Arte

Periferie

Ogni discussione sul fenomeno del writing, o sulla street art (almeno di quella nella sua fase aurorale o di quella non istituzionalizzata), comincia e finisce con analisi di tipo antropologico, cercando di comprendere quali siano le forze che si agitano nelle periferie e quale “disagio” sociale, economico, culturale possa produrre una tale forma di “degrado” estetico. Tali discussioni, per la maggior parte pretestuose e ideologiche, fondate su pregiudizi classisti e travisamenti di ordine storico ed estetico, sono soprattutto discussioni che avvengono dall’interno del “legame sociale”.

Secondo Marcello Faletra, tutte le azioni estetiche che si producono “sulla strada”, sfuggono o sono “in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono”: «Nella sua opera maggiore, L’institution immaginaire de la societé, Cornélius Castoriadis dimostra in che misura l’immaginario sociale istituisce e arriva a coagulare il legame sociale. All’origine della sua indagine vi è il seguente interrogativo: com’è possibile la formazione di un ordine sociale coerente – regole, rappresentazioni sociali, religioni – e dall’altro le motivazioni e le condotte degli individui, spesso contraddittorie o in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono? Per Castroriadis la chiave di questo problema risiede nell’immaginario. La società si istituisce a partire dalla creazione di immagini sociali, che legano gli uomini e danno senso alle loro azioni. La religione, le ideologie o le utopie politiche, i fenomeni culturali ed estetici, forniscono credenze comuni che strutturano il legame sociale, sono significati immaginari, che istituendosi come norma fanno nascere nelle loro periferie il “resto” non socializzato, il “residuo” marginalizzato, l’altro»1.

Ecco allora che l’analisi e la comprensione dei fenomeni che sono “in contrasto con il sistema di regole in cui agiscono” devono essere guardati – anche e soprattutto – a partire dal luogo in cui si sviluppano, incorporando nello sguardo «il “resto” non socializzato, il “residuo” marginalizzato, l’altro». Pratica quantomai complessa e rischiosa, poiché il nostro “sguardo” incorpora la nostra conoscenza e, con essa, i nostri pregiudizi.

Lo sguardo, come spiega Alessandro Dal Lago, non è mai neutro, né innocente: «Definisco lo sguardo come un sistema culturale di giudizio efficace. Sistema, perché si tratta di qualcosa di relativamente organico, dato che ha il compito di sintetizzare la nostra visione, facendone qualcosa di coerente e sopportabile. Capace di giudizio efficace, perché noi non ci limitiamo ad assistere agli eventi ma esercitiamo la pretesa più o meno consapevole di valutarli, e quindi di influenzarli. Lo sguardo non è dunque un mero apparato percettivo, come se fosse una sorta di otturatore culturale, ma un sistema di interpretazione attivo, che contiene fin da principio gli elementi essenziali di una grammatica e di una sintassi dell’azione (e dell’inazione). Diversi elementi contribuiscono a configurare lo sguardo. Pregiudizi, stratificazioni culturali, modelli cognitivi a disposizione, informazioni selettive, nonché quelle strane entità che sociologi e antropologi chiamano “valori”, ma che io chiamerei più che altro retoriche prevalenti in una cultura. Noi crediamo di vedere e giudicare con i nostri occhi, e in realtà guardiamo con i paraocchi che la nostra cultura elabora e modifica incessantemente»2. [Carnefici e spettatori. p.67]

[N]

1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmedia Books, Milano, 2015. p.108.

2 Alessandro Dal Lago, Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà. Cortina, Milano, 2012. p.67.

Collezionista

Leggiamo questo passo di Elio Grazioli :« […] modellismo a parte, il collezionista non raduna mai oggetti che si costruisce da sé. Anche per questo l’oggetto collezionistico ha un carattere particolare e la collezione è prima di tutto un modo per raccogliere e tenere insieme una forma e una logica diverse, in quest’era, potremmo dire così, post-collage e post-assemblage. Forma e logica diversa soprattutto da quelle più diffuse, quelle sociali, cosiddette “vincenti”, di ricerca del successo; forma e logica della qualità, del desiderio, del piacere e della realizzazione, piuttosto che della volontà e della rappresentazione, della finzione e del consenso; forma e logica interna e individuale, apparentemente al limite dell’arbitrario e dell’espressionismo, ma che, come l’opera d’arte, dimostra un proprio statuto di legge, di funzionamento prima e di reale validità poi, che producono bellezza e salvaguardano la necessità e il valore condivisibile»1.

Ritorna, sebbene in modo diverso, la necessità di riconoscere nella figura del  “collezionista”, il ruolo del rivoluzionario che già aveva indicato Walter Benjamin nei suoi scritti. Al pari del rivoluzionario, il collezionista rifiuta l’ordine delle cose così come è imposto dal potere vigente, così come i valori imposti dalla tradizione o dalle forme “sociali vincenti”. Ma, come sottolinea Elio Grazioli, questo sottrarsi alle logiche condivise, questa opposizione alle forme dominanti produce, «come l’opera d’arte», «bellezza, salvaguardano la necessità e il valore condivisibile». Da questa prospettiva il collezionista diventa una strana, paradossale figura di distruttore e costruttore, di oppositore dell’ordine sociale e di produttore di senso condivisibile.

[N]

1 Elio Grazioli, La collezione come forma d’arte. Johan & Levi, Milano, 2012. p. 11.

Indice per argomenti

Questo indice raggruppa le voci dell’Abecedario per argomento. Gli “argomenti” non hanno contorni stabiliti, possono (e auspicabilmente devono) intrecciarsi e, tra loro, confondersi, per questo, qualche voce può comparire in più argomenti. L’indice, come l’Abecedario, non ha una struttura fissa ed è sempre in aggiornamento.

Bricolage

Darwin bricoleur; impronta; Pensiero selvaggio; Rizoma; Strategia e tattica; Uso e consumo; Writing e street.

Collezione

Collezionare citazioni; Collezione come arte; Collezionista; Un ingranaggio; Semiofori.

Decorazione

Antidecorativo; Camp; Decorazione antagonista; Decorazione funzionalista; Decoro postmoderno; Kitsch oggi; Kitsch e ornamento; Kitsch, storia; Ornamento; Periferie.

Guardare

Una distanza; Happening Unscripted; Iconosfera; Medusa; Lo spazio delle immagini; Stadio-video; Vedere, guardare; Il vuoto; Warburg contemporaneo.

Merznow

Controcultura; Dadameme; DIY; Happening Unscripted; Medusa; Pensare, copiare; POV; Selfie; Utensili e apparecchi; Un virus; Il vuoto.

Montaggio

Benjamin, montaggio; Collezionare citazioni; Immaginazione interattiva; Immagini tecniche; Un ingranaggio; Mnemosyne; Pensare, copiare; Sapere, immaginare; Lo spazio delle immagini; Sul montaggio; Utensili e apparecchi; Warburg; Warburg contemporaneo.

Ready-Merz

Controcultura; Dada al presente; DIY; Happening Unscripted; Impronta; POV; Rizoma; Strategia e tattica; Il vuoto.

Street

Decorazione antagonista; Decoro urbano; Periferie; Sulla strada; Writing e street; Writing e tutto il resto.

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Avanguardia 2

1. Allan Kaprow

Allievo di John Cage, influenzato dalle forme derivate dall’interazione casuale di elementi diversi e dalle pratiche aperte di matrice orientale del maestro, l’artista americano Allan Kaprow interpreta e formalizza teoricamente la pratica dell’Happening. Kaprow parte dall’estetica cumulativa e vitalista degli assemblaggi New-Dada per compiere quel passaggio che dall’environment, la costruzione di ambienti, installazioni immersive (che hanno, come sappiamo, il loro archetipo nel Merzbau di Schwitters1) porta all’happening2, – letteralmente accadimenti – la costruzione di situazioni in cui l’arte coincide con l’esperienza che si compie, portando alle estreme conseguenze l’idea di fusione tra arte e vita.

