzarono a Berlino la “Erste Internationale Dada-Messe” ovvero la Prima Fiera Internazionale Dada, una mostra di dipinti, collage, manifesti e assemblaggi. L’allestimento era parte integrante del progetto, dipinti e collage erano circondati da manifesti che riportavano stampati slogan dadaisti contro arte, guerra e borghesia. Alle pareti erano anche appese riproduzioni di opere di maestri della storia dell’arte, da Picasso a Botticelli, opportunamente “corrette” con scritte e manifesti. Un manichino in uniforme con la faccia da suino pendeva dal soffitto mentre in una seconda saletta era esposto quale “architettura monumentale dadaista” il Grande-plasto-dio-dada-drama di Johannes Baader, un precario assemblaggio polimaterico». Barbara Ferriani e Marina Pugliese, Monumenti effimeri. Storia e conservazione delle installazioni. Electa, Milano, 2009. p. 26.

7 Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica. Einaudi, Torino, 2006. p. 45.

8 Marcel Duchamp, Scritti. A cura di Michel Sanouillet, traduzione di Maria Rosaria D’Angelo. Abscondita, Milano, 2005. p. 165.

9 Nella letteratura sull’argomento si distinguono con il termine Readymade le opere realizzate da Duchamp selezionando gli oggetti ed elevandoli allo statuto di arte apponendovi titolo e firma (falsa), dagli oggetti – o immagini o parole – che, in vario modo, sono utilizzati per produrre arte. Con il termine ready-made si indica quindi la procedura di manipolare oggetti trovati-fatti per produrre arte. La scolastica (e magistrale) descrizione che Giulio Carlo Argan dà del Readymade di Duchamp può, per estensione, diventare una definizione di ready-made: «Duchamp ha esposto un orinatoio firmandolo con un nome qualsiasi, Mutt. Tuttavia, ponendo una firma, ha voluto dire che quell’oggetto non aveva un valore artistico in sé, ma lo assumeva col giudizio formulato da un soggetto. Ma come lo formula se non dispone più di modelli di valore? Di fatto si limita a separare l’oggetto da contesto che gli è abituale ed in cui adempie ad una funzione pratica: lo disambienta, lo svia, lo porta su un binario morto. Stralciandolo da un contesto in cui tutto essendo utilitario nulla può essere estetico, lo situa in una dimensione in cui nulla essendo utilitario tutto può essere estetico. Ciò che determina il valore estetico, dunque, non è più un procedimento tecnico, un lavoro, ma un puro atto mentale, una diversa attitudine nei confronti della realtà». Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770/1970. Sansoni Firenze, 1971-1982. p. 435.

10 merzbaurekonstruktion.com

2 Surrealismo

La stagione di Dada è tanto feconda quanto breve, il movimento si disgrega proprio in virtù dell’energia entropica, della forza dissolutoria che ha liberato. Nel 1924 André Breton, si stacca da quello che resta del movimento (poco dopo dichiarato morto dallo stesso Tzara) pubblica il primo manifesto surrealista1. Il Surrealismo si pone in precisa continuità con la poetica dadaista ma con una più densa struttura teorica e con un preciso progetto politico. La cesura più netta con il dadaismo risiede nel fatto che i surrealisti ricominciano a dipingere e la pratica artistica è riportata dentro ai confini della rappresentazione simbolica del mondo (che da realistica diventa onirica) e le immagini che si producono tornano a rispondere alla logica tradizionale del quadro-scultura.

Al centro dell’attenzione surrealista c’è ancora la condizione del cittadino moderno: alienato, soggetto al dominio del capitale, represso dalle convenzioni borghesi e sempre più oppresso dallo stato. Scrive Mario De Micheli: «secondo i surrealisti il problema della libertà presenta due facce: quella della libertà individuale e quella della libertà sociale; quindi devono essere due anche le soluzioni, benché la libertà sociale, da attuare attraverso la rivoluzione, sia premessa indispensabile per realizzare la libertà dello spirito»2.

Marxismo e psicanalisi sono gli strumenti per attuare l’una e l’altra, o meglio l’una nell’altra. Con la vittoria del marxismo si sarebbe liberata la società dall’oppressione del capitale, con gli strumenti della psicanalisi si sarebbe liberata l’energia repressa in ogni individuo. I surrealisti aderiscono all’Internazionale Comunista e sono politicamente attivi contro i fascismi che si stanno impossessando dell’Europa (in molti andranno a combattere nella guerra civile spagnola).

Scrittura Automatica

Le tattiche estetiche surrealiste sono di derivazione dadaista – collage, ready-made, performance; gioco, provocazione, scandalo – ma vengono affrontate con un approccio meno scalmanato. L’acquisizione fondamentale della prassi surrealista è quella della scrittura automatica: con l’automatismo si può liberare l’energia psichica pura ed esprimere – parola di Breton – sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi atro modo, il funzionamento reale del pensiero. La scrittura automatica produce una sostanziale inversione nella prassi creativa che si può sintetizzare così: il segno anticipa il significato. L’artista non è più colui che pensa e quindi produce un segno, ma comincia a pensare dopo che ha prodotto il segno. La scrittura automatica demistifica uno dei miti su cui si fonda l’idea occidentale di creazione – l’idea governa l’immagine – gettando le basi per il successo delle filosofie orientali e zen della seconda metà del Novecento.

Sul montaggio

Tutta la produzione visiva surrealista si forma a partire dalle acquisizioni dadaiste, quindi: caso come generatore di linguaggio, prelievo come strumento creativo e montaggio (collage) di materiali differenti. Il montaggio è utilizzato dai surrealisti per disarticolare i discorsi e disaggregare la superficie del visibile, per de-costruire il linguaggio, per disorganizzarlo e liberare così le pulsioni profonde normalmente imbrigliate, sedate dalle sovrastrutture concettuali. Nel montaggio si rivela più compiutamente l’estetica surrealista e per questo i risultati migliori sono stati ottenuti con linguaggi fluidi ed ellittici come la poesia o che prevedono il movimento, come cinema. In pittura e scultura – forme statiche e immanenti (a parte rari casi, Picabia e Magritte ma soprattutto Max Ernst) –, l’estetica surrealista non ha prodotto capolavori paragonabili alle esplorazioni letterarie di Breton, Eluard, Desnos, Soupault, Aragon, Artaud… o alle opere cinematografiche di Luis Bunuel (Un chien andalou, L’age d’or), Jean Cocteau (Le sang d’un poète) Man Ray (L’etoile de la mere), Hans Richrer (Dreams that money can buy), René Clair (Entr’acte), film che hanno lasciato tracce profondissime nella cultura cinematografica del secolo.

Il perturbante

Liberare le pulsioni profonde, l’erotismo inibito dalla religione e dalla morale borghese, dare voce all’inespresso, ai pensieri neri, crudeli, confondere veglia e sonno spalancando le porte all’abisso onirico: ecco cosa le opere dei surrealisti cercano di attivare negli spettatori. Per raggiungere questo scopo la ragione deve essere messa in sacco, la logica deve essere imprigionata nei non-sense, lo spirito cartesiano deve perdersi in labirinti di figure enigmatiche e il gendarme dell’utilitarismo deve essere sconfitto da misteri irrisolvibili. Ma anche l’artista deve essere disposto a perdersi dentro le sue stesse figure, a smarrire la propria identità, a essere spettatore delle proprie creazioni: l’automatismo nella scrittura, il collage con l’accostamento casuale di immagini, i cadaveri squisiti (disegni elaborati da più mani) tutto serve per diluire, smorzare, sopraffare la coscienza dell’artista, e infine liberare la creatività profonda in una sorta di viaggio psichedelico antelitteram. Tutto questo porta i surrealisti a interessarsi al concetto freudiano di perturbante.

Il Surrealismo è il movimento che più di ogni altro si è interessato del mondo delle merci e delle immagini pubblicitarie. Nella loro critica a una società asservita dal mercato gli artisti hanno comunque guardato con interesse al linguaggio pubblicitario, soprattutto nella tecnica di isolare e presentare i prodotti: «L’isolamento dell’oggetto è infatti visto in ambito surrealista come una decontestualizzazione che lo evidenzia come simbolo sessuale o come oggetto del desiderio – come feticcio – in una visione di quello che Freud ha battezzato il Perturbante, il familiare che si ripresenta sotto nuove vesti e in un altro contesto come non-familiare, come insieme noto ma portatore di ignoto»3.

Tutta l’estetica surrealista si forma attorno a quest’idea di perturbante: nel cinema come in pittura, in fotografia o in poesia, gli elementi dell’espressione subiscono torsioni e spostamenti, modificazioni nella sintassi e nell’iconografia, sfasamenti nel montaggio e nello sviluppo logico. L’arte surrealista è quindi un luogo in cui le cose familiari sono facilmente identificabili ma insieme estranee e ambigue. Questa ambiguità, che è tipica della dimensione onirica – anche se non in modo esclusivo – è il tratto peculiare dell’estetica surrealista.

[N]

1 Vedi, André Breton, Manifesti del Surrealismo. Traduzione di Liliana Magrini. Einaudi, Torino, 2003.

2 De Micheli, Le avanguardie artistiche. p. 175.

3 Elio Grazioli, Arte e pubblicità. Bruno Mondadori, Milano, 2001. Citazione modificata. p.96.

3 Ritorno all’ordine

Ma, mentre dadaisti e surrealisti progettano la rivoluzione e cercano di incendiare gli sguardi e le coscienze, in buona parte d’Europa s’impara a marciare al passo dell’oca. In Italia, dopo le fiammate del primo Futurismo e dopo i massacri della Prima Guerra Mondiale, s’insediano poteri reazionari prima e totalitari poi. Per molti artisti è tempo di una revisione delle proprie posizioni – i futuristi Carrà e Severini, ad esempio, abbandonano il movimento – per altri è il momento di esprimere meglio il proprio dissenso verso gli atteggiamenti iconoclasti e dissacratori degli avanguardisti. Per i Futuristi di Marinetti ancora attivi è tempo invece di sincronizzare la propria attività con le esigenze di un potere che di rivoluzione (che non sia quella fascista) non vuole sentir parlare.

Gli anni Venti e Trenta sono gli anni del ritorno all’ordine. Ritorno alle forme antiche dell’espressione artistica: pittura e scultura sono interpretate nella maniera più tradizionale; riemergono temi come il ritratto, il nudo, il paesaggio trattati in pagine di ferma classicità. È un’arte che guarda al passato, che nel passato, nella grandezza della storia, nei modelli, nel canone dell’antichità cerca la propria legittimazione. È un’arte che naturalmente piace a un regime che proprio nella storia, nei fasti passati della nazione, nel destino di grandezza “dell’italico suolo” fonda la sua mitologia e cerca la sua legittimazione. 

È un’arte che si confronta anche con una censura via via più stingente e opprimente (parafrasando il Montale degli stessi anni: un’arte che può dire quello che non è), e con le pretese di un regime che ha bisogno di essere rappresentato secondo i canoni precisi di una robusta, maschia e orgogliosamente fascista classicità.

Art Déco

Gli anni Trenta sono comunque un periodo complesso in tutta Europa, la crisi economica del ’29 spegne molti dei fiduciosi furori modernisti che hanno alimentato le avanguardie artistiche, anche se la progressiva trasformazione della società in “società di massa” non si arresta e i nodi tra capitale, industria, potere, cultura, ideologia andranno stringendosi sempre di più trascinando l’Europa e poi il mondo nella guerra.

La cultura popolare di questa nuova “società di massa” trova in questi anni nello stile Déco il proprio linguaggio: «Nell’Art Déco confluirono i geometrismi del Cubismo, il dinamismo futurista, le accese cromie dei Fauves, le morbidezze cromatiche dell’Orfismo»1. Uno “stile borghese” e di largo consumo – dal cinema al design, dall’architettura ai fumetti, dalla moda alla pubblicità – che si appropria di tutte le invenzioni dell’arte d’avanguardia (immaginate proprio in antagonismo allo stile dei borghesi) traducendo in un linguaggio accattivante, semplice e diffuso le esperienze estreme e intransigenti del modernismo militante. Gli esperimenti degli artisti d’avanguardia diventano, una volta svuotati dai contenuti ideologici e sgravati dalle elaborazioni teoriche, forme pure da spendere nel gioco della comunicazione e dell’intrattenimento. A titolo di esempio: il cinema diventa un luogo in cui tutte sperimentazioni dell’avanguardia, anche le più ardite e apparentemente fini a se stesse, diventano praticabili. Persino il cinema astratto di Richter e Opus trova nelle coreografie hollywoodiane (di Busby Berkeley) fatte di forme in movimento (con apparati scenici in cui corpi e macchine si fondono, impossibile non pensare a Schlemmer) esiti sorprendenti.

[N]

1 Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica dal 1851 a oggi. Einaudi, Torino, 2011. p.183.

Avanguardia

1 Dopo l’Impressionismo

La prima generazione di artisti che, dopo la stagione impressionista, tenta di riallacciare un rapporto diretto con la realtà sociale e politica del mondo si scontra con una distanza divenuta ormai incolmabile. Vincent Van Gogh, Edvard Munch, Paul Gauguin, James Ensor percepiscono questa lontananza come un fatto traumatico.

Van Gogh, cresciuto nel mito del realismo di metà Ottocento si trova alla fine del secolo senza alcun referente culturale: per quanto con la propria opera si sforzi di dare voce agli ultimi della terra (minatori, diseredati, carcerati) e di ritrovare un rapporto diretto e sincero con la natura, rimane un artista isolato. Questo autismo culturale diventa anche un fallimento esistenziale. Lo stesso disagio che ha condotto Van Gogh al suicidio porta Munch alla follia e trascina Ensor in un isolamento autoimposto. Gauguin cercherà con la fuga in Polinesia di ritrovare una comunità dentro la quale sentirsi ancora integrato e operante ma anche laggiù dovrà fare i conti con un inesorabile fallimento.

Un allontanamento e una perdita di ruolo vissuti in modi diversi dagli artisti attivi a cavallo tra i due secoli che si sono visti concedere, o si sono ritirati, in spazi sempre più angusti. Nascono così l’”art pour l’art” e il mito romantico dell’artista rifiutato dalla società o che rifiuta la società e fugge altrove (in una soffitta, in Polinesia, nella follia) – mito duro a morire e ancora saldamente insediato nell’immaginario collettivo1.

Dal malessere per le forme culturali dell’occidente borghese deriva l’interesse per le culture extraeuropee o per le forme artistiche minori che emerge in maniera differente nel lavoro di molti artisti e intellettuali: se Van Gogh guarda all’arte giapponese, Gauguin si trasferisce direttamente in Polinesia a cercare in una cultura lontana quegli elementi di libertà che non riesce a trovare a Parigi2. Così anche l’arte che nasce fuori dalle accademie, quella dei pittori amatoriali, naif, incolti come Henri Rousseau detto il Doganiere, assume interesse e rilievo. In sostanza, le suggestioni dei linguaggi che arrivano da lontano sembrano garantire un maggiore grado di libertà, oltre che di novità: una fascinazione per l’esotico che attraverserà in modi diversi, e a tratti contraddittori, tutto il Novecento, arrivando fino a noi3.

Dei postimpresionisti Henri de Toulouse-Lautrec è quello che percorre più da vicino la strada del realismo sociale di fine Ottocento: scene di vita moderna trattate con sincerità e chiarezza, che mantengono la profondità dell’analisi psicologica e la fedeltà al dato sensibile. Sarà, probabilmente per questo suo personale sincronismo, un precoce interprete del nuovo tipo realtà della fine del secolo XIX: la realtà del mondo delle merci4.

Paul Cézanne si apparta dentro a un discorso figurativo intellettualistico, cerebrale, autosufficiente, diventando il precursore di una generazione di artisti, i cubisti, preoccupata più dei problemi formali che dell’utilità sociale della loro opera. 

Simile nell’approccio analitico di Cézanne ma ancor più radicale nei risultati linguistici è l’opera di Georges Seurat, tutta fondata su ricerche di scomposizione del colore e di analisi ottica. Il lavoro di Seurat rappresenta il primo esempio di una lunga serie di approcci scientifici alla visione che hanno accompagnato l’arte del Novecento5.