«Gli environment – scrive l’artista – hanno incorporato subito l’idea di cambiamenti interni durante la loro presentazione. I normali spettatori sono diventati partecipanti attivi di questi cambiamenti. Qui la tradizionale nozione dell’artista creatore individuale (il genio) è sospesa a favore di un tentativo collettivo (il gruppo sociale come artista). L’arte è diventata variabile come il tempo. Ma gli environment non sono stati concepiti solo per integrare gli spettatori nel lavoro; essi dovevano immergersi il più possibile negli spazi reali e nei contesti sociali in cui erano collocati. Dovevano uscire dal troppo chiuso contesto dell’arte (studi, gallerie, musei) per immergersi nella natura e nella vita urbana. Ma a questo punto si sono trasformati in happening»3.

Happening

L’happening è una pratica in bilico tra teatro e performance in cui, in una cornice debole, con una bassa possibilità di controllo da parte dell’artista, il pubblico da spettatore diventa parte attiva, protagonista senza copione di situazioni (spesso stravaganti e liberatorie) che sovvertono i rapporti sociali e le logiche precostituite dei comportamenti. Nell’happening la dimensione dell’esperienza si dilata e diventa il vero centro dell’opera, il pubblico non si trova più in una dimensione separata e contemplativa e l’artista rinuncia al secolare potere di creatore individuale ed esclusivo. Nell’happening i diversi linguaggi artistici si fondono e le tradizionali distinzioni tra arti visive, musica, teatro, video, poesia, ecc. diventano irrilevanti. È una dimensione che abbandona ogni specificità mediale portando la pratica dell’arte fuori dal linguaggio e dentro la realtà. 

La pratica dell’Happening si sviluppa negli Stati Uniti e in Europa a partire dall’inizio degli anni Sessanta attraversando tutti gli anni Settanta diventando il lessico di base delle tendenze di matrice processuale (dall’Antiform a Fluxus e all’Arte Povera, dall’Azionismo al Situazionismo, fino alle escursioni della Land art). È un’espressione dello spirito di quegli anni, in cui la necessità di liberare le energie creative imbrigliate dalla società (capitalista, borghese, benpensante, patriarcale, ecc.) si fonde con le istanze di una più generale rivoluzione politica e culturale.

Pur nelle differenze di approccio e negli esiti formali a volte molto distanti c’è nelle esperienze di quegli anni un’identica necessità di verificare la vita attraverso l’arte: spesso,l’opera diventa l’azione che la genera e lo spettatore ha il compito di continuare, attraverso la propria esperienza, il processo generativo dell’opera stessa. Procedere creando eventi, situazioni, ambienti in cui l’opera e l’esperienza estetica si creano a partire da un insieme di relazioni empiriche e indeterminate – in cui i materiali, come le sensazioni sono costantemente trasformati in processi di partecipazione diretta – significa cercare un’arte in cui il mondo non è rappresentato ma vissuto. Una differenza da cui scaturisce una visione che rifiuta qualsiasi forma e verità prodotta in anticipo (ogni dogma e ogni credo) e che fa della conoscenza del reale diretta e non mediata da poteri esterni uno strumento di autocoscienza, di riscoperta poetica della vita e insieme di azione politica.

Fluxus

In questa temperie si sviluppano le tendenze processuali e antiformali che abbiamo visto declinate a partire dagli anni Sessanta nell’Antiform di Morris e compagni e nel Situazionismo di Debord e Constant. Possiamo inscrivere in questo generale surriscaldamento delle pratiche artistiche anche il movimento Fluxus4.

Obiettivo dichiarato di Fluxus è quello di far cadere ogni divisione tra le diverse forme di espressione. Nell’esperienza Fluxus teatro e danza, musica e arti visive debordano dalle cornici in un processo libero e aperto, in cui lo spettatore è chiamato in causa con un livello di coinvolgimento totale. Fluxus si presenta come un movimento in cui si materializzano tutte le tensioni culturali anticapitaliste e antiborghesi, antitecniciste e antiaccademiche di quegli anni. Fluxus parla di contaminazione, promiscuità, impermanenza dei legami linguistici e sociali. Gli oggetti estetici che produce, quando ne produce, non sono che resti, residui di eventi, accadimenti. L’opera d’arte Fluxus è una forma organica, ludica, irrazionale, poetica, incoercibile e anarchica; è la manifestazione di un evento e rappresenta per artisti e spettatori la possibilità di epifanie e scoperte altrimenti impossibili. Come nel Situazionismo gioco, spreco, inutilità, aleatorietà sono elementi che si oppongono prima di tutto alla logica capitalista del profitto, della mercificazione di ogni aspetto della vita e alla conseguente riduzione dell’esperienza in prodotto. L’Happening è naturalmente l’espressione preferita negli ambienti Fluxus e il Festival è la sua cornice naturale (il festival è, per altro, il contesto tipico per tante espressioni della controcultura del ventennio rivoluzionario).

Fluxus è una sensibilità e insieme un movimento artistico: come movimento vero e proprio nasce a New York e si coagula attorno alla figura di George Maciunas, artista americano di origine lituana, autore del manifesto programmatico. Nel 1962 a Wiesbaden in Germania, Maciunas da vita al primo festival Fluxus assieme a Nam June Paik, Wolf Vostell e altri. Il movimento trova aderenti tra le due sponde dell’oceano: tra gli Stati Uniti e l’Europa s’intesse un ricco scambio di esperienze e invenzioni. Tra gli esponenti di spicco del panorama americano ci sono Yoko Ono, Allan Kaprow e John Cage il grande precursore e innovatore a cui Fluxus e più in generale le avanguardie del secondo dopoguerra devono molte delle idee più innovative.

Il manifesto Fluxus di George Maciunas teorizza un’arte senza teoria, senza opere e senza artisti(evidente il debito con il dadaismo), consegnata al fluire del tempo, improvvisa ed effimera. La figura dell’artista abdica al controllo sui processi creativi e rifiuta il proprio potere di autore. Per questo, gli esponenti del movimento trovano nelle forme dell’happening e della performance gli strumenti più adeguati per esprimersi. Anche le arti visive, intese nel senso più tradizionale, perdono di pesantezza e staticità e cercano modelli creativi aperti e fluidi (soprattutto mail art e installazione).

John Cage e Merce Cunningham sono il motore americano del movimento, nelle loro creazioni vengono destrutturati i linguaggi classici della musica e della danza: le gabbie semantiche vengono divelte, i movimenti dei ballerini si sciolgono nei gesti quotidiani e i suoni partecipano al brusio del mondo. Nam June Paik presta attenzione a quello che circonda ogni cittadino occidentale: l’esperienza quotidiana dei mezzi d’informazione – con i suoi codici, i suoi schemi e schermi, il suo potere. Molte delle opere di Paik – considerate antesignane dell’odierna videoarte – sono lavori in cui l’immagine elettronica viene elaborata e distorta così da sabotare il flusso pervasivo di informazione che il sistema globale di comunicazione riversa ogni istante su ogni persona. La rete spettacolare e invisibile che imprigiona la verità della vita viene mostrata, resa evidente, smascherata.

L’approccio di Yoko Ono alle tematiche Fluxus fonde intuizioni surrealiste e richiami alla filosofia. Ono è autrice di performance (nella celebre Cut piece, invita il pubblico a tagliare i suoi vestiti fino a spogliarla rimanendo perfettamente impassibile) o di scritti (surreali istruzioni con cui invitava i lettori a compiere piccoli gesti poetici) di installazioni e video che trovavano nel semplice accadere la loro ragione d’essere: una specie di perfetta coincidenza tra i fatti dell’arte e i fatti della vita . Il francese Ben Vautrier sfoga la sua furia antiartistica e anarchica in un lavoro frenetico e bulimico di chiara derivazione dadaista. Vautrier inizia la propria attività creativa firmando qualsiasi cosa, con appropriazioni sistematiche di oggetti prelevati dalla realtà. E proprio la realtà diventa il teatro in cui si muove l’artista secondo cui (in perfetto stile Fluxus) non c’è distinzione tra arte e vita. L’opera diventa totale, onnicomprensiva, intrisa di una forza iconoclasta, irriverente e sbruffona e di un vitalismo sincero e contagioso.