[N]

1 Mario De Micheli descrive così la fine della stagione rivoluzionaria Ottocentesca, dopo il fallimento della comune di Parigi del 1871 che sanciva la definitiva vittoria della borghesia capitalista e l’espulsione dell’arte dalla prassi della vita e dall’impegno sociale: «Il distacco degli intellettuali migliori dalle posizioni politiche e culturali della loro classe è un distacco che li porterà per lungo tempo a vivere di una protesta fatta soprattutto di evasione. […] Il “rifiuto del mondo borghese” diventa un fatto concreto, il rifiuto della società, di un costume, di una morale, di un modo di vita. […] Fuga dalla civiltà dunque, una fuga individuale, una soluzione individuale, perché ormai non vi sono più “idee generali” […]L’esperienza di Gauguin sarà l’esperienza di molti altri artisti confusamente in cerca di un modo per vincere il progressivo impoverimento dei valori umani, dei propri valori spirituali, per salvaguardare la propria integrità minacciata da una dilacerante realtà. Quante fughe in cerca di una purezza, di una verginità, di uno stato di grazia; e quanti ritorni amari, desolati: quante sconfitte. Sulla scia di Gauguin, Kandinsky andrà nel Nord Africa; Nolde nei mari del Sud e in Giappone; Pechstein alle Isole Palau, in Cina, in India; Segall nel Brasile; Klee e Macke in Tunisia; Barlach tra i miserabili della Russia meridionale. Altri sceglieranno ancora il suicidio come soluzione Kirchner, Lehmbruck… Ma non era un tentativo di evasione nella purezza della natura anche il ritiro maremmano di Fattori? […] In questi artisti il mito del selvaggio e del primitivo fanno parte di una ricerca affannosa per ritrovare se stessi, la propria felicità, la propria natura di uomini, fuori dall’ipocrisia dalle convenzioni, dalle corruzioni». De Micheli, Le Avanguardie artistiche del Novecento. p. 52.

2 Vedi Segalen, Gauguin nel suo ultimo scenario.

3 Vedi Giuliana Altea, Il fantasma del decorativo. Il Saggiatore, Milano, 2012.

4 Vedi Elio Grazioli, Arte e pubblicità. Bruno Mondadori, Milano, 2001.

5 Vedi Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone. Einaudi, Torino, 1983.

2 Avanguardia

All’inizio del secolo Ventesimo una nuova generazioni di intellettuali, pittori, poeti, architetti si affaccia alla vita culturale, il loro problema è sempre lo sesso: produrre dei segni moderni, capaci colmare la distanza tra la sfera estetica e la prassi della vita quotidiana.

A differenza degli artisti precedenti, che hanno vissuto questa lontananza come un trauma, la nuova generazione affronta il problema non in solitudine, ma costituendo dei gruppi, riconoscendosi per il comune sentire, creando piccole comunità con un linguaggio condiviso. Tra il 1905 e il 1920 le posizioni di rifiuto, fallimento e isolamento intellettuale dei singoli artisti vanno coagulandosi in nuclei via via più strutturati ideologicamente, definiti stilisticamente e organizzati logisticamente: si allestiscono mostre al di fuori del circuito ufficiale; si organizzano eventi e rappresentazioni; si stampano riviste, opuscoli, manifesti; si intensificano i contatti e gli scambi con altri gruppi e creano reti di sostenitori, collezionisti e, di fatto, un mercato e una economia capace di sostenere le attività. Seppure partendo da diverse posizioni e agendo in contesti differenti, ogni gruppo è consapevole di essere un’avanguardia1. L’uso di un termine militare – avanguardia è la pattuglia che procede in avanscoperta per rendere agibile e sicuro il terreno al grosso della truppa – rende chiaro che l’approccio ai problemi formali, sociali e culturali non è accomodante, ma anzi bellicoso e apertamente rivoluzionario.

L’artista d’avanguardia è un esploratore, da questo atteggiamento deriva la proibizione a ripetere le forme conosciute e a percorrere strade già battute. L’ideologia dell’avanguardia trasforma in un dogma la ricerca del nuovo e produce il mito di un progresso illimitato delle forme, in cui ogni passo, ogni sperimentazione rende obsolete e inutilizzabili le precedenti. L’avanguardia, nelle sue forme novecentesche, si è prodotta attorno a questa necessità profonda di rinnovare e superare continuamente se stessa. L’avanguardia si muove in opposizione alle forme dominanti, progetta e prepara la rivoluzione sospinta dalla fiducia nel progresso, nell’emancipazione, nella libertà. L’obiettivo dell’arte d’avanguardia è quello, apertamente dichiarato, di reintrodurre l’arte nella prassi della vita. 

Gli artisti cercano una nuova collocazione e una nuova funzione all’interno della società borghese, che spesso rifiutano e combattono. Un dato interessante è che per la prima volta nella storia l’artista d’avanguardia non è tenuto più a compiacere il proprio pubblico ma piuttosto, con la propria opera, lo sfida, lo aggredisce e osteggia e infine lo giudica, in questo quadro si inserisce anche il cambiamento di ruolo del critico, che sceglie il conflitto posizionandosi accanto all’artista e da osservatore distaccato diventa militante2.

Con l’avanguardia si compie la completa immersione della pratica artistica nella dinamica del mondo delle merci: l’arte aggiorna continuamente la propria offerta e consegna al ciclo dell’obsolescenza i prodotti più vecchi. L’artista diventa quindi produttore di beni volubili e, come ogni altro produttore, deve costantemente ricreare il proprio pubblico – e con esso la domanda che assorbe la sua offerta. Così, nel mondo moderno anche l’arte capovolge il rapporto tra domanda e offerta di contenuti estetici: l’offerta non risponde a una domanda, ma la suscita. Le avanguardie storiche procedono quindi creando rottura con il passato e propongono un’idea rinnovata di arte seguendo il doppio stimolo di dover rispondere alle trasformazioni dei tempi con un’estetica capace di tornare a connettersi alla prassi della vita, ma anche di dover adeguarsi alle mutate condizioni di mercato – gallerie, collezionisti, critici professionisti, investitori pubblici e privati, speculazione e concorrenza, tanta concorrenza – e alle nuove, conseguenti, esigenze professionali. L’artista si trova costretto a offrire la propria merce, e se stesso, la propria «forza-lavoro isolata»3 in un mercato competitivo e capriccioso. Anche il susseguirsi delle tendenze, degli ismi, che dall’inizio del Novecento diventa sempre più frenetico può essere letto seguendo questo doppio binario: da un lato l’ansia di escogitare nuovi modelli espressivi e dall’altro l’esigenza di lanciare nuovi prodotti.

Nel corso dei secoli gli artisti hanno sempre lavorato all’interno delle dinamiche economiche specifiche della loro epoca confrontandosi con una qualche forma di mercato. La modernità ha imposto il passaggio dal rapporto con il committente a quello con il collezionista e trasformato gli artisti da artigiani in liberi professionisti che operano in un mercato regolato dalla concorrenza. Nella modernità, per gestire il proprio prodotto, l’artista deve quindi posizionarsi in un preciso segmento di mercato e proporre soluzioni originali e appetibili. E, poiché il mercato ha bisogno di rivoluzionare costantemente la propria offerta, anche l’artista deve conseguentemente adottare la rivoluzione come strategia.

Avanguardia e fotografia

Il cambiamento più traumatico per le arti figurative alla fine del secolo XIX è ovviamente rappresentato dall’invenzione della fotografia: dopo secoli in cui ai pittori è affidato il compito di rappresentare quanto più fedelmente possibile il mondo appare una tecnologia capace di restituire delle immagini che hanno la pretesa di essere oggettive. Se la verità del mondo può essere documentata da un’immagine generata tecnologicamente – senza un apparente intervento della personalità dell’autore – se quest’immagine ha una fedeltà, una rispondenza mai raggiunta artisticamente con il dato sensibile, quale può essere allora il compito dell’artista? La generazione di intellettuali che si pone questo problema nei primi anni del Novecento risponde che il compito dell’artista non può più essere quello di rappresentare il mondo ma quello di darne una “visione”. Tanto più questa visione è personale tanto più risulta vera, perché tende a cogliere non la pelle del mondo ma la sua vera essenza. Da questo punto si articolano tutte le esperienze dell’avanguardia che condurranno come esito ultimo all’arte astratta, un’arte che non rappresenta il mondo esteriore, bensì quello interiore4.

La fotografia all’inizio del Novecento si avviava a diventare una pratica di massa, pagava però il prezzo della sua origine meccanica con un generale rifiuto da parte di artisti e scrittori nel considerarla una nuova forma d’arte. Una scomunica pronunciata fin dal suo primo apparire: «Per massima chiarezza – scrive Claudio Marra – ricordiamo ancora una volta, velocemente, gli argomenti antifotografici utilizzati da Baudelaire nel testo “Il pubblico moderno e la fotografia” del 1859 erano sostanzialmente i seguenti a) la fotografia non è arte perché troppo realistica; b) la fotografia non è arte perché non richiede una particolare abilità di realizzazione; c) la fotografia non è arte perché troppo contaminata con l’industria (cioè con la dimensione commerciale-mercantile della vita)»5

Una scomunica ancora valida, cinquant’anni dopo, per gli artisti delle avanguardie più legate al rapporto con la forma simbolica del quadro e della scultura. Gli artisti dell’area fauve, cubista ed espressionista hanno avuto un rapporto decisamente freddo, se non ostile con l’immagine tecnica e, a parte qualche esplorazione nelle forme cinematografiche, rimarranno legati alle tecniche artistiche classiche.

[N]

1 «Secondo la metafora avanguardistica, la storia diventa un esercito e gli artisti un drappello che precede in ricognizione. Il cammino in avanti dell’arte diventa responsabilità di una élite culturale che si ritiene in grado di definire al suo interno il progresso, convinta che la storia la seguirà. È un’élite di progressisti che subentra alle precedenti élite del potere o dell’alta cultura pagando tale privilegio con il marchio dell’outsider». La fine della storia dell’arte. Hans Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte. Traduzione di Francesca Pomarici. Einaudi, Torino, 1990. pp. 11-12.

2 Boris Groys, Art Power. Traduzione di Anna Simone. Postmedia books, Milano, 2012. p. 128.

3 Christoph Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione. Traduzione di Tommaso Cavallo. Torino, Bollati Boringhieri, 2012. p. 69.

4 Vedi Dora Vallier, L’arte astratta. Traduzione di Antonello Negri. Garzanti, Milano, 1984.

5 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre). Bruno Mondadori, Milano, 2012. 42-43.

3 Le tre avanguardie

È possibile riconoscere tre modelli d’azione nelle vicende della così detta avanguardia storica attiva grossomodo tra il 1905 e il 1930: un’opzione che potremmo dire di riforma o protesta che vede gli artisti dell’area fauvista, cubista ed espressionista tentare di riformulare i linguaggi artistici per adeguarli alle mutate contingenze storiche senza però intaccarli nei loro fondamenti; un’opzione decisamente più rivoluzionaria con movimenti quali Futurismo, Costruttivismo, Bauhaus, De Stjil e Surrealismo impegnati in una attività di rinnovamento sociale da operare attraverso l’arte che diventa pertanto uno strumento di azione politica oltre che estetica o di azione politica in quanto estetica. Entrambi questi modelli fanno leva su quell’idea di personalizzazione dei linguaggi esplorata all’inizio di questo percorso. Per questi movimenti la logica della rappresentazione (rappresentazione tramite l’espressione) attraverso il quadro-scultura rimane però fondamentalmente inalterata rispetto ai modelli dell’arte classica: l’arte continua a essere un raffinato apparato per simbolizzare le forme della vita, per operare una trasformazione lirica la realtà che rimane però lontana, mai presa in causa direttamente.

E poi c’è il Dadaismo che, come vedremo, si propone di distruggere ogni forma tradizionale di espressione artistica per sciogliere definitivamente l’arte nella vita. Dada interpreta nel modo più radicale la necessità di rinnovamento della prassi artistica che è il cuore dell’esperienza delle avanguardie, recidendo ogni legame con i precedenti modelli linguistici e producendo arte come rifiuto dell’arte.

Arte come riforma

Fauve

Henri Matisse e Pierre Bonnard danno vita nel 1905 ai Fauves (o Nabis), un gruppo che cerca, con una pittura dai forti accenti cromatici ed emotivi di ritrovare la strada per una dimensione creativa primordiale, sorgiva, autenticamente umana. Sono posizioni di insofferenza verso il presente e di fiducia nelle possibilità dell’arte di agire a un livello profondo: il risultato è una pittura immediatamente comprensibile, che non ha bisogno di elaborazioni concettuali per essere compresa da chi la osserva. In ogni caso, il dato che emerge più chiaramente nelle esperienze degli artisti attivi all’inizio del secolo è forse quello di una ricerca assidua e spesso infruttuosa di identità culturale e di funzione sociale. Lo strappo tra le forme dell’arte e la prassi della vita è ormai un fatto acquisito, un vissuto quotidiano, su questo punto ingaggeranno la loro battaglia gli artisti delle avanguardie successive.

Cubismo

La preoccupazione degli artisti cubisti (il gruppo nasce in Francia intorno al 1908) è quella di riformulare il linguaggio artistico per renderlo adatto alla cultura moderna e metropolitana: viene messo il crisi il tradizionale approccio alla rappresentazione dello spazio e del tempo; salta la gabbia prospettica che aveva dettato la misura nei secoli precedenti; i concetti di realismo e di verosimiglianza vengono sottoposti a una severa revisione e l’attività creativa abbandona il confronto diretto con il mondo e diviene una pratica squisitamente mentale. Per operare le loro rivoluzione i cubisti guardano con interesse all’arte non occidentale, in particolare alla scultura africana – frontale, totemica, antinaturalistica. È un interesse che condividono con molti intellettuali d’avanguardia: il critico Carl Einstein, ad esempio, scrive un fondamentale saggio sulla Scultura Negra1  scorgendovi proprio dei valori formali e filosofici extraoccidentali estremamente innovativi. Soprattutto, i cubisti tentano di trovare gli strumenti linguistici per dare forma a un nuovo sentimento del tempo, tentano di andare oltre l’immagine ottica per cogliere l’essenza dell’oggetto rappresentato. La ricerca cubista sposta l’idea di cos’è reale: l’apparenza delle cose o la loro sostanza?

La nuova visione del tempo e dello spazio, nata dalle trasformazioni che attraversano la società che abbiamo già descritto, e l’esigenza di adeguare le forme dell’espressione alle forme della vita investe anche le altre arti: in letteratura, a esempio, Guillame Apollinaire (amico e compagno di strada di Picasso, Braque e compagni, autore tra l’altro del primo fondamentale testo critico sul Cubismo) tenta nuovi modi per scrivere poesia. Con i suoi calligramme Apollinaire esce dalla gabbia tipografica, abbandona la metrica tradizionale come in arte si è abbandonata la prospettiva e sperimenta testi in cui la forma della scrittura coincide con il significato: la lettura diventa un’esperienza visiva, disarticolando il tempo su cui normalmente si struttura ogni lettura – da destra verso sinistra, dall’alto al basso.

L’interesse degli artisti attivi nell’area cubista per le nuove tecnologie è scarso, sono rare le esplorazioni delle possibilità che la fotografia e soprattutto il cinema mettevano loro a disposizione. L’unico esempio di un cero rilievo è rappresentato dall’esperimento di cinema cubista Ballet Mecanique di Fernand Léger del 1924, in cui si intravvedono le possibilità scompositive e ritmiche offerte dal montaggio cinematografico.