Joseph Beyus

Attivo nell’ambiente Fluxus è anche l’artista tedesco Joseph Beyus: grande sciamano, creatore di performance sospese tra simbolismo romantico e azione diretta, in cui l’agire politico e il pensare poetico sono la medesima cosa. Il lavoro di Beyus contiene e trascende lo spirito Fluxus e più in generale l’anima di quegli anni e non smette di interrogare il nostro presente. La sua stessa biografia sprigiona un fascino inusitato. Arruolato in aviazione partecipa alla guerra, nel 1943, durante una battaglia il suo aereo viene abbattuto dai russi e precipita in una zona isolata della Crimea durante una tormenta di neve. Viene trovato morente da una tribù di tartari che per salvarlo dall’assideramento lo cospargono di grasso e lo avvolgono in coperte di feltro. Feltro e grasso saranno elementi che ricorreranno nella sua opera e ai quali legherà una profonda simbologia con la vita, la rinascita, la natura, l’energia, il calore. Il calore è l’elemento chiave dell’opera di Beyus, inteso come energia capace di riattivare quei processi vitali – umani, sociali, culturali, ecologici – irrigiditi, congelati e alienati dalla tecnica.

Dopo la guerra Beyus insegna arte ed è molto attivo politicamente, durante i movimenti studenteschi del 1968 partecipa a un’esperienza Fluxus nella sua scuola: verrà espulso nel ‘69. Sono gli anni della contestazione5 e il binomio arte-vita – la necessità di un rapporto più stretto, in cui arte e vita si confondono – è sempre al centro del dibattito. Per Beyus, come per tutti gli artisti della sua generazione, non c’è distinzione tra azione artistica e azione politica, tra rivoluzione estetica e rivoluzione sociale, tra superamento della tradizione culturale e distruzione della società classista. Beyus osserva il rapporto tra l’uomo contemporaneo e la natura, tra l’individuo e il contesto sociale in cui vive. Le sue installazioni e azioni hanno sempre un chiaro valore simbolico: sono rituali che tentano di riattivare le connessioni profonde e perdute tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, tra realtà e processi mentali, tra arte e vita.

La performance che ha reso celebre Beyus è l’esemplare “Come spiegate i quadri a una lepre morta”, inscenata a Dusseldorf nel 1965. In quell’occasione l’artista si presenta al pubblico con il folto coperto da una maschera d’oro, «il piede destro poggia su una suola di acciaio alla quale quale si sovrappone, coincidendo, un’altra suola di feltro. Dei microfoni nascosti nelle due ossa e nella suola trasmettono le frasi – incomprensibili – che l’artista mormora a quella lepre morta, amorosamente tenuta in braccio e cullata. […] “La lepre – spiega Beyus – ha un rapporto diretto con la nascita… Per me la lepre è simbolo di incarnazione. La lepre fa in realtà quello che l’uomo può solo fare mentalmente: scava dentro, scava una costruzione. Si incarna nella terra. […] L’idea della spiegazione a un animale conferisce un senso di segretezza del mondo e di esistenza che colpiscono proprio l’immaginazione. Allora anche un animale morto può avere più potere di intuizione di alcune situazioni umane di cocciuta razionalità. […] Il problema è nella parola comprensione e nei suoi molti livelli che non possono essere limitati all’analisi razionale”. Comprensione contro spiegazione, dunque»6. La performance quindi mette in scena un diverso approccio alla conoscenza, raggiunta non attraverso la “cocciuta razionalità” moderna ma grazie a una rivelazione, a un sentire. Un mettersi in ascolto che ha molto a che fare con la dolcezza e la cura (la lepre morta cullata dolcemente, le frasi bisbigliate come una ninnananna) e con la dimensione religiosa (l’iconografia della “pietà”, la foglia d’orata sul volto, il brusio che è come una preghiera, tutto rimanda a immagini di fede). In questo modo Beyus, proprio come uno sciamano, cerca di entrare in contatto con la dimensione trascendente sopita nell’anima occidentale. Un rito in cui l’arte, la più sofisticata costruzione della cultura occidentale (l’artista, ricordiamo, spiega la pittura alla lepre morta), abbandona il gelo della tecnica e torna con calore ad immergersi nel mistero della vita e della morte toccando la propria origine ancestrale, colmando finalmente il distacco tra l’arte e la vita.

Beyus è «intento a connettere diversità, di saperi e modi di sentire, nella prospettiva di una palingenesi sociale, attingendo non a una estetica della forma, che lui ripudia, ma all’estetica romantica delle potenze grandiose e elementari del cielo e della terra»7. Ecco allora che il dialogo serrato con una natura ancora non piegata agli interessi capitalistici, emerge in molte delle sue performance. La più nota è quella che lo vede nel 1974 dividere lo spazio di una galleria americana con un coyote selvaggio. In quel luogo angusto e definito, l’artista cerca di instaurare un legame intimo con un animale non addomesticabile e, per estensione, con lo spirito profondo e non corrotto dell’America. È un’azione che ha anche chiari intenti di protesta politica: Beyus si rivolge all’anima profonda degli Stati Uniti e dimostra il suo dissenso verso la politica imperialista del governo americano impegnato nella guerra in Vietnam.

Beyus si considerava uno scultore sociale, il suo progetto era quello di modellare forme nuove di socialità, di cambiare la vita attraverso l’azione artistica. Piantare alberi, pulire strade, parlare con il pubblico per ore sono le forme concrete della sua azione poetica che ha come scopo preciso quello di agire nella coscienza del pubblico per innescare un percorso di conoscenza e cambiamento. In Beyus poesia e politica, etica ed estetica, verità e bellezza sono perfettamente coincidenti.

Mail art

Mail art: un network globale – in deciso anticipo sul nostro network globale reso possibile dall’informatica – in cui artisti di tutto il mondo si scambiano manufatti e informazioni senza alcuna mediazione da parte del sistema dell’arte (gallerie, mercanti, collezionisti, critici). In quegli anni gli artisti usando la posta possono, a costi molto contenuti, entrare in contatto con un grande numero di persone, scambiarsi disegni e piccoli oggetti, intessere relazioni. Progressivamente lo scambio diventa sistematico e interessa migliaia di persone di ogni paese e si trasforma in una nuova forma culturale. La mail art rappresenta la conquista da parte dell’arte dello spazio reale della vita, è un’arte che si sottrae alla logica del mercato e fa della comunicazione tra soggetti il suo motore. È un’arte povera, che consiste in lettere e cartoline scambiate senza lucro dai partecipanti al network; è democratica perché ogni persona può accedere alla rete; è contagiosa, libera, aperta e informale. È una forma d’arte che tende a eliminare la figura dell’autore e a lambire i territori dell’attivismo politico intransigente quanto quelli dell’hobbismo più scanzonato.

Stewart Home in Assalto alla cultura scrive: «Negli anni Sessanta, mentre molti cultural workers stavano lasciando la produzione di oggetti d’arte per l’agitazione politica violenta, altri entravano nei reami della non-arte. Fluxus è l’esempio più noto e più emblematico di questa tendenza. La mail art (arte postale) poté svilupparsi grazie al clima liberamente creato dall’assalto dei fluxworker alla cultura egemonica. Anzi, il network della mail art conta molti esponenti Fluxus tra i suoi primi partecipanti. Anche se Ray Johnson, considerato da molti il padre fondatore della mail art, non entrò mai in Fluxus, il suo lavoro è – esteticamente parlando – molto vicino a quello del gruppo»8.

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1 «Schwitters fu anche uno scrittore e un attore e ottenne grande successo leggendo le sue poesie. […] È quindi abbastanza naturale che egli abbia pensato anche al teatro. […] A proposito della “composita opera d’arte Merz” o Teatro Merz, Schwitters scrisse: “In contrasto col dramma o l’opera tutte le parti del lavoro teatrale Merz sono inseparabilmente unite: il teatro Merz non può essere scritto, letto o ascoltato, ma soltanto realizzato scenicamente. […] Il teatro Merz conosce soltanto la fusione di tutti gli elementi dell’opera in un tutto composto“. Come si vede il brano di Schwitters sembra descrivere certi aspetti degli happening e l’attività dell’artista, che pure non ha mai prodotto un esempio concreto di Teatro Merz, resta a documentare il progredire della pittura verso il collage, l’environment e lo happening». Michael Kirby, Happening. Traduzione di Anna Piva. De Donato, Bari, 1968. p. 31.

2 «Uno dei numeri dell’annata 1959 della rivista letteraria “Anthologist” […] presentava un articolo di Allan Kaprow, che allora insegnava storia dell’arte all’università, ed era intitolato Il Demiurgo. Verso la fine di un breve saggio in cui veniva sottolineata la necessità per un artista di creare qualcosa di completamente nuovo […] Kaprow aveva inserito uno scritto che poteva a prima vista esser preso per un lungo poema. L’intestazione del brano diceva “Qualcosa deve succedere: un accadimento”, e si riferiva al “copione” di una rappresentazione abbastanza insolita. In questa occasione la parola happening venne con ogni probabilità applicata per la prima volta a una forma di teatro». Ivi, p. 82.

3 Kaprow citato da Francesco Poli in AAVV, Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi. Mondadori Electa, Milano, 2008. p. 104.

4 «Fluxus nasce a New York, a Manhattan, nel quartiere mitico della città bassa: SoHo. Nasce dalla conoscenza e dall’amicizia tra persone con vari interessi professionali e artistici – dalla musica alla letteratura, dal teatro alla danza, dalle arti visive ai nuovi media […]. Secondo Peter Frank il 1958 è “l’anno cruciale”», perché nell’estate di quell’anno si incontrano per la prima volta Allan Kaprow, Dick Higgins, Jackson McLow, Richard Maxfield, Al Hansen e George Brecht: tutti allievi di John Cage alla New York School [..]. La New York della fine degli anni Cinquanta e dell’inizio degli anni Sessanta è eccitante, attiva ed è un centro artistico impegnato, pieno di artisti e autori di varie professioni. […] Un territorio bollente, invaso dalla libertà artistica e da un costante susseguirsi di mostre, di performance, di eventi, di teatro, di happening, tra cui alcune delle prime performance più vicine a Fluxus: quella di La Monte Young, nel dicembre del 1960, e quella di Yoko Ono, nel gennaio del 1962. La galleria A/G viene fondata nel 1961 dai due lituani George Maciunas e Almius Salcius e diventa il centro dove si radunano gli artisti favorevoli ai fluxus-events. Nella ex classe di John Cage Maciunas ha conosciuto La Monte Young e, attraverso di lui, anche Yoko Ono». Biliana Tomic, Annotazioni su Fluxus. In Achille Bonito Oliva, (a cura di) Le tribù dell’arte. Skira, Milano, 2001. pp. 230-2301.

5 Gli anni Sessanta segnano l’emergere e il deflagrare dei conflitti sociali cresciuti in seno alla modernità. Come detto, l’idea di rivoluzione è intessuta nella trama stessa del capitalismo e, periodicamente, riemerge in forme sempre diverse ma in fondo simili. Il capitalismo, per funzionare, crea diseguaglianze, le spinte rivoluzionarie rinegoziano le posizioni degli individui, delle classi, delle generazioni nel teatro sociale. Il ’68 è l’anno in cui le tensioni che attraversano le società occidentali da un decennio vengono allo scoperto. Come scrive Guy Debord «La società moderna, che fino al 1968 passava da un successo all’altro e si era convinta di essere amata, ha dovuto rinunciare da allora a questi sogni; preferisce essere temuta. Sa bene che la sua aria innocente non tornerà più». Guy Debord, La società dello spettacolo. Traduzione di Paolo Salvadori. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008.p. 243.

6 Gianni Pozzi, Figure del dono. Dispendio, reciprocità e impegno nella pratica artistica contemporanea. Pisa University press, Pisa, 2014. pp.207-208.

7 Ivi, p.222.

8 Stewart Home, Assalto alla cultura. Le avanguardie artistico-politiche: Letterismo, Situazionismo, Fluxus, Mail art. Traduzione di Luther Blissett. Shake edizioni, Milano, 2010. p. 87.

2. Arte povera

Come già accennato, durante gli anni Sessanta anche in Europa, sebbene in uno scenario più articolato, si sviluppano poetiche analoghe a quelle dell’Antiform statunitense. Se in Germania queste tensioni si catalizzano attorno alla figura di Joseph Beyus e al movimento Fluxus, in Italia prendono corpo nel movimento dell’Arte povera. La vita, nella sua piena flagranza e verità, fa irruzione anche nella scena artistica italiana grazie al lavoro degli artisti che il critico Germano Celant ha raccolto nel 1967 sotto l’etichetta divenuta canonica di Arte Povera.

È interessante notare come in questi anni il termine “lavoro” entri nel lessico artistico in sostituzione della parola opera: l’opera d’arte, trasformata in un processo in cui l’esito finale è meno importante del percorso che l’ha resa possibile assume anche il nome di quello stesso processo: lavoro. Inoltre, in un momento politico di forte contestazione antiborghese, designare l’opera d’arte con il termine lavoro significa toglierle la patina idealista e demitizzarla, sottrarla al controllo delle élite culturali, renderla aperta, accessibile, democratica.

Nell’Arte povera emerge la sensualità tipica dell’arte italiana: è un’arte fatta di materiali caldi e di processi morbidi che non si produce nelle rotture ma piuttosto negli scambi; un’arte che considera il mondo nella sua totalità come materia e «in particolare i suoi elementi primordiali, quali aria, terra, acqua e fuoco» (Celant); un’arte che non crede nel singolo oggetto estetico, ma nel processo cognitivo e si fonda sul divenire della materia. L’Arte povera è fatta di esperienze processuali che hanno un forte carattere vitalistico ed esistenziale: gesti semplici, essenziali su materie grezze presenti in natura presentate in un rapporto dinamico, empatico e aperto con materiali industriali o tecnologici e con sedimentazioni politiche e culturali.

L’artista è colui che organizza un nuovo tipo di rapporto con le cose, produce fatti magici, si accosta agli elementi portando alla luce le conflittualità sepolte o latenti, s’immerge nell’ambiente, ecologico ma anche sociale, confondendosi in esso, attinge alla verità del dato naturale per confutare la falsa verità dello spettacolo mediale1.

Scrive Angela Vettese: «“Aiutare a liberare e a comprendere. Sennò che senso può avere un quadro?” Così rispondeva Jannis Kounellis a Carla Lonzi che, tra le righe, gli poneva la domanda di rito: quale funzione rimaneva negli anni Sessanta alle arti visive, di fronte alla proliferazione di immagini che erano state realizzate da altre categorie professionali? Pensiamo naturalmente a ogni forma di comunicazione pubblicitaria, ma anche alle etichette dei prodotti che ormai stavano allineati negli stores, all’invasione dei rotocalchi a colori, alla ripresa su scala allargata del libro e dell’enciclopedia illustrati, ai poster che occhieggiavano dei muri delle camere dei ragazzi. Allora, cosa poteva fare un artista così assediato e privato del suo ruolo secolare, quello di depositario della creazione di immagini, proprio mentre queste ultime andavano assumendo un potere grazie alla loro riproducibilità, senza alcun precedente storico? L’epoca d’oro della produzione industriale pesante, quella fondata sul prodotto, era finita all’alba del dopoguerra. Era iniziata quella delle battaglie sul mercato a colpi di seduzione, cioè di comunicazione soprattutto visiva. Inutile, per l’arte, porsi in competizione. Meglio agire con l’eleganza di una guerriglia distaccata: assume l’immagine di massa come soggetto per una riflessione elitaria, o altrimenti dimenticarla del tutto, dimenticare l’attitudine dell’arte a dare luogo a delle immagini: essa può soltanto suggerire dei vissuti»2.

Nel lavoro degli artisti dell’arte povera è evidente il rapporto conflittuale con l’immagine che domina la società dello spettacolo, diventata rapidamente il “simulacro” della realtà che vuole rappresentare: in cui realtà, verità e valore non sono coincidenti, in cui anzi la realtà si dissolve nel simulacro dell’immagine spettacolare3. Tornare alla pienezza della verità del dato naturale, investire tutta la propria energia di artista e di spettatore, nella riscoperta (non mediata dal “codice” del simulacro) del valore dell’esperienza diretta e “meravigliante” della natura, significa appunto minare il potere delle immagini spettacolari e, in ultima istanza, il “potere” che si esprime attraverso le immagini.