Arte come protesta. Espressionismi

L’Europa di inizio Novecento, attraversata dallo spirito positivista e dall’idea che il progresso tecnico è uno strumento per il progresso umano, deve fare i conti anche con correnti di critica e opposizione che mettono in luce i limiti e i rischi di tale processo. Queste correnti artistiche e letterarie si possono riunire sotto l’etichetta di espressionismo: «Si tratta di un largo movimento, che difficilmente si può racchiudere in una definizione o delimitare a seconda della forma in cui si manifesta, come si può fare in altri casi, per il cubismo per esempio. I modi in cui l’espressionismo si manifesta sono infatti […] abbastanza numerosi e diversi: l’unica maniera per giungere alla sua comprensione è dunque quella di partire dai suoi contenuti. […] Quello che si può dire subito è che l’espressionismo, senza alcun dubbio, è un’arte di opposizione. Il suo antipositivismo è quindi conseguentemente anti-naturalismo e anti-impressionismo»2. L’espressionismo quindi, più che un movimento artistico formalizzato, è una dimensione culturale complessa, fortemente radicata nella realtà sociale dei luoghi in cui prende forma e di cui diventa interprete e pertanto estremamente varia nei suoi esiti formali.

Espressionismo in Germania

In Germania i gruppi Die Brucke e Blaue Reiter affrontano gli stessi problemi con approcci differenti. Gli artisti Die Brucke(gruppo fondato a Dresda nel 1905)sono apertamente critici, la loro è un’attività artistica che innalza il vessillo del rifiuto, della protesta. Gli artisti di quest’area si allontanano dal realismo impressionista – di cui osteggiano l’adesione acritica al mondo borghese – e si dedicano a un’arte con la quale dare voce alla drammaticità del tempo presente e alla crisi dei valori sociali. Da questo spirito di protesta e rifiuto nasce una pittura fortemente emotiva, espressiva appunto, che abbandona la rappresentazione realistica e mostra il mondo attraverso visioni fortemente personali e soggettive. È un’arte di protesta e di azione sociale, apertamente antiborghese: sono gli anni in cui il capitalismo industriale nel suo abbraccio con il potere dello stato sta gettando le basi di quella politica nazionalista, militarista e imperialista che porterà allo scoppio della Prima guerra mondiale. In ogni caso, in quest’area culturale, quello che conta è far emergere l’emotività profonda, instaurare un rapporto non mediato ma diretto e conflittuale con il mondo. Da questo approccio deriva l’adozione di una tavolozza fatta di colori primari stesi in grandi campiture, la predilezione per le linee spezzate, le prospettive distorte e il recupero di un lessico che richiama apertamente l’arte tedesca medievale, pre-rinascimentale e pre-moderna. Gli artisti espressionisti cercano nel passato gli elementi linguistici per opporsi al presente capitalista; il passato, in questo caso, rappresenta una forma di altrove che esercita la stessa funzione filosofica e formale della scultura africana per i cubisti, della Polinesia per Guaguin, della pittura ingenua per il Doganiere.

Gli artisti del Blaue Raiter cercano invece un’arte che possa liberare gli individui dalle gabbie imposte dal capitalismo, rimettendoli in contatto con quella dimensione spirituale e trascendente annichilita dalla economia borghese. Kandinsky, Klee, Marc pongono il problema del prezzo che la modernità tecnoscientifica chiede di pagare agli individui: la rinuncia alla vita interiore per un’esistenza dominata dalla tirannia delle cose e delle merci. Rivolgono quindi l’attenzione all’interiorità, cercando di stimolare la nascita di una nuova trascendenza. Il punto di arrivo di questo viaggio è l’abbandono della rappresentazione del mondo sensibile e l’approdo all’astrattismo, un sistema di segni che non rappresenta le cose ma le emozioni suscitate dalle cose.

La prima Guerra Mondiale consuma l’Europa come nessun altro conflitto ha fatto in precedenza. Scrivono Revelli e Ortoleva: «La guerra si mostrò così, fin dal primo anno, in tutti i suoi caratteri di novità, prodotti dalle nuove condizioni economiche e sociali maturate negli ultimi decenni: fu una guerra industriale, in cui la capacità di mobilitazione produttiva s’intrecciava a tal punto con le vicende militari da determinarle in modo decisivo; e fu una guerra tecnologica, in cui l’uso delle più moderne innovazioni della tecnica assunse un ruolo tanto massiccio da rendere inefficace ogni vecchia strategia. Si trattò dunque di una guerra a tutti gli effetti moderna e di massa, in quanto prodotto di una società in via di massificazione, ed ebbe le dimensioni di un massacro»3.

Dopo la Grande Guerra, in una Germania che esce dal conflitto distrutta nei suoi fondamenti economici, sociali e politici, il primo Espressionismo si scinde: da una parte la lezione critica, di violenta opposizione della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit) e dall’altra l’azione riformatrice, positivista e socialista, del Bauhaus. Per gli artisti della Nuova Oggettività la necessità di produrre immagini capaci di fare i conti con le devastazioni della guerra, rovinosamente persa da una Germania che si sentiva invincibile e destinata a guidare le sorti del continente, diventa ancora più stringente. Dix, Grosz, Kollwitz diventano gli interpreti di quell’umanità spezzata dalla guerra e gli accusatori di quel ceto, borghese e capitalista, che ha trascinato la nazione nel conflitto e saputo trarre vantaggio da esso.

«È difficile comprendere il significato culturale di questa corrente e i suoi caratteri […] se non si riesce a comprendere la vicenda di un gran numero di intellettuali tedeschi dentro la guerra e negli anni immediatamente seguenti. L’esperienza di morte e di miseria, insieme con lo spettacolo di ipocrisia patriottica del borghese; l’ostentazione della ricchezza e la boria dei generali; il disordine della sconfitta e il crollo di una società nella vergogna; tutto ciò non era accaduto invano. Quello che oscuramente alcuni espressionisti avevano intuito si era tramutato in una realtà ancora più tragica e paurosa»4.

Nell’area espressionista si forma e appare chiaramente il tipo di intellettuale militante e anti sistema che sarà una costante di tutto il secolo. La letteratura, l’arte, il cinema ecc. si caricano così di una responsabilità etica e la preoccupazione principale diventa quella di “dire la verità”, sul mondo e sulle sue reali condizioni, dando voce a coloro che non possono parlare, smentendo le versioni ufficiali, svelando le menzogne della propaganda, l’ipocrisia del senso comune. I risultati formali, squisitamente estetici sono il risultato ma soprattutto lo strumento di questa presa di posizione e assunzione di responsabilità.

Viani e gli anarchici italiani

Anche in Italia è attiva una corrente che si può riferire nell’area espressionista di cui il maggiore esponente è il pittore (e romanziere) Lorenzo Viani: anticericale e anarchico nella sua opera si possono rintracciare tutti quegli elementi di critica e insofferenza tipici dell’espressionismo. In quest’area si possono anche collocare artisti “borderline” come Amedeo Modigliani, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Mario Sironi. Dopo la Grande Guerra l’insofferenza di alcuni di questi artisti verso il presente fu intercettata dal movimentismo fascista. Una volta al potere il fascismo, come ogni regime, divenne assai meno tollerante verso lo spirito di protesta degli intellettuali e coloro che non furono assimilati, come Sironi a esempio, si trovarono a dover scontare una posizione di marginalità.

Arte come rivoluzione

Alle correnti che si possono variamente raggruppare sotto l’ombrello dell’espressionismo, in cui la modernità, se non apertamente osteggiata, è interpretata in modo critico, si possono opporre correnti in cui, al contrario, il tempo presente viene accolto con spirito positivo. Come in ogni epoca le trasformazioni sociali, economiche e politiche rappresentano un problema ma anche un’opportunità. La rivoluzione moderna è vista da molti intellettuali come l’occasione per uscire dall’arretratezza, per conquistare spazi di democrazia, per emancipare le masse e costruire una società più giusta. Sono posizioni che viaggiano sull’onda lunga degli ideali illuministi secondo cui i progressi della tecnica e del sapere rappresentano anche la possibilità di un progresso sociale e umano.

In ogni caso, nelle arti c’è la coscienza delle poderose trasformazioni sociali in atto e la conseguente necessità di adeguare i modelli espressivi e comunicativi. Come abbiamo visto, dopo l’avvento della fotografia, le arti figurative prendono atto delle mutate condizioni storiche e abbandonano la secolare ambizione di rappresentare la realtà inseguendo la fedeltà al dato sensibile.

Futurismo

All’inizio del Novecento l’Italia si affaccia faticosamente alla modernità: un’industrializzazione incompleta e balbettante si fa largo attraverso una situazione economica, politica e culturale arretrata rispetto al resto d’Europa. I futuristi colgono queste tensioni progressiste e cercano di diventarne interpreti e promotori e, forse per mettersi al passo con i tempi, Marinetti e compagni puntano tutto sull’idea di velocità.

Il loro intento è di operare una rivoluzione nella pratica artistica e nell’ordine sociale, all’inizio dell’avventura sono antiborghesi, anarcoidi, insofferenti verso il potere, la religione, le convenzioni sociali e culturali; sono attaccabrighe, cercano lo scandalo e lo scontro; sognano la distruzione della tradizione, dei musei, delle accademie e di tutti quei vincoli storici che tengono il paese incatenato al passato. 

Velocità, mito della macchina e dell’azione, tensione verso il futuro sono gli stimoli per una revisione completa dei modelli e delle pratiche espressive: per gli artisti futuristi l’arte deve dare voce alla società moderna, metropolitana e industriale, e proiettarsi nell’avvenire.

Pittura, architettura, poesia, musica, teatro ma anche design, moda, gastronomia, galateo5: ogni campo della pratica artistica e della vita è investito da un’ondata iconoclasta e rivoluzionaria. Secondo i futuristi l’arte deve trasformare ogni aspetto della vita, deve essere vita. L’architettura si confronta con il nuovo panorama industriale, la poesia si libera della metrica e la musica si mescola al nuovo paesaggio sonoro fatto di rumori meccanici e clamore6.

Malgrado le posizioni ideologiche espresse negli incandescenti manifesti programmatici l’arte figurativa dei futuristi non ha rappresentato quell’estrema rivoluzione prospettata nella teoria: la pittura e la scultura futuriste subiscono torsioni e disarticolazioni, le forme esplodono nella rappresentazione del movimento, rimanendo saldamente ancorate alla logica classica del quadro-scultura. L’inclusione di materiali differenti nello spazio simbolico del quadro non avviene come non avviene il vagheggiato abbandono (di Boccioni in particolare) delle tecniche tradizionali. In altre parole, il movimento rimane rappresentato e quindi simbolizzato e quel salto così desiderato dell’arte nella vita non avviene.

I risultanti più interessanti ottenuti dai futuristi sono realizzati nel campo delle arti applicare, del design e della tipografia, cioè il campo dove la creatività opera direttamente e fattivamente nel campo della vita pratica. Soprattutto in quest’ultimo caso l’esplosione della gabbia tipografica, l’uso smaliziato dei processi di stampa e una libertà espressiva davvero nuova per quell’epoca hanno prodotto pagine estremamente innovative e seminali. Le parole in libertà rappresentano nel design grafico proprio quel salto mancato nelle arti maggiori. La letteratura e la poesia dovevano adeguarsi alla velocità del mondo delle macchine, per esprimere il sentire futurista era quindi necessaria una trasformazione radicale anche della pagina tipografica. Simultaneità nella lettura di più testi, impiego di onomatopee e di elementi grafici, distruzione delle gerarchie e della sintassi sono gli strumenti impiegati per operare questa rivoluzione: «Fu dunque una riflessione sul testo – scrivono Baroni e Vitta –, non quella sulla sua rappresentazione tipografica, a indurre i futuristi a scardinare lo spazio della pagina per farne la scena della nuova comunicazione»7.

I futuristi sono interventisti, partecipano alla propaganda per l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, dopo la guerra sosterranno la politica nazionalista e squadrista del nascente partito Fascista. Con Mussolini al potere il Futurismo perderà tutta la sua carica movimentista e si annacquerà in posizioni gradite al regime.

Le innovazioni formali del primo Futurismo – normalmente chiamato eroico, proprio per distinguerlo da quello postbellico, allineato al regime, che di eroico aveva poco – fioriranno, grazie all’opera di Fortunato Depero, nel campo della comunicazione8. La pubblicità e la grafica saranno quel campo in cui le forme dinamiche, i colori pieni e squillati, la forte iconicità e libertà della composizione potranno sprigionare tutta la loro energia. L’opera di Depero dimostra come le sperimentazioni, che potremmo definire pure, nel campo dell’arte che gli artisti delle avanguardie compiono, rinnovano il glossario dell’arte stessa e insieme del visivo in generale, ampliando le possibilità non solo dei creativi – che sono più liberi di sperimentare – ma, con la forza della provocazione, anche quello che il pubblico può recepire.

De Stijl e Bauhaus

De Stijl in Olanda e Bauhaus in Germania hanno approcci simili al fare artistico, come simili sono anche le soluzioni formali che propongono. Ancora una volta, la preoccupazione di questo gruppo di intellettuali è quella di sanare la frattura tra arte e prassi della vita quotidiana, un problema che viene affrontato con solido pragmatismo e fiducioso idealismo. Walter Gropius fonda nel 1919, sulle rovine di una Germania uscita sconfitta e umiliata dalla guerra, una scuola, convinto che l’arte sia, come la scienza, trasmissibile e applicabile socialmente.

Una moderna produzione artistica può fornire, secondo gli artisti-insegnati del Bauhaus, validi elementi per una riformulazione attiva del rapporto tra arte e vita, oltre che partecipare al processo di ricostruzione materiale, culturale e morale della nazione. Le posizioni di Gropius e dei suoi colleghi differiscono molto da quelle di rifiuto e critica assunte dagli artisti dell’area espressionista: per chi insegna e lavora nel Bauhaus il problema è piuttosto quello di trasformare la vita attraverso l’arte. La creatività diventa quindi un potente motore di progresso e un veicolo di rivoluzione sociale9.

Una moderna produzione artistica si deve rivolgere a un nuovo tipo di individuo che vive consapevolmente e pienamente il proprio tempo: razionale, progressista e insieme capace di liberare le proprie profonde risorse interiori, ancora inespresse. Mondrian e Kandinsky cercano appunto delle immagini capaci dialogare con la dimensione interiore dell’uomo moderno. La pittura abbandona quindi il realismo e cerca forme pure, astratte, che colgono l’essenza delle cose. I quadri degli artisti attivi in quest’area sono impregnati di ideali filosofici e spirituali, e rappresentano il lato trascendente e utopista del movimento moderno. La produzione artistica classica (pittura, scultura e architettura) è accompagnata da una rivoluzionaria attività nel campo delle arti applicate, del design industriale e grafico, con apporti decisivi nel cinema, nel teatro e nella musica.

Mondrian e Van Doesburg adottano un alfabeto rigoroso e geometrico, da cui è espunta ogni componente emotiva, naturalistica e ornamentale: è un modo per superare l’imperante gusto tardo Liberty, barocco, fiorito e drammaticamente compiaciuto. Anche Kandinsky intraprende il cammino verso un’arte rigorosa e controllata, e le sue composizioni apparentemente così libere e immediate sono il frutto di studi approfonditi sulla dinamica delle forme e sull’impatto emotivo dei colori. Kandinsky accompagna alla sua opera pittorica una intensa attività teorica (come del resto facevano tutti gli artisti di quegli anni, Malevic, Mondrian, Schwitters, Klee hanno lasciato poderosi corpus di scritti)10.

La produzione degli artisti di De Stijl, e più ancora quella di coloro che partecipano all’esperienza del Bauhaus, è contrassegnata da una grande pulizia concettuale; le forme sono rigorose, ridotte a elementi essenziali; i colori sono sempre primari e mai emotivi; l’approccio alla creazione è razionale, guidato dall’applicazione di modelli desunti dal metodo scientifico e da una forte dose di fiducia nella forza positiva del progresso. Si mette così a punto quell’alfabeto misurato, minimale e concreto che ha segnato tutto il movimento moderno.

L’esperienza del Bauhaus ha aperto prospettive straordinarie proprio nelle arti applicate (le “belle arti industriali” secondo la definizione di Maurizio Vitta11) diventando di fatto l’incubatore di una nuova cultura del progetto. Il design, insomma comincia a produrre una propria estetica ricavata dalle sue stesse ragioni progettuali, economiche e comunicative, più che desumere il proprio senso dalle arti maggiori (come era stato per il Futurismo, ad esempio, in cui negli oggetti venivano declinate forme e contenuti prodotti nel campo delle arti maggiori). L’esperienza del Bauhaus finisce nel 1933 con la presa del potere di Hitler: il regime totalitario non poteva tollerare al suo interno un’esperienza a suo modo totalizzante come quella promossa da Gropius.