Jannis Kounellis, forse il più emblematico artista di quest’area, concentra la propria attenzione sulle materie naturali, sulla loro consistenza biologica esaltandone le qualità intrinseche: pietra e metallo, carbone e caffè, animali vivi e cotone diventano dati di ineludibile verità che innescano un rapporto conflittuale e virtuoso con la storia e la memoria, con il presente e le sue dinamiche politiche e sociali. Giovanni Anselmo, affascinato dalle forme energetiche pure, mette nelle sue sculture elementi differenti in un forte stato di tensione, crea equilibri instabili fatti di torsioni, scivolamenti, attriti. Una scultura che contraddice l’immagine classica, immobile e immanente della materia, per produrre continui slittamenti e vibrazioni di forze contrastanti. In Pier Paolo Calzolari il dialogo, e il conflitto, avviene sempre tra sostanze organiche e inorganiche, oggetti d’uso e pezzi di natura. Forze elementari come caldo e freddo sono continuamente attivate e messe in un rapporto dinamico e irrisolto. Luciano Fabro ricerca nuovi rapporti con le qualità della materia, messe in costante relazione non soltanto con le peculiarità fisiche ma anche con le sedimentazioni storiche. Fabro lavora sulle nuove configurazioni che le qualità plastiche dei materiali possono assumere grazie a uno sguardo poetico. Mario Merz è forse il più concettuale del gruppo: lavora con materiali vergini – vegetali, minerali, biologici – integrandoli a elementi moderni e tecnologici e a riferimenti storici e simbolici. Le sue opere hanno spesso un respiro teatrale: forme archetipe come igloo e spirali o animali arcaici (coccodrilli, iguane), elementi simbolici come i numeri della successione Fibonacci (richiamo all’energia intrinseca a ogni materia e emblema della vita organica), intrecciano rapporti serrati con elementi contemporanei (il neon) e politici (giornali). Marisa Merz porta nel gruppo una sensibilità squisitamente femminile, il suo lavoro fatto di intrecci e sovrapposizioni di materiali duttili e fluidi – paraffina, cera, acqua, argilla – racconta di scambi morbidi e aperti, di strutture capienti e plastiche, di equilibri biologici mai cementati in una forma definitiva ma tenuti in uno stato di perenne mobilità. Giuseppe Penone, affascinato dalla natura ne esplora le forme indagando empiricamente le relazioni tra l’ambiente naturale (con i suoi tempi lunghi e le energie invisibili) e il corpo, partendo dal proprio per arrivare a quello degli spettatori. Le sue opere nascono spesso da un rapporto di simbiosi tra la realtà umana e quella naturale. Penone si mette in ascolto del fremere della natura e, con attenzione e rispetto, ne interroga poeticamente la vita profonda. Michelangelo Pistoletto indaga il rapporto tra realtà e finzione, nei suoi celebri specchi mette lo spettatore in una condizione di relazione instabile tra quello che vede e quello che è rappresentato: la percezione di se stessi e dell’altro diventa un processo aperto e indefinibile – dallo spazio immutabile della rappresentazione a quello instabile della vita. È proprio il concetto di relazione ad essere centrale nel lavoro di Pistoletto, relazione tra la storia e il consumo del presente (come nella Venere degli stracci) o tra gli spettatori quando chiamati ad interagire in ambienti modificati in modo da imporre o suggerire nuove dinamiche nei rapporti. Tutta l’opera di Gilberto Zorioruota attorno all’idea di energia, un’energia che scaturisce dal profondo della materia, nel contatto deflagrante tra le cose. Il rapporto con la materia del mondo avviene in un territorio alchemico, quindi antiscientifico: elementi biologici e tecnologici si mischiano in forme imprevedibili, simboleggiate da figure ricorrenti (il crogiolo, il giavellotto, la stella) che trovano nella capacità di trasmettere energia il loro punto di contatto. 

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L’ambiente artistico e culturale italiano negli anni Sessanta e Settanta è ricco e sfaccettato, impossibile da ridurre all’esperienza, se pure di rilievo mondiale, dell’Arte povera. In quegli anni il bel paese ritrova le energie per diventare uno dei luoghi culturalmente più all’avanguardia del mondo occidentale, non solo in arte, ma anche nel cinema, in poesia e letteratura, nel design, nell’industria. Fioriscono molte esperienze che lambiscono i territori dell’Arte povera appena descritti percorrendo però traiettorie diverse e personali. Esperienze che, proprio per la loro eccentricità rispetto ai temi dominanti nel dibattito italiano ed europeo, hanno aperto a soluzioni che oggi, retrospettivamente, si possono considerare come antesignane della sensibilità contemporanea. Nel lavoro di Pascali e Boetti soprattutto – per l’approccio ludico e aperto agli slittamenti transculturali, per l’attenzione alle forme di relazione che generano gli oggetti e che da questi sono generate – si scorgono i germi di quelli che quarant’anni dopo sarebbero divenuti argomenti generali. Non è un caso che oggi un museo di arte contemporanea, o una grande collezione, non possa dirsi completa se tra il suo patrimonio manca un pezzo di Boetti o di Pascali.

Pino Pascali segue un suo originale percorso, purtroppo brevissimo (la prima mostra è del 1965, morirà tre anni dopo in un incidente stradale). Nel suo immaginario si muovono oggetti anomali, sospesi tra la necessità di verità imposta dal clima culturale dell’Arte povera e uno speciale rigoglio pop. Figure riprodotte con materiali industriali che emulano il biologico, si affacciano su un palcoscenico in cui con ironia si demistificano i simboli del moderno. Pascali ha uno sguardo critico verso le forme di potere e usa il gioco, il brivido che viene dalla sorpresa e dall’eccitazione, per neutralizzarne la forza. Le sue macchine da guerra si trasformano in megagiocattoli e gli animali mostruosi in abnormi pupazzi. Niente in Pascali è come sembra: la rigidità si trasforma di morbidezza, l’orrido in divertente, la violenza in gioco (e viceversa): allo spettatore è consegnata la libertà di vedere in una luce completamente nuova le forme della storia e della vita.

Alighiero Boetti è l’artista verso cui le nuove generazioni guardano con più attenzione per la libertà espressiva che travalica ogni precetto ideologico; per la purezza e la spontaneità di un’ispirazione che sgorga nella relazione con il mondo; per la voglia di scoprire nuovi territori, geografici ma anche poetici; per la duttilità espressiva e la capacità di manipolare qualsiasi linguaggio, dal disegno all’arazzo, dalla mail art all’installazione. Alighiero & Boetti (come si firmava, con un depistante sdoppiamento di personalità) guarda alla vita quotidiana con incanto e ironia; indaga il linguaggio con il quale classifichiamo il mondo; il tempo con cui sezioniamo l’esperienza; la storia e la geografia con cui semplifichiamo la vita e gli altri modelli culturali. Quei linguaggi, quei modelli che la burocrazia e il potere, il capitale e la scienza usano per condizionarci e sottometterci e che utilizziamo più o meno consciamente per comprendere il mondo, diventano in Boetti gli obiettivi di una strategia di liberazione.

Boetti utilizza tecniche ludiche: alfabeti infantili, processi artigianali, antimeccanici e antiartistici (quello artistico è un altro dei linguaggi da demistificare), si muove con leggerezza tra i segni rifiutando ogni forma precostituita mettendo al centro del proprio lavoro l’esperienza e la relazione complessa con gli altri. Anche la scelta di essere in due, Alighiero & Boetti, rende evidente il desiderio di sottrarsi a ogni definizione classificatoria e di poter trovare, anche nelle contraddizioni, forme inedite di libertà.

Giulio Paolini ha un approccio filosofico al fare artistico che lo ha spesso avvicinato, più che alla sensibilità processuale e poverista, all’algido territorio del concettualismo anglosassone. Tuttavia, il suo analizzare l’arte con gli strumenti dell’arte è troppo intessuto di una forza poetica sua propria per essere schiacciato su definizioni precostituite. Sofisticato, elegante, elusivo Giulio Paolini intesse con lo spettatore complessi giochi di sguardi, rimandi, citazioni. In continue ricombinazioni di elementi formali prediletti (la tela bianca, i calchi di sculture classiche, le citazioni colte, gli echi mitologici) l’artista allestisce un proprio teatro in cui i meccanismi con cui si formano le immagini sono continuamente mostrati e celati, dichiarati e taciuti.