Tra gli anni Venti e Trenta l’Europa compie la sua trasformazione in una società di massa12, strutturata attorno a modelli economici, comportamenti e riferimenti culturali sempre più standardizzati e uniformati. I linguaggi della comunicazione e della grafica – come quelli dell’arte – cercano un vocabolario adeguato alle mutate condizioni sociali. Le innovazioni sperimentate dagli artisti di avanguardia introducono elementi formali, teorici e poetici che serviranno a un più generale rinnovamento e progresso nel campo delle arti applicate. Sintetizzando si può dire che le sperimentazioni degli artisti forniranno un nuovo lessico ai professionisti che nella loro pratica compiranno il salto tra l’enunciazione di principi e l’individuazione sistematica di un linguaggio in sé concluso, saldando, almeno in parte, la frattura tra esperienza estetica e prassi della vita quotidiana.

Costruttivismo

La ventata di modernismo è ancora più forte nella Russia della rivoluzione bolscevica. Gli artisti partecipano alla fondazione della società socialista con fiducia, calore e abnegazione. Fino a che il processo rivoluzionario rimane aperto e attivo, l’arte e la rivoluzione sono tutt’uno. Alla morte di Lenin, avvenuta del ’24, e con la salita al potere di Stalin il processo si arresta e la rivoluzione diventa un incubo inumano: l’arte smette di essere veicolo di liberazione e sovvertimento e, come qualsiasi altra attività, è ricondotta sotto lo stretto, soffocante controllo degli apparati statali13.

Ma all’inizio – sin dai giorni dell’ottobre del 1917, con il ritorno in patria di Lenin dall’esilio svizzero e la violenta presa di potere dei bolscevichi – Malevic, Rodchenco e compagni operano per la creazione di una società capace di liberare i lavoratori dall’alienazione, dall’oppressione e dallo sfruttamento. La loro attività spazia in ogni campo, della pittura all’architettura, dalla grafica al cinema, dalle arti applicate alla propaganda: un universo di segni moderni, dinamici, perentori destinati a formare il nuovo alfabeto delle masse proletarie. Con un livello di interazione tra elementi grafici e immagine fotografica radicalmente innovativi.

L’universo semantico costruttivista, simile per certi versi a quello del Bauhaus (rigore, nitore, pulizia formale, riduzione della tavolozza a elementi primari) è però più spinto, dinamico, impaziente, proteso verso il futuro. Questi artisti hanno il privilegio, la responsabilità, e per alcuni la colpa, di aver dato forma e voce a una delle esperienze politiche più radicali della storia: per loro la “rivoluzione” non è un progetto, come poteva essere per gli insegnati del Bauhaus, o un desiderio furente come sarà per i dadaisti, ma una viva realtà, operante nel presente e lanciata nella storia.

Il razionalismo italiano degli anni Trenta

Nell’Italia fascista degli anni Trenta, oltre alle esperienze visive del secondo Futurismo, si sviluppa una straordinaria stagione razionalista che ha molti punti di contatto con la scuola tedesca e olandese. Rigore nella progettazione, rifiuto del naturalismo, precisione delle forme sono ancora una volta gli elementi che guidano il gruppo degli artisti astrattisti italiani [Mario Radice, Manlio Rho, Mauro Reggiani, Atanasio Soldati] su cui spicca la personalità di Osvaldo Licini. Alle esperienze che si compiono nell’arte figurativa si accostano quelle, decisamente più rilevanti, dell’architettura: Adalberto Libera, Giuseppe Terragni e Giò Pontidivengono i principali esponenti del modernismo italiano. Non a caso, nel 1928 nascono due riviste di architettura e design – Domus e Casabella – destinate a diventare elementi chiave del dibattito culturale dell’epoca. Sui risultati teorici e sulle realizzazioni del razionalismo degli anni Trenta fiorirà nel dopoguerra la cultura del design italiano.

Il movimento razionalista italiano, seppure nelle difficoltà e nelle limitazioni imposte dal regime fascista e di un clima culturale che nel corso degli anni Trenta diverrà sempre più chiuso e autarchico, approderà a posizioni all’avanguardia affini a quelle che si andavano elaborando in Germania e nel nord Europa. Nel 1933 aprirà lo Studio Boggeri, la prima agenzia di comunicazione italiana che diventerà l’interprete della nascente industria manifatturiera e meccanica del paese. Con lo studio Boggeri si afferma anche una aggiornata sensibilità nella progettazione grafica interpretata nei suoi elementi più all’avanguardia dalla rivista Campo Grafico. Fondata sempre nel 1933, Campo Grafico assimila e rielabora in incessanti sperimentazioni gli elementi del modernismo europeo.

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1 Vedi Einstein, Scultura negra, anche Tzara scriverà un testo fondamentale sull’argomento, in generale prende avvio uno stile etnografico da parte degli artisti che, in forme diverse, arriva fine a noi.

2 De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento. p. 70.

3 È un passo estratto dal mio manuale scolastico di storia. Le vicende della Prima guerra mondiale, come per altro quelle della seconda, seppure rilevantissime ai fini del discorso, sono talmente vaste da non poter essere che evocate. Rimando a Peppino Ortoleva, Marco Revelli, Storia dell’età contemporanea. Dalla Seconda rivoluzione industriale ai nostri giorni. Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 1993.

4 De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento. p. 121.

5 Il corpus dei Manifesti futuristi raccoglie le scorribande di questo gruppo di giovani in tutte le dimensioni della creatività e della socialità. Sono testi molto belli e mostrano come, molto spesso, la pratica futurista non sia stata all’altezza della teoria. Vedi Guido Davico Bonino (a cura di), Manifesti Futuristi. Rizzoli, 2009.

6 Le esperienze più interessanti della stagione futurista si possono trovare probabilmente negli àmbiti artistici meno noti al pubblico, se non più marginali. Pittura e scultura (cioè le arti nobili e in fondo più conosciute) rimangono saldamente ancorate a una logica simbolista, in musica Russolo compie invece quel salto in un territorio sonoro completamente inedito e inesplorato. Russolo – forse il musicista meno eseguito del secolo, malgrado l’innegabile importanza – comprende e traduce in musica il paesaggio sonoro moderno, quel “rumore” a cui dovrà convivere ogni cittadino occidentale. Vedi Stefano Pivato, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro del Novecento. Il Mulino, Bologna, 2011.

7 Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del design grafico. Longanesi, Milano, 2003. p. 77

8 Vedi Gabriella Belli, Beatrice Avanzi (a cura di), Depero pubblicitario. Dall’auto-réclame all’architettura pubblicitaria. Skira, Milano, 2007.

9 Vedi, Walter Gropius, La nuova architettura e il Bauhaus. Traduzione di Alessandro Salvini. Abscondita, Milano, 2014.

10 I libri di Kandinsky come Lo Spirituale nell’arte o Punto, linea, superficie sono ancora in stampa e sono, ancora, letti: la fiducia dell’artista sulle possibilità di costruire un vocabolario razionale per esprimere le emozioni sembra essere tutt’oggi condivisa.

11 Vedi Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali. Einaudi, Torino, 2012.

12 Non a caso, Elias Canetti comincia a scrivere il suo celebre Massa e potere nel 1922. Il libro sarà pubblicato nel 1960 dopo quasi quarant’anni di elaborazione.

13 È il destino comune a ogni esperienza avanguardista dell’Europa prebellica, come il Futurismo e il Bauhaus, il Costruttivismo viene soffocato e spento. Gli stati totalitari investono moltissimo in arte facendone il cardine della loro macchina propagandistica. È un aspetto mai considerato nei libri di storia dell’arte che sopprimono e censurano l’enorme quantità di arte prodotta durante il periodo fascista o nazista o stalinista bollandola come mera propaganda, non sempre è così. Un ampio studio sull’argomento si trova in Igor Golomstock, Arte Totalitaria. Nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini e nella Cina di Mao. Traduzione di Alessandro Giorgetta. Leonardo, Milano, 1990. Per un repertorio iconografico dello stesso periodo vedi Steven Keller, Iron fist. Branding the 20th-century totalitarian state. Phaidon, London, 2008.

Modernità

Per cominciare: Il caso Brancusi

«1° ottobre 1926. Il transatlantico Paris sbarca nel porto di New York. Trasporta una ventina di opere di Brancusi che dovranno essere esposte alla galleria Brunner tra cui l’Oiseau dans l’espace. […] Un ispettore della dogana esamina questi strani “oggetti” con occhio diffidente e, sotto lo sguardo stupito e ironico di Marcel Duchamp che accompagna il “carico”, decide di applicare loro l’articolo 399 del Traffic act del 1922, che prevede una tassazione all’importazione per gli oggetti di uso comune o manufatti, in funzione della loro composizione e/o del loro peso. […] Dal momento che, evidentemente, l’Oiseau dans l’espace non era né un tavolo, né un articolo casalingo o d’uso ospedaliero, si decise di classificarlo nella categoria indeterminata degli “articoli od oggetti manufatti”, e dal momento che era composto di bronzo […] l’ispettore, attenendosi rigidamente al regolamento, tassò l’articolo al 40% del suo prezzo […]. E a Duchamp che aveva visto ben altro e che gli chiedeva – si suppone sempre con atteggiamento ironico – perché non applicasse l’articolo 1704 della stessa legge che esonerava da ogni tassazione le sculture, l’ispettore […] rispose: questa non è arte»1.

Questo racconto prosegue con una causa giudiziaria intentata dal proprietario della galleria che doveva esporre le opere di Brancusi: Edward Steichen, proprietario dell’Oiseau, ovviamente non intendeva pagare l’onerosa tassa del 40% applicata agli oggetti di uso comune ma esigeva l’esenzione destinata alle opere d’arte. La causa si chiuse con una sentenza che fece giurisprudenza: «Con il verdetto del 26 novembre del 1928 il giudice Waltie riconobbe che: “si è sviluppata una tendenza artistica considerata moderna, i cui fautori mirano a rappresentare idee astratte più che a imitare oggetti naturali. Al di là della simpatia o antipatia per queste idee d’avanguardia e per le correnti artistiche che rappresentano, noi giudichiamo che la loro esistenza, così come la loro influenza sul mondo dell’arte, siano fatti degni di essere riconosciuti»2. La sentenza, pertanto, ammette che le sculture di Brancusi – malgrado siano incomprensibili e aliene a ogni condivisa idea che si ha dell’arte – vengano considerate arte.

Questo aneddoto ci interessa per un motivo specifico: com’è possibile che una persona – l’ispettore della dogana – non riconosca la scultura di Brancusi come un’opera d’arte, dotata di un contenuto estetico? Per la prima volta nella storia millenaria della cultura si verifica un distacco, e un’incomprensione, tra chi produce arte e coloro a cui quest’arte è destinata. Quali mutamenti si sono verificati per produrre una tale lontananza tra la pratica dell’arte e la percezione che di questa hanno le persone comuni? È una distanza che percepiamo ancora oggi, dopo cento anni di avanguardia e, spesso, di fronte alle proposte più innovative degli artisti nostri contemporanei ci troviamo spiazzati e dobbiamo porci la stessa domanda che si è posto l’ispettore della dogana nel lontano 1926: ma è arte questa?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo ripercorrere la storia delle arti dell’ultimo secolo e cercare di comprendere quali profondi mutamenti si siano verificati, non solo nella pratica dell’arte ma nella struttura stessa della società che esprime attraverso la prassi dell’arte. E dobbiamo capire anche come il concetto stesso di «arte» si sia trasformato, perché, molto spesso, quando pensiamo all’arte abbiamo in mente dei modelli o dei riferimenti poco attinenti alla sua reale natura. Comprendere la natura dell’arte ci aiuta, più in generale, a capire i linguaggi del presente – siano comunicazione, design, moda ecc. – e ci consente di comprendere quali sono i modelli che utilizziamo quando produciamo, manipoliamo e consumiamo immagini.

1 Edelman, Addio alle arti. pp. 9-10.

2 Senaldi, Definitively Unfinished. Filosofia dell’arte contemporanea. pp. 22-23

1. L’invenzione dell’arte

La storia dell’arte occidentale è la storia della progressiva separazione delle così dette belle arti (pittura, scultura, architettura) dall’alveo del complesso di attività (come l’oreficeria e l’ebanisteria ma anche la tessitura o la ceramica) che oggi consideriamo artigianali ed è la storia dell’emancipazione della figura dell’artista dal ruolo di artefice di manufatti realizzati in funzione di uno scopo preciso e in un contesto specifico e della sua elevazione a un tipo di creatore così privilegiato da poter considerare utile alla società l’espressione di sé e della propria interiorità.

Il nostro concetto di arte (creazione svincolata da un immediato utilizzo pratico, espressione delle emozioni o dei pensieri di un individuo dotato di quello che viene comunemente definito talento) è un’invenzione recente a cui però abbiamo dato una validità retroattiva. Le società antiche non avevano una parola per definire quello che noi oggi intendiamo per arte e gli artisti erano considerarti artigiani al pari di calzolai e ceramisti1.

La figura dell’artista comincia a definirsi in quanto tale solo nel Rinascimento e sebbene si individualizzi il suo lavoro rimane comunque strettamente definito dal contesto in cui opera. A partire dalla metà del Settecento, con l’Illuminismo, la Rivoluzione industriale e il formarsi della società borghese, l’artista – ormai individualizzato e professionalizzato – si trova a operare nel contesto del mercato capitalista, immerso in dinamiche completamente diverse da quelle che per migliaia di anni hanno definito il suo lavoro. Con l’affermarsi dell’economia di mercato l’arte, come ogni altro aspetto della vita, si modifica per rispondere alle esigenze imposte dalla modernità: concorrenza, fluttuazione, individualismo. Si può affermare che l’arte moderna sia figlia della Rivoluzione industriale.

2. C’era una volta

Il modo in cui si è creata arte (immagini e manufatti che oggi facciamo rientrare nella categoria “arte”) nei secoli è cambiato seguendo le trasformazioni del tessuto sociale, del contesto politico e della struttura economica delle diverse epoche. Peter Bürger  sintetizza così i passaggi più rilevanti: «L’arte sacra (ad esempio quella dell’alto Medioevo) serve come oggetto di culto. Essa è ampiamente legata all’istituzione sociale religiosa. Viene prodotta artigianalmente e collettivamente. Anche le modalità di ricezione sono collettivamente istituzionalizzate»2. Come esempio potremmo indicare “La Maestà” di Duccio da Boninsegna che, una volta terminata, è portata in processione da una folla di fedeli dalla bottega dell’artista fino alla Cattedrale dove viene collocata con una cerimonia, non perché sia una straordinaria opera d’arte ma perché è uno straordinario oggetto di culto attorno al quale la comunità si riconosce e raccoglie.

Come accennato, durante il Rinascimento l’artista acquisisce consapevolezza del proprio operare: incorporando nella propria pratica un sapere scientifico cambia la natura del proprio lavoro da artigianale a intellettuale, Hans Belting spiega come: «Il “salto quantico” è consistito nel fatto che la prospettiva ha portato all’interno dell’immagine lo sguardo e, assieme allo sguardo, il soggetto che guarda. Proprio per questo l’arte nel Rinascimento si concepì come “arte”, ossia come disciplina professionale provvista di competenza teorica: perché essa si presentava come una scienza applicata che si era appropriata di una teoria matematica della percezione visiva»3.

Gli artisti rinascimentali, incorporando nella loro pratica un sapere scientifico portano il mestiere dell’arte, per la prima volta nella storia, nel territorio algido della teoria. Vasari, scrivendo le sue “Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori” (1550, con “L’aggiunta de vivi, & de’ morti infino al 1567”) certifica questo passaggio, costruendo per il nuovo tipo di artista una storia – una mitologia – su cui poggiare le fondamenta. Dal Rinascimento l’artista diventa il tipo di intellettuale che ci è familiare, scrive trattati (nel Novecento scriverà Manifesti), si dedica alla speculazione, assoggetta l’esecuzione materiale, finanche lo stile dell’opera, a un progetto dando inizio a quella che potremmo definire una sorta di supremazia del disegno, cioè del momento razionale su quello sensoriale e meramente esecutivo. 

Dopo l’arte sacra, «l’arte cortigiana (ad esempio, durante il regno di Luigi XIV) – continua ancora Peter Bürger – ha un’utilizzazione altrettanto definita, è un oggetto di rappresentazione che serve alla gloria del principe e all’autorappresentazione della società che gli ruota attorno. L’arte cortigiana è parte della vita concreta della società di corte, come l’arte sacra lo è di quella dei credenti. […] La differenza con l’arte sacra si chiarisce soprattutto nel momento della produzione: l’artista produce come individuo e sviluppa una consapevolezza dell’unicità del proprio operare. Al contrario, la ricezione rimane collettiva; tuttavia il contenuto della manifestazione collettiva non è più il sacro, ma la comunità»4. Come esempio di questo cambiamento potremmo indicare “Las Meninas” di Velasquez in cui l’artista, ritraendo il Re e la sua corte, ritrae se stesso rappresentandosi come parte di un sistema di simboli tanto complesso quanto chiuso e definito, da cui attinge prestigio e potere.

Tra la fine del XVIII e il XIX si compie una nuova trasformazione: l’ascesa della borghesia capitalista mette fine alla società dei ceti (aristocrazia, plebe, clero) e impone nuovi modelli sociali. L’arte cambia ancora il suo statuto. «Schiettamente borghese – a parlare è ancora Peter Bürger – è l’arte come oggettivazione dell’auto comprensione della propria classe. Produzione e ricezione dell’autocomprensione che si articola nell’arte non vengono più connesse alla vita concreta. Habermas definisce questo fenomeno come “soddisfacimento dei bisogni residuali”, vale a dire di quei bisogni che sono stati rimossi dalla vita pratica della società borghese. Non solo la produzione, ma anche la ricezione artistica avviene a livello individuale. L’immersione solipsistica nell’opera è il modo più adeguato per appropriasti delle creazioni che sono state strappate dalla vita concreta del borghese e che pure continuano ad avanzare la pretesa di spiegarla»5.

In sintesi: l’arte sacra trova un’utilizzazione come oggetto di culto, la sua produzione è collettiva e artigianale e la ricezione è collettiva e sacrale; l’arte di corte trova utilizzazione come strumento di rappresentazione del potere, ha una produzione individuale e una fruizione collettiva; l’arte borghese serve all’autorappresentazione e all’autocomprensione dell’individualità borghese, ha produzione e ricezione individuali. L’arte nel mondo moderno si allontana dalla vita della collettività e diviene un fatto privato e di fronte ai quadri «non si piegano più le ginocchia»6.

Il moderno capitalismo industriale trasforma radicalmente la società e il ruolo che gli individui giocano in essa, compresi gli artisti. In questo quadro di allontanamento dalla vita concreta e nella necessità di ritrovare la strada che congiunge arte e vita, nasce e si sviluppa l’arte del Novecento, con le sue tensioni e contraddizioni. Il punto di rottura tra le forme dell’arte classica e moderna è individuato (sommariamente) attorno alla metà dell’Ottocento in cui la nuova cultura del design industriale si manifesta compiutamente per la prima volta e un cui si consuma l’ultima grande stagione di un’arte che ha la pretesa di avere una funzione sociale e di non dover risolversi in pratiche solitarie lontane dalla prassi della vita.

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1 Vedi Larry Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale. Traduzione di Nicola Prinetti. Einaudi, Torino, 2010.

2 Peter Bürger, Teoria dell’avanguardia. Traduzione di Andrea Buzzi e Paola Zonza. Bollati Boringhieri, Milano, 1990.p. 57.

3 Hans Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente. Traduzione di Maria Gregoio. Bollati Boringhieri, Milano, 2010. p 15.

4 Brüger, cit. p. 57.

5 Brüger, cit. p. 57

6 Per comprendere questo passaggio leggiamo Edgar Wind: «La moda di applicare la parola «interessante» è, infatti, un’invenzione romantica; e se ancor oggi è rimasta quest’abitudine, è perché senza accorgercene noi conserviamo un atteggiamento romantico. Ai tempi di Hegel, però, al cosa era nuova, ed egli capiva ciò che voleva dire. Un oggetto «interessante» possiede una qualità che colpisce; suscita la nostra attenzione; prendiamo atto di ciò che ci colpisce, e poi lo lasciamo perdere. Un’esperienza «interessante» è un’esperienza che non ha effetti duraturi. Di conseguenza Hegel tirò le somme, così come le vedeva lui. Era arrivato un momento nella storia del mondo, a partire dal quale l’arte avrebbe perso quello stretto legame, che in passato aveva avuto, con le energie centrali dell’uomo; si sarebbe trasferita al margine, e lì avrebbe formato un ampio e splendidamente variegato orizzonte. Il centro sarebbe rimasto alla scienza; cioè a un inarrestabile spirito di ricerca razionale. Il tipo di scienza che Hegel prevedeva non somiglia per niente alla scienza di oggi; sotto questo aspetto, egli fu un cattivo profeta. Ma previde, invece, correttamente il posto della scienza nella vita moderna, e non meno chiaroveggente fu assegnare all’arte quel posto marginale. Egli spiegò che in un’èra moderna dominata dalla scienza la gente non avrebbe smesso di dipingere né di fare statue, né di scrivere, poesie né di comporre musica; e poiché queste cose sarebbero state fatte conveniva che sarebbero state fatte bene. Ma non bisognava ingannarsi, scrisse: «Per quanto  splendide le effige degli dèi greci ci possano sembrare, qualunque sia la dignità e la perfezione che possiamo trovare nelle immagini di Dio Padre, di Cristo e della Vergine Maria, tutto ciò è inutile: le ginocchia non le pieghiamo più». Quello che Hegel voleva dire, venne splendidamente illustrato, quarant’anni dopo, da Manet, quando dipinse il Cristo morto vegliato dagli angeli. Diversamente dal dipinto del Mantegna sullo stesso soggetto, lo scopo del quadro di Manet non era quello di far inginocchiare qualcuno. Era stato fatto per una galleria, non per una chiesa. Manet voleva che fosse ammirato come pura pittura». Edgar Wind, Arte e anarchia. Traduzione di J. Rodolfo Wilcock. Adelphi, Milano, 1968. pp. 29-30.

3. La nascita del design

La Rivoluzione industriale non cambia soltanto la forma e il destino delle belle arti, trasforma anche in profondità le arti minori, o decorative, o applicate, mutando i manufatti artigianali in merci. Una trasformazione che produce la nuova cultura del design: le merci – cioè le cose che ci circondano e definiscono il nostro mondo, siano un’automobile, una sedia, l’interfaccia di un computer o il carattere con cui sono scritte queste parole – non possono essere semplicemente fatte, devono essere prima progettate da una persona che non sarà quella che andrà a realizzarle, come nelle pratiche artigianali. Viene meno la componente manuale nella produzione dell’oggetto. L’oggetto industriale risponde a precise esigenze produttive e di mercato, è realizzato in serie e tutte le sue qualità risiedono nel progetto e non nella realizzazione. L’apparizione della figura del progettista, il designer, rappresenta nei fatti la grande novità della cultura moderna1. La nascita della produzione industriale e la conseguente formazione della cultura del design non cambia solamente la storia del nostro rapporto con gli oggetti ma trasforma in profondità anche il corso della storia dell’arte e, come vedremo, “nell’epoca della riproducibilità tecnica” degli oggetti (e delle immagini) diviene possibile fare un ready-made.

Dalla metà dell’Ottocento, con il trionfo del capitalismo e della società borghese, la separazione di arte e artigianato – e la trasformazione dell’artigianato in industria – è compiuta. L’arte, espulsa dalla prassi della vita – cioè espunta dagli oggetti che definiscono la vita, prodotti in processi industriali e quindi affidati ai designer – esiste in una sfera separata, spirituale, quasi mistica, lontana dalle contingenze della società. Il design, riempiendo il mondo di oggetti utili e belli (e belli perché utili) diviene un potente motore di narrazione e di riconoscimento sociale, e si insedia nel luogo lasciato vacante dalla trasformazione dell’arte e dell’artigianato, cioè la prassi della vita quotidiana.

Il passaggio tra i modelli di produzione artistica del passato e il nuovo paradigma è individuato nel periodo compreso tra la Rivoluzione francese e la fine della seconda Comune di Parigi del 18702: un secolo durante il quale la borghesia afferma il suo potere sostanziale, a discapito di quello aristocratico. In questo intervallo gli artisti hanno ancora avuto la possibilità di intercettare le grandi tensioni sociali, dando voce alle nuove classi sociali inventando il linguaggio figurativo della borghesia (Chardin); creando un’arte consapevole di essere uno strumento di azione politica (David); di legittimazione per i nuovi poteri (Canova); di ricerca, affermazione o rivendicazione dell’identità nazionale (la pittura romantica: Goya, Friedrich, Blake, Hayez); di partecipazione alla lotta politica (Gericault, Delacroix). Un secolo durante il quale il baricentro della creazione artistica si è progressivamente spostato sulla figura dell’artista, sulla sua visione (piuttosto che sulla sua capacità di vedere), preparando il terreno per la rivoluzione psicologica del secolo successivo.

Un secolo di profondi rivolgimenti che hanno investito ogni ambito del mondo occidentale, una trasformazione imponente e veloce vissuta dai suoi stessi attori con euforia e paura, adesione e rifiuto. Le arti riflettono questo approccio complesso e ambivalente, la storia delle immagini del XIX secolo è una storia che racconta di questo vortice di trasformazioni che chiamiamo modernità.

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1 Maurizio Vitta, Il progetto della bellezza. Il design fra arte e tecnica dal 1851 a oggi. Einaudi, Torino, 2011; Daniele Baroni, Maurizio Vitta, Storia del design grafico. Longanesi, Milano, 2003.

2 Eric Hobsbawm nella sua ricostruzione dell’affermazione borghese – che ha come ideale punto di inizio il fatidico 1789 – stringe tra il 1848, l’anno della prima grande rivoluzione europea, e il 1875 il periodo del definitivo “trionfo della borghesia”. Eric J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848/1875. Traduzione di Bruno Maffi. Laterza, Bari, 1979. Per un quadro generale delle arti dell’Ottocento vedi Cesare de Seta, Il secolo della borghesia. UTET, Torino, 2006.

4. Modernità

Durante il XIX secolo il mondo occidentale compie il passaggio verso la modernità. È un passaggio complesso e decisivo che il sociologo Marshal Berman sintetizza così: «Ad alimentare questo vortice della vita moderna hanno contribuito diversi motivi d’origine: le grandi scoperte nel campo della fisica, che hanno mutato le nostre raffigurazioni dell’universo e del posto che vi occupiamo; l’industrializzazione dei processi produttivi, che trasforma la conoscenza scientifica in tecnologia, creando nuovi ambienti umani, distruggendo quelli vecchi, accelera il ritmo dell’esistenza e dà vita a nuove forme di potere corporativo e di lotta di classe; gli immensi sconvolgimenti demografici, che hanno strappato milioni di persone ai loro habitat ancestrali, gettandole nel mondo in uno stato di incertezza che ha ispirato loro nuove vite; sistemi di comunicazione di massa, dinamici nel loro sviluppo, che abbracciano e uniscono i popoli e le società più disparte; stati nazionali sempre più potenti, strutturati e gestiti secondo una logica burocratica, continuamente in lotta per estendere i propri poteri; movimenti sociali di massa che interessano un popolo, o più popoli, pronti a sfidare i loro responsabili economici e politici, lottando per ottenere un certo controllo sulle proprie vite; e, infine, a spingere avanti e a guidare queste persone e queste istituzioni, un mercato capitalista mondiale, rigorosamente fluttuante e in perpetua espansione. Nel ventesimo secolo, i processi sociali che hanno provocato questo vortice, e lo hanno tenuto in una condizione di perpetuo divenire, sono stati riuniti sotto in nome di modernizzazione»1.

Il mondo cambia rapidamente: scoperte scientifiche che diventano immediatamente applicazioni tecniche; industrializzazione degli apparati produttivi che formano nuovi ambienti umani (la metropoli) e una nuova struttura della società (le classi, borghese e proletaria); sistemi di comunicazione e di trasporto di massa che rendono lo spazio fisico e sociale più veloce, fluido e interconnesso; stati nazionali più potenti e in concorrenza tra di loro proprio come le grandi industrie che «agiscono in un mercato capitalista mondiale rigorosamente fluttuante e in perpetua espansione».

In questo quadro di grande mobilità imposto dall’economia di mercato, in cui gli stati come le aziende sono in perpetua concorrenza, si sviluppa anche la nuova realtà del mercato del lavoro, in cui si muovono le persone, siano proletari o borghesi, intellettuali o professionisti. Una realtà che vede gli individui in concorrenza fra di loro e, per la prima volta nella storia soggetti a una mobilità sociale che può permettere a ognuno di cambiare la propria posizione: nasce il mito dell’uomo che si è fatto da sé. In arte questo ideale prende la forma, come vedremo, di una radicale personalizzazione nei processi creativi a discapito delle forme condivise, dei generi e dei canoni accademici.

A queste imponenti trasformazioni, che potremmo definire materiali, se ne aggiungono altre che contribuiscono a cambiare la percezione che i cittadini occidentali hanno del mondo. Nel libro Guardare l’arte contemporanea Mary Acton descrive: «l’enorme cambiamento nella sensibilità, causato dagli sviluppi scientifici e filosofici. […] Si tratta essenzialmente del passaggio da una visone statica a una visone dinamica del mondo, basata sul movimento e sul cambiamento, che si è spostata dalla sfera del visibile a quella dell’invisibile, da una comprensione percettiva a una comprensione concettuale del mondo e del posto che noi vi abbiamo»2.

La concezione del mondo, che fino al XIX secolo è legata a quello che i sensi possono percepire – ed è quindi solida e stabile – si espande incorporando anche il non visibile: lo studio dei cromosomi (1873, Schneider, Flemming e Bütschli e la nascita della citologia); la scoperta del radio (1898) e dell’energia che la materia inerte può emettere; lo sviluppo della radiografia (Roentgen); la Teoria quantistica, (1901, Max Planck) in cui la materia stessa è concepita in uno stato in cui «permane per così dire in uno stato di indecisione tra diverse possibilità». Nel 1905 Einstein espone la sua Teoria della relatività in cui «la visione del mondo non può essere concepita in termini di pura tridimensionalità a causa di una quarta dimensione: il tempo». Lo spazio quindi «non può più essere inteso come se fosse fissato o misurabile in modo definitivo, ma dipende dalla situazione di movimento o stasi in cui ci troviamo nel momento in cui stiamo osservando». Come la materia, anche la percezione che gli uomini hanno di loro stessi si amplia incorporando quello che si cela dietro il visibile: nel 1900 Freud pubblica l’Interpretazione dei sogni, introducendo l’idea che «la mente inconscia esiste, per quanto invisibile, oltre la coscienza»; nel 1859 Charles Darwin pubblica L’origine della specie, «che formula la teoria dell’evoluzione e, com’è noto, mette in discussione il primo capitolo della Genesi e le credenze relative alla creazione divina del mondo».

La modernità introduce nell’immaginario occidentale l’idea di un mondo in perpetuo divenire, in cui la materia stessa di cui è composto è instabile e fluida, in cui lo spazio e il tempo non sono stabili e costanti ma elastici e in perenne rivoluzione. Il concetto di rivoluzione, di cambiamento costante è intessuto nella trama stessa del capitalismo industriale e finanziario, per comprendere come ci affidiamo ancora alle parole di Marshal Berman: «Malgrado tutte le meravigliose forme di attività dischiuse dalla borghesia, l’unica attività che ha davvero qualche significato per i suoi membri è quella di far denaro, di accumulare capitale e aggiungere plusvalore. […] Nondimeno, i borghesi si sono posti come la prima classe dirigente che fonda la propria autorità non su ciò che erano i suoi antenati, ma su ciò che realizzano in concreto i suoi rappresentati. I borghesi hanno creato immagini e paradigmi nuovi e scintillanti del buon vivere inteso come azione. Hanno dimostrato che, attraverso un’azione organizzata e coordinata, è possibile cambiare il mondo»3.