In Claudio Parmiggiani il rapporto con la storia – l’assunzione del tragico custodito nella storia – diventa il motore di una ricerca che s’immerge nell’abisso racchiuso nelle immagini, nelle zone d’ombra del tempo e della memoria. L’avventura artistica di Parmiggiani, nutrita di ricordi personali e di suggestioni letterarie, ha una forza visionaria che trascina lo spettatore in una dimensione intessuta di lirismo, in cui la logica e il raziocinio cedono il passo a inaspettate epifanie. Hans Blumenberg, nel libro Naufragio con spettatore, inventa la metafora di colui che, al sicuro sulla riva del mare, osserva il naufragio della nave in lontananza, una metafora in cui «si riflette l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla vita e alla storia: il bisogno di sicurezza e il gusto del rischio, l’estraneità e il coinvolgimento, la contemplazione e l’azione». Ed è proprio sulla riva, dinanzi al naufragio della storia che ci pone l’opera di Parmiggiani, e ci interroga con la sua forza misteriosa.

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9 Così Celant nel 1969: «Animali, vegetali e minerali sono insorti nel mondo dell’arte. L’artista si sente attratto dalle loro possibilità, fisiche, chimiche, biologiche, e riinizia a sentire il volgersi delle cose del mondo, non solo come essere animato ma come produttore di fatti magici e meraviglianti. L’artista-alchimista organizza le cose viventi e vegetali in fatti magici, lavora alla scoperta del nocciolo delle cose, per ritrovarle ed esaltarle. Il suo lavoro non mira però a servirsi dei più semplici materiali ed elementi naturali per una descrizione o rappresentazione della natura; quello che lo interessa è invece la scoperta, la presentazione, l’insurrezione del valore magico e meravigliante degli elementi naturali. L’artista si confonde con l’ambiente su di esso non esprime un giudizio, non cerca un valore morale o sociale, non lo manipola: lo lascia scoperto ed appariscente, attinge alla sostanza dell’evento naturale». Citato in Pier Paolo Pancotto, Arte contemporanea: dal minimalismo alle ultime tendenze. Carocci, Roma, 2010. pp. 27-28.

10 Vettese, in Anna Detheridge (a cura di), Gli anni Sessanta. Le immagini al potere. Edizioni Mazzotta,  Milano,1996. p.57.

11 La nozione di simulacro verrà elaborata nel 1976 da Jean Baudrillard nel celebre testo “Lo scambio simbolico e la morte”: «Tre ordini di simulacri si sono succeduti dopo il Rinascimento, parallelamente alle mutazioni della legge di valore: La contraffazione è lo schema dominante dell’epoca classica, dal Rinascimento alla rivoluzione industriale. La produzione è lo schema dominante dell’era industriale. La simulazione è lo schema dominante della fase attuale retta dal codice. Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore». Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte. Traduzione di Girolamo Mancuso. Feltrinelli, Milano, 1990. p. 61.

3.Earth work e Land art

Abbiamo già visto come il tentativo di portare l’arte a diretto contatto con la vita abbia indotto molti artisti ad abbandonare i luoghi classici di creazione ed esposizione. L’atelier, la galleria, il museo si fanno sempre più angusti e limitanti. Già negli anni Venti i dadaisti, e poi sulla loro scia i surrealisti, compiono le prime azioni in cui l’atto stesso di percorrere lo spazio è considerato un gesto artistico. Per i situazionisti, questa scoperta diventerà il modello di una appropriazione dello spazio urbano e sociale operata in maniera imprevedibile, rivoluzionaria e giocosa.

Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta tra le due sponde dell’oceano Atlantico, in parallelo con la nascente sensibilità ecologica (in reazione ai violenti processi di industrializzazione e inurbamento in atto e nella consapevolezza del loro devastante impatto sull’ambiente naturale e umano), una generazione di artisti fa dell’azione diretta sul territorio l’elemento fondante dei proprio pensiero. L’ambiente non è più lo scenario in cui collocare opere, diventa l’opera. La Land art1 agisce quindi al di fuori delle cornici tradizionali e si trasferisce nel territorio, dentro al paesaggio, dando vita a opere su vasta scala che uniscono scultura e architettura, performance e installazione e agiscono in maniera spesso spettacolare negli ambienti. Il rapporto con lo spazio deputato del museo e della galleria è definito su basi completamente diverse e anche la stessa appartenenza a un genere dell’opera deve essere ripensato: «Le opere venivano realizzate direttamente sul posto, con problematiche nuove e peculiari. Si trattava di scultura, architettura o paesaggio? Quando la critica d’arte americana Rosalind Krauss coniò lo slogan “sculpture in the expanded field” (scultura in campo espanso) aveva in mente proprio questa disorientante compenetrazione di categorie dell’arte»2.

Le opere che questi artisti lasciano sul territorio sono spesso effimere, sono interventi che si pongono l’obiettivo di organizzare il caos, contenere l’entropia, riscrivere, entro strutture leggibili, decodificabili e attraversabili, l’infinito trasmutare della Natura. Specialmente nelle esperienze statunitensi gli interventi vengono attuati in territori selvaggi e deserti, in luoghi industriali dismessi o in zone urbane periferiche, e con l’ausilio di scavi, accumuli, modificazioni meccaniche anche invasive. Tuttavia, gli artisti che lavorano sul territorio sanno bene che ogni loro opera è destinata a essere riassorbita dalla natura, che ogni segno è impermanente e labile e che, anche a distanza di poco tempo, andrà a scomparire, insomma: è il momento di un processo. Per questo, la parte documentaria – studi preparatori, fotografie e filmati, testimonianze e racconti – diventa elemento integrante del lavoro. La natura rientra necessariamente in possesso del suo luogo e l’artista si accontenta della traccia mnemonica del suo intervento e dell’esperienza ha prodotto in se stesso e sugli spettatori.

Alla fine degli anni Sessanta Robert Smithson compie i suoi primi tour nella periferia industriale della città e documenta con fotografie e scritti tutti quei manufatti a bassa intensità architettonica – condutture, recinzioni, scavi, ponti, impianti – in cui la mano dell’uomo si confonde e mimetizza con l’ambiente. Tutto il suo lavoro successivo sarà un confronto continuo tra l’artefatto umano e l’elemento naturale, tra il conflitto e l’osmosi di queste due dimensioni così intimamente interconnesse. Nel suo lavoro la dimensione urbana, costruita e progettata, affronta – spesso dissolvendosi in essa – la dimensione naturale. La sua attività si evolverà negli anni Settanta verso dimensioni ecologiste, la sua opera più celebre, la grande spirale (ormai quasi completamente riassorbita dall’acqua) nasce appunto dal tentativo di costruire un rapporto virtuoso tra l’attività dell’uomo e la natura.

«Gli strati del terreno sono un museo illimitato. Sepolto nei sedimenti vi è un testo che evade l’ordine razionale e le strutture sociali che limitano l’arte. Per leggere le rocce bisogna essere coscienti del tempo geologico e degli strati di materiali preistorici che sono depositati nella crosta terrestre». Robert Smithson 1968

Come Smithson anche Michael Heizer produce le proprie opere intervenendo nello spazio naturale con modificazioni anche spettacolari. Gli scenari che predilige sono i luoghi selvaggi e romiti, in questi spazi deserti e privi di presenza umana l’artista introduce segni primordiali e ciclopici, con forti richiami all’immaginario megalitico (Nazca, Stonehenge, Knowth) in cui gli elementi che segnavano il terreno avevano funzioni simboliche e non funzionali (forse). Il rapporto con la tecnologia – elemento indispensabile per produrre lavori di questa portata – è accettato e risolto: l’arte diventa proprio quell’elemento dinamico capace di estendere il campo di interazione tra sfera tecnoscientifica ed ecosistema naturale e, per estensione, tra mondo moderno e sapere arcaico.