Per funzionare il capitalismo deve quindi continuamente cambiare il mondo, tenere la realtà in un costante stato di movimento, di rivoluzione, non solo materiale ma anche sociale, filosofica, politica: l’epopea moderna è attraversata a ogni latitudine, dal suo inizio e fino a ieri, da violente e irrefrenabili ondate rivoluzionarie: francese, americana, industriale, bolscevica, fascista e ancora il sessantotto, il femminismo, i movimenti postcoloniali…

A queste trasformazioni si aggiungono anche grandi innovazioni nel modo tradizionale di rappresentare il mondo, di comunicare, raccontare e immaginare la realtà. Un processo di tecnicizzazione dell’immaginario compiuto in un arco brevissimo di anni: 1838, brevetto della fotografia con Daguerre e conseguente messa in discussione della tradizionale funzione rappresentativa della pittura; 1877, Edison sperimenta il fonografo e ridefinisce profondamente il modo di eseguire, ascoltare e diffondere la musica; 1889, inaugurazione della torre Eifel e definitiva affermazione dell’architettura in ferro con nuove possibilità formali e tecniche impensabili nelle tradizionali costruzioni in pietra; 1894, prima apparizione sulle pagine della rivista Truth del personaggio disegnato da Richard Outcault “Yellow Kid”, considerato il primo fumetto; 1895, prima proiezione cinematografica a Parigi dei fratelli Lumière; 1895, Marconi effettua la prima trasmissione radio; 1925 prima trasmissione televisiva compiuta da William Taynton4.

La società occidentale affronta dunque cambiamenti profondissimi, e con ritmi via via più serrati. In pochi anni ogni aspetto della vita – sia nelle sue forme pubbliche che in quelle private – subisce una rivoluzione. Gli spazi urbani si trasformano radicalmente. La città soprattutto ha uno sviluppo accelerato, le capitali europee diventano velocemente metropoli; nelle città si concentrano le attività industriali che attirano grandi masse di persone dalle zone rurali; e nelle città si concentrano anche le attività commerciali e finanziarie. La società si ristruttura, alla suddivisone per ceti (aristocrazia, clero, plebe), si sostituisce quella per classi (borghesia, ceto medio, proletariato). La nuova forma della società è possibile perché il potere monarchico dell’Antico Regime (e che sarà definitivamente spazzato via dalla Prima Guerra Mondiale) è di fatto sostituito da quello dello stato-nazione, con i suoi apparati di controllo, censura, propaganda, censimento. Burocrazia, statistica, polizia, esercito di leva, istruzione pubblica universale, sanità, cultura nazionale sono istituzioni che prendono la loro forma definitiva – e valida ancora oggi – nel giro di questi decenni. Con le istituzioni si mettono a punto anche i modelli (architettonici e linguistici) dei luoghi specializzati dell’applicazione del loro potere: parlamenti, tribunali, caserme, ospedali, manicomi, prigioni, scuole, università, teatri, musei, giardini, cimiteri, centri commerciali, fiere5.

L’avvento della macchina introduce anche una nuova visione e suddivisione del tempo: se da un lato la percezione del tempo interiore diventa sempre più fluida, instabile e personale, quella del tempo sociale si trasforma in tempo-produzione, in tempo-profitto con protocolli rigidamente concepiti e applicati, in cui i ritmi della vita assumono le scansioni non biologiche, non naturali che il tempo-macchina impone6. Lo spazio stesso – della città, della nazione, del mondo intero – grazie alla diffusione di moderni mezzi di trasporto di massa come il treno, la metropolitana, la nave a vapore, la bicicletta e poi l’automobile e l’aeroplano – diventa percorribile il segmenti di tempo prestabiliti: il viaggio si trasforma in trasporto7.

[N]

1 Marshall Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. Traduzione di Valeria Lalli. Il Mulino, Bologna, 2012. p. 26.

2 Tutte le citazioni sono tratte da Mary Acton, Guardare l’arte contemporanea. Traduzione di Alessandro Bertinetto. Einaudi, Torino, 2008.

3 Berman, cit. p. 125-126.

4 Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali. Einaudi, Torino, 2012.

5 Su questi aspetti le letture possibili sono moltissime, mi sono avvalso dei classici studi di Michel Foucault, Sorvegliare e punire e Archeologia del sapere; come anche, tra gli altri, dei testi di Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali; Gianfranco Poggi, Vicenda dello stato moderno; Ian Hacking, Il caso domato; Maurizio Ricciardi, Rivoluzione; Peter Wagner, Modernità.

6 I romanzi dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento offrono esempi di grande chiarezza: da un lato il tempo e lo spazio interiore e fluido delle immersioni di Proust, Joyce, Kafka e dall’altro il tempo e lo spazio scanditi e misurati, percorsi razionalmente dai personaggi di Verne o quello folle e macchinico e, a suo modo, speculare di Jarry. La fascinazione per le macchine che accomuna il Verne “hard sci-fi”, le scorribande pre-dadaiste di Jarry (in treno o bicicletta) o le visioni di macchine celibi di Raymond Roussel si travaserà nelle visioni degli artisti d’avanguardia della generazione successiva. Futuristi e Costruttivisti vedono la macchina come lo strumento di un progresso inarrestabile capace di emancipare l’umanità dall’abiezione del lavoro e della fatica, per liberare energie interiori represse. Vedi, a titolo di esempio, il breve testo di Kasimir Malevič, L’inattività come verità effettiva dell’uomo. Traduzione di Maurizio Costantino. Asterios Editore, Trieste, 2012.

7 Il romanzo di Jules Verne “Il giro del mondo in 80 giorni” racconta la tecnicizzazione del tempo e la trasformazione del viaggio in percorrenza. Dopo Verne, in uno spazio misurato, compreso e in fondo imprigionato dagli orari dei mezzi di trasporto, sezionato dai fusi orari  e integralmente mappato, i soli “viaggi” possibili saranno quelli compiuti nell’altrove psichedelico. Nella tarda modernità, in un mondo completamente geolocalizzato, sorvegliato, taggato, in cui è impossibile perdersi, resta forse la possibilità di qualche deriva digitale.

Strategia e tattica

Nel libro L’invenzione del quotidiano Michel De Certeau chiarisce la distinzione tra “strategia” e “tattica”, cioè tra modelli alternativi di comportamento e di relazione con il mondo, dove la prima è adottata dai sistemi organizzati di potere e la seconda dal bricoleur che con il suo incessante e invisibile lavorìo si oppone proprio ai sistemi organizzati di potere.

La strategia, scrive De Certeau, è «un gesto cartesiano, […] un gesto della modernità scientifica, politica o militare». Il territorio della strategia è circoscritto e predeterminato, assoggettato a una logica e a un progetto, «[la strategia] postula un luogo suscettibile d’essere circoscritto come spazio proprio e di essere la base da cui gestire i rapporti con obiettivi o minacce esteriori (i clienti o i concorrenti, i nemici, la campagna intorno alla città, gli obiettivi e gli oggetti della ricerca). Come nel management, qualsiasi razionalizzazione “strategica” cerca innanzitutto di distinguere da un “ambiente” un “luogo proprio”, ovvero la sfera del potere e del volere propri».

La tattica invece si dispiega in un terreno instabile e aperto. «Definisco tattica – continua De Certeau – l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio. […] La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea. Non ha modo di mantenersi autonoma, a distanza, in una posizione ritirata di previsione e raccoglimento in sé: è movimento. […] Non ha dunque possibilità di darsi un progetto complessivo né di totalizzare l’avversario in uno spazio distinto, visibile e oggettivabile. Approfitta delle «occasioni» dalle quali dipende, senza alcuna base su cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio o prevedere sortite. Non riesce a tesaurizzare i suoi guadagni. Questo non luogo le permette indubbiamente una modalità, soggetta però all’alea del tempo, per cogliere al volo le possibilità che offre un istante»1.

Per sintetizzare, il consumo è progettato seguendo delle strategie, strategie che l’uso decostruisce incessantemente con delle tattiche di silenzioso bricolage o, detto altrimenti: l’uso immagina per gli oggetti prodotti in processi ottimizzati racconti diversi. Sappiamo ormai che la radice di questi atteggiamenti antimoderni o pre-postmoderni fioriti nel cuore della modernità trionfante si trova nella filosofia di Benjamin, nel pensiero storico di Warburg (tra gli altri) e in arte si può rintracciare nel dadaismo di Tzara e compagni, nei ready-made di Duchamp, nel frenetico merzare di Schwitters che, sebbene con differenti accenti ed esiti formali diversi, si sono impegnati tra il 1914 e il 1924 nella medesima attività di decostruzione dei linguaggi e delle ideologie dominanti attraverso tattiche di bricolage e di montaggio (spesso) irriverente. Ugualmente, la generazione di artisti, designer e creativi che ha preso la parola negli ultimi vent’anni riformula, in termini diversi – e sorprendentemente simili – lo stesso ordine di problemi.

In ogni caso, è bene notare come questi aspetti non riguardino solamente il piccolo mondo delle forme dell’arte o del design: le tattiche da bricoleur hanno improntato anche tutti quei movimenti sociali e politici, di destra o di sinistra, che dagli anni Novanta – ritrovando sintonia con pratiche situazioniste – hanno cercato di destrutturare le strategie del potere economico e politico. Movimenti coagulati attorno a palinsesti programmatici mai definiti e ottenuti attraverso un lavoro di montaggio ideologico capace di attraversare tutta la storia del Novecento. Uguali considerazioni si possono fare per le forme di consumo, sempre più polverizzate e disperse; per la produzione del sapere sempre più acefala e diffusa (Wikipedia, o le piattaforme open source); per la manifattura che (anche su grande scala) si sta sempre più orientando verso una dimensione artigianale in cui domina il saper-fare (e il fai-fa-te) tipico del bricoleur; e finanche per la dimensione spirituale in cui si è imposta con forza una speciale pratica di bricolage mistico capace di attraversare le religioni tradizionali, producendo strani ibridi che si spingono ben oltre il tradizionale sincretismo.

Serena Giordano e Alessandro Dal Lago precisano questo aspetto scrivendo: «Come nota uno studioso di tecnologie dell’informazione (Longo, Homo Technologicus, 1988), il bricolage è oggi ampiamente adottato nella progettazione (per esempio, di software): Mentre la progettazione ingegneristica classica persegue un ordine che è intrinseco a un piano intenzionale e prestabilito, frutto della finalità cosciente, nel bricolage l’ordine emerge a posteriori e segue dall’interpretazione di una serie di azioni contingenti e interventi d’improvvisazione. Intenzioni, piani, azioni e risultati sono legati, ma in modo debole, come debole è il legame tra i metodi e i materiali usati […] Come nell’evoluzione biologica, l’ordine del bricolage è frutto dell’interpretazione, ma a differenza dell’evoluzione cieca, la progettazione del bricoleur è guidata da un’intenzione, da una meta sia pur vaga. Intenzione e interpretazione si alternano a produrre significati, schemi, usi. Intenzione a priori e interpretazione a posteriori portano all’emergenza continua di strutture e significati. La centralità cede il passo alla località, l’unità progettuale alla molteplicità coordinata e variabile, la fissità al dinamismo, la rigidità alla flessibilità»2

[N]

1 Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano. Traduzione di Mario Baccianini. Edizioni Lavoro, Roma, 2010. 72-73

5 Alessandro Dal Lago, Serena Giordani, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte. Einaudi, Torino, 2008. pp.92-93

Stadio-video

Se lo sguardo è sempre situato e differente per ognuno, è chiaro che il “nostro” sguardo non può che essere radicalmente diverso da quello del passato perché il nostro sguardo incorpora anche tutti i dispositivi con cui guardiamo. La modernità ha tecnicizzato il guardare: dall’invenzione della fotografia, diventata immediatamente una pratica sociale, fino agli attuali media elettronici, il nostro guardare ha subito modificazioni irreversibili. Oggi possediamo uno sguardo che potremmo definire disincarnato, il nostro sguardo incorpora anche visioni non umane, ne facciamo esperienza quotidiana osservando, ad esempio, un’immagine di google maps, un’ecografia o una radiografia, la foto di un batterio o il fotofinish di una corsa, ecc., tutte immagini impossibili all’occhio naturale e inconcepibili solo un secolo fa, che ampliano enormemente lo spettro del visibile e quindi del pensabile.

Siamo immersi in quello che Marco Senaldi definisce “stadio-video”, cioè, dice l’autore, la nostra esistenza è interamente punteggiata di monitor, video e telecamere e fotocamere, strumenti che utilizziamo per vedere ma con i quali siamo anche visti, con i quali ci mostriamo e ci guardiamo (molto spesso li utilizziamo per vederci mentre ci guardiamo), sperimentiamo insomma una sorta di inconsapevole, straniante, permanente ubiquità: «Il risultato è che nello stesso Ora (nello stesso istante) siamo e non siamo in questo Qui (siamo qui, nello spazio metropolitano, ma anche non ci siamo, perché siamo nello spazio mediale)»1.

L’obiezione che si può muovere è che le tecnologie, i media per vedere e guardare (dalla pittura alle camere ottiche) esistono da quando esiste la nostra capacità, come specie, di pensiero simbolico. La storia degli strumenti che l’homo sapiens ha inventato per costruire il proprio ambiente visuale è cominciata sessantamila anni fa. Tuttavia, come nota ancora Senaldi: «I media sono sì un fenomeno storico, il quale però, retroattivamente, cambia l’interpretazione della storia – così come, in generale, tende a trasmutare l’essenza dei fenomeni di cui è parte. Il vero dilemma è che, una volta entrati nel mondo come duplicazione, i media non sono più distinguibili da esso»2.

Lo stadio-video quindi ingloba la realtà e noi non possiamo più separare la nostra visione naturale da quella mediata tecnologicamente. Lo stadio-video comprende quindi anche lo sguardo su noi stessi e la costruzione della nostra soggettività: siamo dove siamo e contemporaneamente siamo dislocati nella proiezione mediale della nostra immagine; guardiamo attraverso i sensi e contemporaneamente, attraverso i dispositivi elettronici. 

[N]

1 Senaldi, Obversione. Media e disidentità. Postmediabooks, Milano, 2014. p. 56

2 Ivi, p. 15

Rizoma

Cos’è un rizoma? È un termine botanico che entra nell’uso corrente grazie a Deleuze e Guattari. Salvo Vaccaro spiega come: «Il rizoma è un particolare tipo di radice che ha la specificità di penetrare il terreno lungo un movimento di estensione orizzontale, a differenza del più usuale tipo di radice a fittone, che penetra in senso verticale sino a radicarsi in profondità. Il filosofo Gilles Deleuze e lo psicanalista Félix Guattari introducono la figura del rizoma sin dalle prime pagine del libro Millepiani pubblicato nel 1980 (in anticipo rispetto alla comparsa del web) per significare, a partire da essa, un intero diagramma di posizione e movimento di pensiero. Infatti uno degli intenti è quello di delineare una modalità di pensare la superficie che si ponga in maniera alternativa rispetto alla metafisica del fondo»1.

Il rizoma è una radice che si sviluppa seguendo percorsi orizzontali e «a differenza degli alberi o delle loro radici, – scrivono Deleuze e Guattari – il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura, mette in gioco regimi di segni molto differenti e anche non-segni. Il rizoma non si lascia riportare né all’Uno né al Molteplice. […] Non è fatto di unità, ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento. Non ha inizio né fine, ma sempre un centro dal quale cresce e deborda»2

L’immagine di un organismo che non è fatto di unità ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento è oggi molto familiare: il web è fondato proprio su questo tipo di modello concettuale, sembra quasi che l’abbia inventato, invece, come abbiamo visto, è un modello che ha un’origine più antica e accompagna la storia della modernità sin dagli inizi: Darwin immagina il procedere dell’evoluzione con un andamento rizomatico, come Aby Wrburg che nel suo atlante Mnémosyne collega immagini provenienti da luoghi e tempi differenti inscrivendole in percorsi di senso sempre nuovi, rifiutando prima di tutto l’idea del progresso delle forme che si sviluppa seguendo traiettorie teleologiche, arborescenti. Ancora, Walter Benjamin quando raccoglie migliaia di citazioni e chiose per comporre i «passages» (opera filosofica rimasta incompiuta, cioè aperta) pensa seguendo un modello concettuale fatto non di unità, ma di direzioni in movimento.

Le parole di Deleuze e Guattari calzano perfettamente anche al grande Merzbau di Kurt Schwitters che in arte materializza tutte le tensioni culturali che attraversano la modernità al suo nascere e la post-modernità nel suo fiorire. Per questo, il Merzbau rappresenta uno degli archetipi su cui si fondano le pratiche creative contemporanee: modello di un’arte intesa come processo; come campo di relazioni aperte e instabili, in cui l’attività è un grande gioco di assemblaggio e bricolage; luogo-topologia di oggetti che si sviluppa con andamenti abduttivi e, appunto, rizomatici opposti al modello del progetto arborescente su cui si fonda il sapere tradizionale che Deleuze e Guattari descrivono così: «L’albero e la radice esprimono un’immagine triste del pensiero che imita il molteplice a partire da un’unità superiore, di centro o di segmento. Infatti, se si considera l’insieme rami-radice, il tronco assume il ruolo di segmento opposto per uno dei sottosistemi percorsi dal basso in alto […] i sistemi arborescenti sono sistemi gerarchizzati che comportano centri di significanza e di soggettivazione, automi centrali come memorie organizzate. I modelli corrispondenti sono tali che un elemento non riceve informazioni se non da un’unità superiore, e una destinazione soggettiva da collegamenti prestabiliti»3

Rifiutare modelli creativi in cui un elemento non riceve informazioni se non da un’unità superiore e una destinazione soggettiva da collegamenti prestabiliti, significa per Schwitters rifiutare modelli concettuali gerarchizzati (e nella Germania degli anni Trenta questi modelli sono anche politici) per scoprire dentro alla modernità un’altra forma di modernità sintonizzata su frequenze differenti, capace di guardare alla storia, al sapere, all’arte in modo eccentrico e aperto. 

Il Merzbau, dunque, è il tentativo di uscire dalla logica del sapere occidentale, dalle distinzioni tra i generi, dalle categorie chiuse, dalle classificazioni, dai sistemi gerarchizzati, dalla griglia razionalista imposta dal modello scientifico ed economico. Il Merzbau è un’opera postmoderna e anacronistica materializzatasi nell’epoca del modernismo trionfante; è un nuovo tipo di opera non perché è capace di ri-organizzare il sapere in un nuovo modello teorico compiuto – immagine che dal Rinascimento arriva fino all’avanguardia – ma perché, spandendosi da un centro dal quale cresce e deborda e aprendosi a qualsiasi possibilità è capace, finanche superando o negando la propria natura di opera, di aprire a nuove possibilità per l’azione creativa.

[N]

1 Studiculturali.it: studiculturali.it/dizionario/lemmi/rizomatica.html

2 Glilles Deleuze, Félix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Traduzione di Giorgio Passerone. Castelvecchi, Roma, 2010. p.11

3 Ivi, p.23

Un ingranaggio

Negli oggetti compresi in una collezione si addensano valori che trascendono il loro significato specifico e la loro storia particolare. Ecco perché per leggere una collezione è sempre necessario mettere in moto quello che lo storico Victor Soichita definisce un «ingranaggio intertestuale»1.

La natura del rapporto «intertestuale» che si instaura tra i diversi elementi che compongono una collezione è ciò che dobbiamo precisare meglio. Per farlo ci avvaliamo delle parole di Stoichita: «Ogni collezione presuppone un montaggio. Scegliere/mettere insieme (unico modo fatalmente ambivalente di tradurre il verbo colligere) sono le operazioni che presiedono la sua genesi. La collezione originata dalla selezione e dalla combinazione, la collezione in quanto discorso, dunque, si distingue dall’accumulazione indifferenziata, poiché viene accordata priorità assoluta all’azione dell’ordinare, del classificare. I criteri di classificazione possono andare incontro a modifiche ma non possono scomparire del tutto senza comportare l’annientamento della collezione in quanto tale. Quali che siano tali criteri, essi innescano un meccanismo seriale in seno al quale ogni elemento trova una relazione con l’insieme che lo contiene e che lo definisce»1.

Questo passo del libro dello storico rumeno chiarisce molti aspetti che stanno alla base della creazione, dell’organizzazione e della fruizione di una collezione, quale che sia la natura degli oggetti di cui è composta – quadri, bambole di pezza, farfalle, monete, figurine… Una collezione si forma raccogliendo, la raccolta non è però un’attività casuale e disordinata ma presuppone ricerca e selezione. Alla raccolta segue la classificazione, cioè l’imposizione di un ordine che, per quanto arbitrario, trasforma l’accumulazione indifferenziata di oggetti in un discorso. Quest’ordine si forma, si struttura attraverso una pratica di montaggio. Secondo il filosofo francese George Didi-Huberman il montaggio è una pratica ermeneutica, un’azione capace di estrarre senso anche dove non sembra possibile immaginarne uno. Attraverso il montaggio, immagini e oggetti possono essere messi in «risonanza» o in «dissonanza» «con altre fonti, altre immagini, altre testimonianze»; si può «mettere in movimento il molteplice», «non isolare nulla», «mettere in luce gli iati e le analogie, le indeterminazioni e sovradeterminazioni all’opera»2.

Così anche un oggetto compreso in una collezione, per essere letto deve essere messo in risonanza con gli oggetti che gli sono accanto, perché una collezione serve a tessere rapporti tra oggetti. Questa formidabile possibilità di creare collegamenti tra elementi distinti assume «valore di conoscenza»: presi singolarmente gli oggetti possono essere anche preziosi o significativi in se stessi, ma se inseriti nella dinamica di una collezione, se messi in movimento in un «ingranaggio intertestuale», assumono un senso altrimenti impossibile. Il montaggio, spiega Didi-Huberman, conduce a una «conoscenza delicata», una conoscenza, soprattutto, in cui gli elementi – siano immagini, oggetti o concetti – non sono messi tutti sullo stesso piano, in cui bisogna essere capaci di misurare, pesare, osservare ogni elemento con uno sguardo strabico, e in fondo paradossale: vedere l’oggetto per quello che è e, contemporaneamente, vederlo inscritto nel contesto o, per usare (non a caso) termini cinematografici, inquadrato in primo piano e insieme in campo lungo. Il montaggio permette quindi a chi guarda, collezionista o spettatore, di elaborare il senso, la storia e il destino di ogni singolo oggetto nel rapporto che instaura con gli altri oggetti compresi nella raccolta. Una relazione che non si esaurisce nella collezione ma che si estende anche fuori di essa, prolungandosi idealmente in altre collezioni, in altri racconti.

Il montaggio di una collezione produce quindi un racconto. La dimensione narrativa emerge sempre con forza ogni volta che ci si accosta a una collezione, grande o piccola che sia: in fondo non esiste collezionista che non muoia dalla voglia di raccontare – e raccontarsi – la storia di ogni singolo oggetto in suo possesso, e l’avventura di ogni acquisizione – un misto di ricerca e agnizione, pazienza e conquista, metodo e fortuna. Per questo, le vicende della costituzione di una collezione hanno spesso il respiro di un epos. La dimensione narrativa si esprime al suo massimo grado nel catalogo (sia stampato che orale). Con le parole di Victor Stoichita: «Nel caso di una collezione (di ogni collezione) ciò che la riflette e che in fin dei conti le conferisce coscienza di sé è il catalogo. Il catalogo è una specie di specchio; è, da un punto di vista intellettuale, qualcosa di più della collezione stessa e ha un grado di coesione e di coerenza che la collezione può conseguire se non nei sogni del collezionista. Il catalogo è il sogno di ogni collezione o, se si vuole, è la collezione come puro concetto. […] Il catalogo consiste nel dispiegare secondo un ordine (kata-logos). Nel kata-logos l’impulso strutturante prevale sull’impulso ripetitivo. Diversamente dall’inventario, strumento diacronico, il catalogo è un fatto sincronico. […] Qualunque insieme di oggetti può essere inventariato, ma una sola, limitata categoria consente (o richiede) il catalogo: la collezione»3.

La collezione esige dunque il catalogo, nel catalogo le connessioni che legano i singoli oggetti – il meccanismo interstestuale – diventano evidenti, operanti a un livello più raffinato della semplice impressione visiva. Nel catalogo la complessità della collezione non è ridotta a uno schema ma è invece messa in moto, dispiegata, e insieme spiegata nei dettagli.

«Proprietà e possesso – scrive Walter Benjamin – appartengono all’ambito del tatto, e sono in certo modo in opposizione all’otticità. I collezionisti sono persone dall’istinto tattile»4, grazie al catalogo una collezione di oggetti, di cose materiali, tattili, si trasforma anche in un fatto mentale, espandendone il perimetro e aumentandone di molto la potenzialità narrativa e filosofica.

[N]

1 Victor I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Traduzione di Benedetta Sforza. Il Saggiatore, Milano, 2013. p.110

2 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005. p. 153

3 Stoichita, Cit. p. 111

4 Walter Benjamin, I «passages» di Parigi. Edizione italiana a cura di Enrico Ganni. Einaudi, Torino 2000 e 2010. p. 216-217

Un ingranaggio

Negli oggetti compresi in una collezione si addensano valori che trascendono il loro significato specifico e la loro storia particolare. Ecco perché per leggere una collezione è sempre necessario mettere in moto quello che lo storico Victor Soichita definisce un «ingranaggio intertestuale»1.

La natura del rapporto «intertestuale» che si instaura tra i diversi elementi che compongono una collezione è ciò che dobbiamo precisare meglio. Per farlo ci avvaliamo delle parole di Stoichita: «Ogni collezione presuppone un montaggio. Scegliere/mettere insieme (unico modo fatalmente ambivalente di tradurre il verbo colligere) sono le operazioni che presiedono la sua genesi. La collezione originata dalla selezione e dalla combinazione, la collezione in quanto discorso, dunque, si distingue dall’accumulazione indifferenziata, poiché viene accordata priorità assoluta all’azione dell’ordinare, del classificare. I criteri di classificazione possono andare incontro a modifiche ma non possono scomparire del tutto senza comportare l’annientamento della collezione in quanto tale. Quali che siano tali criteri, essi innescano un meccanismo seriale in seno al quale ogni elemento trova una relazione con l’insieme che lo contiene e che lo definisce»1.

Questo passo del libro dello storico rumeno chiarisce molti aspetti che stanno alla base della creazione, dell’organizzazione e della fruizione di una collezione, quale che sia la natura degli oggetti di cui è composta – quadri, bambole di pezza, farfalle, monete, figurine… Una collezione si forma raccogliendo, la raccolta non è però un’attività casuale e disordinata ma presuppone ricerca e selezione. Alla raccolta segue la classificazione, cioè l’imposizione di un ordine che, per quanto arbitrario, trasforma l’accumulazione indifferenziata di oggetti in un discorso. Quest’ordine si forma, si struttura attraverso una pratica di montaggio. Secondo il filosofo francese George Didi-Huberman il montaggio è una pratica ermeneutica, un’azione capace di estrarre senso anche dove non sembra possibile immaginarne uno. Attraverso il montaggio, immagini e oggetti possono essere messi in «risonanza» o in «dissonanza» «con altre fonti, altre immagini, altre testimonianze»; si può «mettere in movimento il molteplice», «non isolare nulla», «mettere in luce gli iati e le analogie, le indeterminazioni e sovradeterminazioni all’opera»2.

Così anche un oggetto compreso in una collezione, per essere letto deve essere messo in risonanza con gli oggetti che gli sono accanto, perché una collezione serve a tessere rapporti tra oggetti. Questa formidabile possibilità di creare collegamenti tra elementi distinti assume «valore di conoscenza»: presi singolarmente gli oggetti possono essere anche preziosi o significativi in se stessi, ma se inseriti nella dinamica di una collezione, se messi in movimento in un «ingranaggio intertestuale», assumono un senso altrimenti impossibile. Il montaggio, spiega Didi-Huberman, conduce a una «conoscenza delicata», una conoscenza, soprattutto, in cui gli elementi – siano immagini, oggetti o concetti – non sono messi tutti sullo stesso piano, in cui bisogna essere capaci di misurare, pesare, osservare ogni elemento con uno sguardo strabico, e in fondo paradossale: vedere l’oggetto per quello che è e, contemporaneamente, vederlo inscritto nel contesto o, per usare (non a caso) termini cinematografici, inquadrato in primo piano e insieme in campo lungo. Il montaggio permette quindi a chi guarda, collezionista o spettatore, di elaborare il senso, la storia e il destino di ogni singolo oggetto nel rapporto che instaura con gli altri oggetti compresi nella raccolta. Una relazione che non si esaurisce nella collezione ma che si estende anche fuori di essa, prolungandosi idealmente in altre collezioni, in altri racconti.

Il montaggio di una collezione produce quindi un racconto. La dimensione narrativa emerge sempre con forza ogni volta che ci si accosta a una collezione, grande o piccola che sia: in fondo non esiste collezionista che non muoia dalla voglia di raccontare – e raccontarsi – la storia di ogni singolo oggetto in suo possesso, e l’avventura di ogni acquisizione – un misto di ricerca e agnizione, pazienza e conquista, metodo e fortuna. Per questo, le vicende della costituzione di una collezione hanno spesso il respiro di un epos. La dimensione narrativa si esprime al suo massimo grado nel catalogo (sia stampato che orale). Con le parole di Victor Stoichita: «Nel caso di una collezione (di ogni collezione) ciò che la riflette e che in fin dei conti le conferisce coscienza di sé è il catalogo. Il catalogo è una specie di specchio; è, da un punto di vista intellettuale, qualcosa di più della collezione stessa e ha un grado di coesione e di coerenza che la collezione può conseguire se non nei sogni del collezionista. Il catalogo è il sogno di ogni collezione o, se si vuole, è la collezione come puro concetto. […] Il catalogo consiste nel dispiegare secondo un ordine (kata-logos). Nel kata-logos l’impulso strutturante prevale sull’impulso ripetitivo. Diversamente dall’inventario, strumento diacronico, il catalogo è un fatto sincronico. […] Qualunque insieme di oggetti può essere inventariato, ma una sola, limitata categoria consente (o richiede) il catalogo: la collezione»3.

La collezione esige dunque il catalogo, nel catalogo le connessioni che legano i singoli oggetti – il meccanismo interstestuale – diventano evidenti, operanti a un livello più raffinato della semplice impressione visiva. Nel catalogo la complessità della collezione non è ridotta a uno schema ma è invece messa in moto, dispiegata, e insieme spiegata nei dettagli.

«Proprietà e possesso – scrive Walter Benjamin – appartengono all’ambito del tatto, e sono in certo modo in opposizione all’otticità. I collezionisti sono persone dall’istinto tattile»4, grazie al catalogo una collezione di oggetti, di cose materiali, tattili, si trasforma anche in un fatto mentale, espandendone il perimetro e aumentandone di molto la potenzialità narrativa e filosofica.

[N]

1 Victor I. Stoichita, L’invenzione del quadro. Traduzione di Benedetta Sforza. Il Saggiatore, Milano, 2013. p.110

2 Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto. Traduzione di Davide Tarizzo. Cortina, Milano, 2005. p. 153

3 Stoichita, Cit. p. 111

4 Walter Benjamin, I «passages» di Parigi. Edizione italiana a cura di Enrico Ganni. Einaudi, Torino 2000 e 2010. p. 216-217

Immagini tecniche

Nel libro Immagini Vilém Flusser riflette sull’importanza che queste hanno assunto nella nostra cultura. Il testo, scritto a metà degli anni Ottanta, registra l’invasione mediale e l’impatto delle immagini generate tecnicamente sui modelli di riproduzione sociale prefigurando gli odierni scenari. Flusser scrive all’alba della rivoluzione informatica, negli anni in cui si verifica un cambiamento di paradigma, in cui le immagini generate tecnicamente diventano sempre meno emissioni centralizzate (cinema, televisione, pubblicità, informazione pubblica) e cominciano ad assumere la dimensione reticolare, polverizzata e autogenerativa che conosciamo oggi. 