Lo stesso discorso può essere fatto per gli interventi che in quegli anni ha prodotto Walter De Maria, autore del celebre campo di fulmini, un complesso dispositivo installato nel deserto capace di attirare i fulmini: un lavoro per metà scientifico (per produrre il suo intervento De Maria ha dovuto elaborare nozioni fisiche, ambientali e meteorologiche) e metà sciamanico e magico (richiamare e manifestare energie naturali).

Allo stesso modo gli interventi su vasta scala di Dennis Oppenheim agiscono negli ambienti sfruttando conoscenze attinte da discipline differenti. Oppenheim utilizza segni spesso macroscopici e fortemente astratti in contesti naturali: le stranianti invenzioni visive così ottenute – effimere quanto radicali: segni tracciati nel deserto con le fiamme – si trasformano in esperienze magiche originali. L’intervento umano si trasforma e sublima così in in apparizioni quasi soprannaturali (tutto il lavoro successivo dell’autore farà della sorpresa e dello straniamento un punto focale).

Diverso è l’approccio dell’inglese Richard Long per cui l’opera consiste nell’attraversare dei luoghi e osservare le modificazioni leggere e effimere che il suo passare, la sua vita, impongono al paesaggio. L’oggetto artistico è l’esperienza stessa. Long sceglie per le sue azioni luoghi spesso impervi e solitari, interviene con gesti dolci e sensibilissimi generati dal rapporto con lo spazio naturale stesso – tracciare una linea su di un prato con il solo camminare, spostare dei sassi per formare una figura: gesti effimeri dei quali resta memoria soltanto nella documentazione fotografica. Nei lavori di Long c’è sempre una dimensione di lontananza, scoperta e incognito che è speculare a un’idea di inabissamento interiore, meditazione, scoperta di sé.

Gesti semplici e effimeri ma pregnanti, perché scaturiscono da un approccio con la natura e con l’agire artistico centrato su una consapevolezza spirituale, quasi religiosa, un approccio che si oppone apertamente all’idea del consumo (anche della natura) superficiale e irriflessivo che domina la cultura contemporanea. Allo stesso modo, gli interventi che Long opera al chiuso, costruendo forme elementari (cerchi, spirali, linee) con materiali naturali sono ugualmente effimeri e generati da un rapporto con gli elementi (pietre, fango, zolle, impronte) tanto semplice, quanto intimo e poetico e diretti alla ricerca di una dimensione capace di evocare un tempo pre-umano, ancestrale.

Come e più di Long Hamish Fultonfa del camminare lo strumento della sua espressione. Fulton radicalizza la dimensione nomade che rimane sullo sfondo di molte delle esperienze dell’avanguardia europea di quegli anni (dalle visoni di Constant al cinema di Herzog – esemplare in questo senso è il libro Sentieri nel ghiaccio).

Le sue esplorazioni hanno un approccio decisamente più politico e sociale di quello di Richard Long: Fulton attraversa i territori annullando le frontiere, le dogane e i passaporti, i confini imposti dal potere, restituendo così lo spazio all’esperienza personale. I suoi percorsi sono meticolosamente registrati e diventano il punto di partenza per una nuova elaborazione concettuale: con fotografie, grafici e testi il territorio, e ciò che questo contiene, è raccontato da una prospettiva completamente nuova. Camminare, nell’era della macchina, dell’annullamento o stravolgimento del rapporto tra spazio e tempo, può diventare anche un gesto di consapevolezza politica, una prassi rivoluzionaria. Queste esplorazioni da personali e solitarie possono quindi diventare esperienze collettive e sociali, in cui i corpi si ritrovano ricontestualizzati e rinarrati in pratiche che coniugano apertamente suggestioni simboliche e rituali a manifestazioni politiche.

[N]

1 «Land art è il titiolo del film di Gerry Schum (1969) che documenta i lavori di Michael Heizer, Walter De Maria, Robert Smithson, Dennis Oppenheim e degli europei Richard Long, Barry Flanagan, Marinus Boezem. Con questa etichetta (ma anche con quella di Earth Works, titolo di una mostra tenutasi alla Dwan Gallery di New York nel 1968) vengono definite quelle esperienze artistiche che, a partire dal 1967-68, vanno al di là dei confini deputati delle gallerie e dei musei, e anche delle aree urbane, intervenendo direttamente nel territorio naturale. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare di questa tendenza ha luogo negli Stati Uniti dove gli artisti sono affascinati, in particolare, dagli immensi spazi incontaminati come i deserti, i laghi salati, ecc.». Francesco Poli, Minimalismo Arte Povera, Arte Concettuale. Laterza, Bari, 1995. p. 1212 2 Michael Lailach, Land art. Traduzione di Tania Calcinaro. Taschen, Colonia, 2007. p. 7

Avanguardia 1

1 Piero e Yves

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo maturano in Italia e in Europa proposte che, in opposizione alle tendenze espressioniste calde, quali l’informale, spostano i linguaggi dell’arte verso la riduzione formale e il raffreddamento emotivo. È un tratto che accomuna percorsi di artisti, anche molto diversi tra loro, che operano negli ambienti neo-razionalisti dell’arte programmata, in Italia è emblematica la figura di Francesco Lo Savio, incompreso antesignano di una visione concettuale e analitica dell’arte.

In questa temperie appaiono due artisti, Piero Manzoni e Yves Klein, per i quali deve essere fatto un discorso a parte: reinterpretando in maniera originale la lezione di Duchamp (approccio concettuale, ironia destrutturante, critica alle forme e ai consueti rapporti di forza tra autore, opera, pubblico) e comprendendo meglio di altri le istanze del tempo presente, anticipano con intuizioni formidabili molti dei problemi che troveranno sviluppi nelle direzioni più interessanti e radicali della frontiera concettuale e azionista. Manzoni e Klein partono da un’analisi della condizione fisica e spirituale dei cittadini del mondo dominato dalle merci: un mondo che bisogna demolire e riempire di nuovi significati. Entrambi sono alla ricerca di una forma pura, assoluta, una forma capace di trascendere i limiti imposti dalla materia e quindi dalle convenzioni culturali e dalle rigidità del mercato; entrambi perseguono un rinnovamento profondo degli strumenti espressivi e soprattuto del ruolo dell’artista.

Piero Manzoniè attivo negli ambienti dell’arte programmata e del gruppo Zero, è amico di Enrico Castellani e vicino al maestro di questa generazione di artisti, Lucio Fontana. Con loro condivide una visione progressista della pratica artistica e una vocazione alla riduzione formale. Un desiderio di riduzione che in Manzoni diventerà una attività di azzeramento e smaterializzazione senza precedenti.

Dall’inizio del suo percorso e fino alla morte precoce Manzoni si dedica con continuità agli Achrome, pitture monocrome in cui il bianco «inteso come non-colore, non più come monocromia dunque, ma come annullamento, svuotamento, negazione, rifiuto di tutto ciò che che il colore ha significato fin lì, ovvero psicologia, sensazione, pittoricità, simbolismo»1 diviene sempre di più “assoluto” e totalizzante: realizza superfici bianche utilizzando qualsiasi tipo di materiale naturale (il caolino, la paglia e le pelli di coniglio) o sintetico (la plastica, il polistirolo, le fibre artificiali). Negli Achrome scopare tutto quello che si aspetta di trovare in un quadro, iconografia, racconto, emozioni, resta solo l’immagine per quello che è: immagine in sé.

Con le parole di Piero Manzoni: «Qui l’immagine prende forma nella sua funzione vitale: essa non potrà valere per ciò che ricorda, spiega o esprime (casomai la questione è fondare) né voler essere o poter essere spiegata come allegoria di un processo fisico: essa vale solo in quanto è: essere»2.

Nel breve arco della sua attività (circa sette anni, muore nel 1963 all’età di trent’anni) Piero Manzoni ha prodotto una serie stupefacente di opere attraverso una lettura personale del lavoro di Duchamp e con la peculiare attitudine di abbandonare ogni specificità mediale: l’artista produce lavori che si potrebbero definire quadri in senso classico ma si dedica soprattutto a progettare installazioni e performance, a produrre oggetti e multipli e a immaginare progetti irrealizzabili che possono esistere solo concettualmente. Tutto il lavoro di Manzoni consiste in un incessante tentativo di trasformare la materia in qualcosa d’altro, per trovare nessi altrimenti invisibili o impossibili tra l’arte e la vita. Ecco allora apparire sculture fatte di fiato, sfere sostenute solo da getti d’aria, rotoli di carta con tracciate linee sempre più lunghe che nelle intenzioni dell’artista dovevano arrivare ad abbracciare l’intero pianeta3, tavole di accertamento in cui si dichiara che qualcosa è realmente se stessa (evidenziando così una distanza tra oggetto e pensiero, una sorta di ready-made al contrario)4.