Per Flusser è in atto un cambiamento antropologico: «si tratta di una rivoluzione culturale la cui ampiezza noi iniziamo solo ora a intuire». L’autore esordisce definendo la natura della trasformazione imposta dal proliferare delle immagini tecniche nella cultura moderna: «poiché l’uomo, a differenza delle altre specie viventi, vive soprattutto sulla base delle informazioni ricevute, e meno su quelle ereditate geneticamente, la struttura del portatore di informazione ha un influsso decisivo sulla nostra forma di vita».

L’uomo vive grazie alle informazioni che raccoglie e trasmette, grazie a queste informazioni riesce a modificare l’ambiente adattandolo alle sue necessità. Durante la modernità le immagini sono diventate il veicolo con il quale si trasmettono le informazioni, queste sono andate a sostituirsi ai testi lineari che per secoli sono stati il supporto per la trasmissione e la conservazione delle informazioni. «Se i testi vengono sostituiti dalle immagini, noi viviamo, conosciamo e valutiamo il mondo e noi stessi diversamente da quanto facevamo in precedenza: non più in maniera unidimensionale, lineare, processuale, storica, bensì in maniera bidimensionale, come superfici, come contesto, come scena». Per Flusser dunque la nostra cultura si costruisce attraverso le immagini, come contesti, scene e noi ci comportiamo di conseguenza, non più «drammaticamente» ma come «collocati in campi relazionali»1.

Secondo Flusser «Le immagini tecniche non rappresentano qualcosa (sebbene sembra facciano ciò), bensì proiettano qualcosa. Il significato delle immagini tecniche è qualcosa progettato dall’interno verso l’esterno (è indifferente, se sia una casa fotografata o l’immagine al computer di un aereo da costruire) ed è là fuori solo dopo che è stato progettato. Perciò le immagini tecniche sono da decifrare non a partire dal significato, ma piuttosto dal significante. Non da ciò che esse mostrano, ma dal modo in cui lo mostrano»2.

Le immagini tecniche pertanto non rappresentano ma proiettano, sono emissioni di senso, Flusser disarticola così il mito dell’oggettività, dell’aderenza dell’immagine generata tecnologicamente all’oggetto a cui si riferisce. E, sempre più, le immagini tecniche non si pongono come rappresentazioni, per quanto fedeli, della realtà ma come simulazioni entro cui la realtà si dissolve. In questo evaporare della realtà dentro le immagini generate tecnologicamente si produce anche l’effetto della scomparsa delle stesse immagini nell’efficacia della simulazione: una forma silenziosa e paradossale di iconoclastia.

[N]

1 Vilém Flusser, Immagini. Come la tecnologia ha cambiato la nostra percezione del mondo. Traduzione di Salvatore Patriarca. Fazi, Roma, 2009. p. 6

2 Ivi, p. 65

Immaginazione interattiva

Negli ultimi trent’anni la rivoluzione informatica ha compiuto un radicale processo trasformazione dello spazio pubblico e personale, modificando radicalmente le dinamiche relazionali tra i singoli e tra i gruppi, definendo nuovi modelli di socialità e di narrazione di sé. I dispositivi con cui produciamo e facciamo circolare le immagini diventano ogni giorno più solubili, corporei portando a uno stato di astrazione il nostro rapporto con la realtà e con noi stessi. Su questi temi riflette Pietro Montani nel libro Tecnologie della sensibilità, cercando di costruire una filosofia – e quindi una prassi – che consenta di comprendere e magari governare questi processi di trasformazione antropologica.

Montani descrive tre tipi di immaginazione: «riproduttiva (un discorso che conserva e richiama ciò che ha conservato), produttiva (un dispositivo che ricombina, integra, progetta e configura) e interattiva (un dispositivo che incide sulla modificazione dell’ambiente facendosi guidare da ciò che vi trova o da ciò che vi trova o proietta)»1. L’immaginazione è lo strumento con il quale definiamo, conosciamo, modifichiamo e rendiamo abitabile il nostro ambiente. Gli animali non umani non sono dotati di immaginazione. L’autore fa questo esempio: gli animali non umani non scorgono, non immaginano, nel ramo flessibile, la funzione “arco” e la potenzialità dello scagliare frecce. Pertanto «la profilatura che mette a fuoco nel ramo di oleandro la possibilità di trasformarsi in un arco, in altri termini, è un prodotto di immaginazione interattiva»2

L’autore afferma che la sensibilità umana è naturalmente predisposta alla delega tecnica: «la sensibilità umana, in altri termini, è fatta in modo tale da prolungarsi spontaneamente in artefatti inorganici (protesi della sensibilità) senza, con questo, alterare la sua specificità»3. L’autore si chiede anche se ci sia «una soglia critica oltre la quale la delega tecnica […] rischia di esercitare un effetto di occultamento del carattere “misto” (un intreccio tra naturale e artefatto) […] » dentro la quale la sensibilità umana «esercita la sua attività».

Un eccesso di delega tecnica può affievolire la nostra capacità di immaginare, di produrre un dialogo con l’ambiente che ci circonda, dirottandola in «pratiche di carattere autoreferenziale»4 e subire i discorsi degli apparati che ci governano. Il superamento di questa soglia produrrebbe disturbi nella relazione tra la nostra sensibilità (all’ambiente), la nostra immaginazione (facoltà di interagire in modo creativo con l’ambiente) e il nostro linguaggio (capacità di relazionarci con l’ambiente) fino la limite di dissociare queste facoltà così interconnesse. Rischio che si intravvede nelle attuali prestazioni dei social network: ripetitivi, standardizzati, omologanti5.

Per recuperare (stimolare, eccitare, ampliare) la facoltà dell’immaginazione bisogna tornare a essere interattivi in senso pieno: per definire l’argomento l’autore utilizza la ricerca filosofica di Dewey «che pone al centro della riflessione l’interazione tra la peculiare sensibilità del corpo umano – pulsionalità, percezione, immaginazione, emozioni, senso del possibile, bisogno di condivisione – e ciò che questa sensibilità riceve, elabora e trasforma». L’ambiente che ci circonda però non è una «semplice materia da ordinare e mettere in forma (cognitivamente e operativamente)» ma è una «indeterminata e ricca molteplicità di stimoli da cui estrapolare di volta in volta le proprietà […] che fanno dell’ambiente reale un ambiente che appare disponibile proprio in quanto non è immediatamente sottomano ma oppone resistenza». L’ambiente quindi, stimola la nostra immaginazione proprio perché oppone resistenza, non solo «preserva ampie zone di irriducibilità all’azione organizzatrice»6.

Un eccesso di delega tecnica o di automazione comprime queste zone caotiche e trasforma la relazione con la complessità irriducibile del mondo a una prestazione autoreferenziale e senza imprevedibilità. Se la realtà non oppone resistenza non dobbiamo più utilizzare la nostra capacità di immaginazione (creatività) per superare gli ostacoli, risolvere i problemi, evolvere. Il progetto dei dispositivi tecnici è oggi largamente orientato in «direzione di un livellamento, di una contrazione e di una potente canalizzazione del sentire […], in una direzione prevalentemente anestetica»7. L’estensione della delega tecnica tende a comprimere la nostra esperienza immaginativa, azzerando sempre di più le zone di imprevedibilità, diventando an-estetica. La discussione sul nostro rapporto presente e futuro con le intelligenze artificiali investe precisamente questi problemi.

Montani dice che la tecnica, e l’esperienza ottimizzata che facciamo del mondo attraverso di essa, ci sta spingendo verso una sensibilità e una immaginazione non interattive ma ipomediali8. Per riattivare percorsi di senso altrimenti impossibili bisogna ritrovare auto-nomia, «vale a dire al facoltà di darsi da solo la regola della propria sensatezza, o più precisamente come manifestazione di una creatività capace di istituire in un modo originario un ambito normativo»9. Affermare la propria autonomia, come spettatori o come creativi, rispetto ai palinsesti precompilati serviti quotidianamente dalla macchina del consumo è per altro l’orizzonte, se non la soglia, in cui si sono mossi tanti protagonisti dell’arte del Novecento a partire da Duchamp e Schwitters, ed è anche ciò che molte pratiche artistiche contemporanee invitavo a fare.

[N]

1 Paolo Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva. Cortina, Milano, 2014. p. 12

2 Ivi, p. 34. Allo stesso modo, è un prodotto di immaginazione interattiva coniugare o “montare” la forma e la funzione orinatoio a quella di fontana e generare un nuova forma, una nuova funzione, partendo da due informazioni divergenti.

3 Ivi, p. 35

4 Ivi, p. 36

5 Ivi, p. 36-37

6 Ivi, p. 40

7 Ivi, p. 44

8 Ivi, p. 48

9 Ivi, p. 53

Happening Unscripted

«Unscripted: I programmi senza sceneggiatura. Sono i cosiddetti contenuti “unscripted”: reality, giochi e talent da tv tradizionale, che stanno diventando sempre più importanti anche per lo streaming. Da ormai quasi un decennio, quando un servizio di streaming vuole guadagnare mercato e nuovi spettatori punta anzitutto su una grande serie tv. Successe per la prima volta nel 2013, quando per farsi conoscere e far capire cosa ambiva a diventare Netflix investì molto su House of Cards, ingaggiando un grande attore hollywoodiano come Kevin Spacey. […] E continua a succedere, come mostrano gli investimenti e l’attesa per la serie Amazon su Il Signore degli Anelli. Negli ultimi anni, tuttavia, chi si occupa di streaming si è accorto che se è vero che certe serie fanno conquistare nuovi abbonati, tra una serie e l’altra servono anche contenuti di altro tipo, per molti versi simili a quelli della televisione tradizionale. Sono i cosiddetti contenuti unscripted, cioè quelli senza una vera e propria sceneggiatura che degli attori devono recitare. I contenuti unscripted possono essere tante cose, dal reality al documentario, dai quiz ai talent, dal talk show alla “tv della gente”. Dai programmi di cucina ai documentari di musica basati sulle interviste, dalle competizioni di drag queen alle Cucine da incubo, tra gli addetti ai lavori non tutti sono d’accordo su dove mettere esattamente i confini tra cosa è o non è unscripted […]. Come ha osservato Bloomberg: “nel tentativo di trattenere abbonati volubili e impazienti, i servizi di streaming sono in competizione per quello che si considerava essere un caposaldo della vecchia televisione, col fine di accaparrarsi varie forme di contenuti unscripted”»1.

L’articolo apparso sul Il Post mette a fuoco la natura di questi contenuti che occupano gran parte dei palinsesti della TV e ora delle piattaforme di steeaming. Si tratta di contenuti che nascono in qualche misura come autogenerati, senza una componente “autoriale” forte, con una cornice narrativa debole e un’altissima componente performativa. È un aspetto diffuso della cultura della rete e si ritrova in modo pulviscolare nei social, in cui gli utenti praticano quotidianamente una forma elementare ma non per questo meno interessante di reality show.

Il reality show fa la sua comparsa nella televisione all’inizio degli anni Novanta, si consolida come format, cioè come linguaggio, nel decennio successivo ma ha la sua origine altrove. Il format televisivo del reality è stato creato da John de Mol: «è un olandese che ha costruito una società creativa, la Endemol. […] de Mol ha al suo attivo idee come The Bus, format televisivo incentrato sulla convivenza, a cui però deve aggiungersi il nomadismo e la sopravvivenza. […] Chains of Love, un esperimento basato sul senso non metaforico del “legame”. […] Infine Big Brother: per quest’ultimo, de Mol sostiene di essersi ispirato al progetto scientifico Biosphere, un esperimento americano teso a ricercare in un ambiente chiuso le condizioni di sopravvivenza di un gruppo umano. […] Big Brother focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane, considerando come “ambiente” un gruppo ristretto di persone, cinque uomini e cinque donne. […] Il dibattito che Grande Fratello ha scatenato, in bene ma soprattutto in male, dipende dalla sua estetica. Proprio come occorre dire che il grande merito della Body Art non è consistito tanto in un recupero del corpo, ma nel “mediarne la verità tramite il video”, si può sostenere che Grande Fratello è principalmente una performance mediale: per chi sta “dentro”, in quanto tenuto a sperimentare un sistema di relazioni umane; per chi guarda da “fuori”, in quanto non può fare a meno di reagire a questa relazione»2

La performance, come genere artistico e più in generale come linguaggio, è nata negli anni Sessanta diventando un medium diffuso e transmediale nel decennio successivo, ma al di là dei dati storici è innegabile che la performance sia diventata un potente generatore di forme estetiche che poi, dal campo ristretto dell’arte d’avanguardia, si sono travasate (più o meno consapevolmente) nella vita quotidiana di milioni di persone: una piccola danza su Tik tok, un selfie, una challenge sono a tutti gli effetti delle performance, condividono cioè con la pratica artistica “classica” medesimi contenuti formali e identici obiettivi comunicativi. Il fatto più interessante è che le azioni dei milioni di utenti messe in pratica quotidianamente sui social, proprio come una performance di Vico Acconci o Marina Abramovich, non hanno come contenuto l’azione stessa ma il mediarne la verità tramite il video.

Per quanto concerne i contenuti unscripted delle televisioni e delle piattaforme e che sono, di fatto, il modello dei social network, si potrebbe definirli meglio utilizzando i parametri dell’happening, performace di gruppo formalizzata negli anni Sessanta da Allan Kaprow. Allievo di John Cage, influenzato dalle forme derivate dall’interazione casuale di elementi diversi e dalle pratiche aperte di matrice orientale del maestro, Kaprow interpreta e formalizza teoricamente la pratica dell’happening. Partendo dall’estetica cumulativa e vitalista degli assemblaggi New-Dada compie quel passaggio che dall’environment, la costruzione di ambienti e installazioni immersive (che hanno, come sappiamo, il loro modello nel Merzbau di Schwitters) porta all’happening, – letteralmente “accadimenti” – la costruzione di situazioni in cui l’arte coincide con l’esperienza che si compie, portando alle estreme conseguenze l’idea di fusione tra arte e vita. L’happening è una pratica in bilico tra teatro e performance in cui, in una cornice debole, con una bassa possibilità di controllo da parte dell’autore, il pubblico diventa parte attiva, protagonista senza copione di situazioni spesso stravaganti che sovvertono i rapporti sociali e le logiche dei comportamenti. Nell’happening c’è quindi una sorta di “messa in scena” che funziona come una cornice che stacca i suoi partecipanti dalla normalità, calandoli in situazioni imprevedibili e indefinite; così accade anche in un reality show e in ogni contenuto unscripted – una stanza chiusa a chiave, un’isola deserta, una cucina, ma anche una diretta su un social o un flash-mob in un museo – in cui, come diceva John Cage, “succede quello che deve succedere”.

Performance e happening sono quindi diventate pratiche diffuse a livello globale, nota Valentina Tanni: «Come accaduto prima per altre forme d’arte quali la fotografia e il video, anche la performance art oggi è una pratica espressiva definitivamente liberata, che cresce e muta in mano alle persone, al di fuori del mondo dell’arte, trasformandosi in un vero linguaggio. Performance selvagge del genere sono indagini pratiche sull’esistenza: esperimenti sul corpo, sulla durata, sull’identità, sul significato della comunità, sulla condizione umana. Non si tratta, nella maggioranza dei casi, di riflessioni di genere filosofico o linguistico, come accade nell’arte concettuale, quanto piuttosto di un rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta»3. Per concludere, possiamo chiosare dicendo che questo “rituale collettivo che si sviluppa attraverso la partecipazione diretta” – che è molto spesso ripetizione, emulazione: cioè copia e incolla, cioè prelievo e processo – è una forma di filosofia pratica e di creazione, per quanto inconsapevole, di una soggettività selvaggia e vitale.

[N]

1 www.ilpost.it/2022/03/13/programmi-senza-sceneggiatura-unscripted/

2 Marco Senaldi, Enjoy! Il godimento estetico. Meltemi, Roma, 2003-2006. p. 235-236.

3 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. pp. 166-167