Il corpo è molto presente nell’opera dell’artista ma vi appare sempre per trasformarsi in qualcosa d’altro, per segnalare un cambiamento di statuto, di sostanza: di fatto, Manzoni apre la strada a molte delle esperienze performative degli anni successivi. Nelle sculture viventi il corpo delle modelle non è più idealizzato in una rappresentazione ma presentato in una evidenza che pure cessa di essere tale grazie alla firma dell’artista che duchampianamente ne trasforma l’essenza – da strumenti dell’artista a opere viventi. Il passo successivo è firmare una persona qualsiasi e trasformarla in opera d’arte vivente, con tanto di certificato d’autenticità. Così anche le Basi magiche innescano processi di trasformazione, l’artista in questo caso si ritrae completamente e lascia che l’opera si compia con lo spettatore stesso: le basi sono piedistalli su cui questi può salire e diventare esso stesso opera e portare la propria vita a coincidere con l’arte. Parafrasando le parole dell’artista, l’opera, la persona sulla base magica, non può essere spiegata come allegoria, rappresentazione: «essa vale solo in quanto è: essere».

Anche le uova, che Manzoni in una celebre performance, cuoce, firma con la propria impronta e quindi offre agli spettatori perché vengano mangiate, sono parte di questo progetto di smaterializzazione dell’opera d’arte e della sua riconfigurazione in esperienza. Manzoni chiede agli spettatori di partecipare in prima persona alla creazione dell’opera: salire su di un piedistallo, mangiare un uovo o anche concepire l’idea di esistere in un pianeta che l’artista ha trasformato (e con esso ogni essere vivente) in un immenso ready-made collocandolo su di una base capovolta con inciso il titolo: Zoccolo del mondo

Ancora il corpo (e le sue funzioni) è protagonista nella celebre Merda d’artista – molto conosciuta e poco compresa – in cui l’ironia dissacrante che sta al fondo di molti lavori di Manzoni lascia emergere contenuti di forte valenza politica: il vasetto si veste del linguaggio della merce (tecnica di produzione, packaging, valore di scambio) e così mimetizzato afferma come oramai l’artista, la sua produzione estetica, il suo corpo e quindi anche le sue stesse deiezioni, siano diventati un prodotto come qualsiasi altro nell’economia capitalista. La Merda d’artista rende evidente la natura feticista del mercato e porta allo scoperto la qualità dell’oggetto artistico in quanto merce5.

Come Manzoni, anche Yves Klein – che percorre una parte della propria strada con gli artisti dell’avanguardia Parigina del Nouveau Réalisme – è ossessionato dalla ricerca della leggerezza e tutta la sua opera è una corsa verso la smaterializzazione dei corpi che diventano a volte emissioni di pura energia, in omologia con la diffusione dei primi sistemi magnetici, dei flussi elettronici, delle correnti di dati che immettono nella fantasia collettiva idee di evanescenza, liquidità, velocità e in opposizione alla pesantezza e alla staticità dei sistemi statali, culturali e produttivi. Klein cerca di produrre segni capaci di convertire in elementi visivi dinamici la rete delle nuove energie che attraversa il mondo, eliminando qualsiasi impurità, scoria, gravità.

Un elemento che contraddistingue il lavoro di Klein è l’International Blue Klein – IBK, un colore da lui stesso creato (con una sofisticata ricerca chimica) e registrato (con un brevetto depositato e un marchio registrato): un blu quintessenziato che rappresenta il colore assoluto, che comprende e trascende tutti gli altri colori. Klein userà questo colore per ridefinire la natura degli oggetti del mondo6.

Nelle antropometrie – abdicando al controllo diretto sulla formazione dell’immagine, con un atteggiamento che deve molto alla filosofia orientale e facendo fare un passo decisivo all’idea dell’arte intesa come processo – dalla nuda, concreta fisicità dei corpi delle modelle estrae immagini che ne rappresentano la sublimazione, il distillato. La registrazione della presenza, della pressione del corpo sul supporto diventa il segno residuale di un evento che si è prodotto. Il passo successivo è quello di realizzare immagini utilizzando un lanciafiamme, producendo così tracce di un flusso di energia puro, di un soffio di calore.

Klein cerca leggerezza, con l’installazione Il vuoto7 (lo spazio bianco di una galleria completamente svuotata da ogni oggetto e segno) manifesta su scala ambientale l’immaterialità dei corpi che fluttuano in uno spazio completamente liberato, anticipando così l’idea di uno spazio non fisico ma puramente virtuale.

Una tensione portata anche all’aperto con le azioni Zone di sensibilità pittorica immateriale in cui scambia porzioni dell’aria di Parigi, dichiarate duchampianamente zone sensibili, con lamelle d’oro (simbolo alchemico di trasformazione) mutandone così la natura e ridefinendole in zone di nuovo pensiero. Una sorta di ascesi in cui ci si perde e insieme ritrova in un’esperienza che va contro ogni logica economica (proprio per questo la forma dell’azione è concepita come uno scambio eminentemente economico, con tanto di contratto e certificato d’acquisto) e tocca con un brivido una forma di assoluto. Da notare l’uso simile che Klein e Manzoni fanno del certificato di autenticità: un modello di matrice Duchampiana che reinterpreta artisticamente, cioè sovvertendola – Klein e Manzoni certificano aria e uova sode – la cultura finanziaria e la mistica del capitalismo (azioni, buoni del tesoro, titoli al portatore, banconote…) in cui spesso il valore economico di una determinata cosa consiste semplicemente nella certificazione del suo valore. Un modello ripreso anche, come vedremo, da Sol LeWitt.

[N]

1 Elio Grazioli, Piero Manzoni. Bollati Boringhieri, Torino, 2007. p. 61.

2 Piero Manzoni, Oggi il concetto di quadro… prolegomeni, testo del 1957. In Piero Manzoni, Scritti sull’arte. Abscondita, Milano, 2013. p. 24.

3 «Il lavoro che ha fatto sul colore attraverso l’achrome, Manzoni lo fa sul disegno attraverso le Linee: le linee sono dunque l’a-disegno, il disegno ridotto al suo stato materiale e concettuale, spogliato delle sue valenze espressive, simboliche». Grazioli, Cit. p. 80.

4 «Che cosa accerta infatti una carta geografica? Non certo la correttezza della rappresentazione, cioè il rapporto con la realtà, che l’achrome ha rifiutato ed escluso […]. Le tavole accertano piuttosto qualcos’altro, forse il rapporto dei loro “sistemi di segni”, cioè il loro stesso specifici statuto linguistico. Perché questi tipi di segni sono appunto particolari, basati non tanto sul rapporto iconico, analogico e di immagine, quanto su quello di “indice” […] cioè diretto, fisico, materiale, con l’oggetto che lo ha lasciato, con il referente. […] Delle carte geografiche conta allora l’essere  un sistema di rappresentazione in scala, mentre dell’alfabeto, non contano le lettere ma il suo essere realizzato attraverso la tecnica della mascherina. […] Questo passaggio, dalla rappresentazione ad altro rapporto linguistico, resta comunque un punto determinante per la comprensione dell’intenzione estetica di Manzoni, del suo “salto” dal rappresentare all’essere». Grazioli, Cit. p. 144.

5 «Manzoni realizza, ovvero “produce e inscatola”, come è specificato sull’etichetta, le Merde d’artista, in 90 esemplari, nel maggio del 1961. Le scatole contengono 30 grammi ciascuna di merda, inscatolata “al naturale”, e sono da vendersi al prezzo corrente dell’oro. […] È la più provocatoria e scandalosa delle opere di Manzoni, la più eloquente proprio per la sua radicalità  ed evidenza. […] in essa finiscono con ill trovare ulteriore sintesi e sviluppotutti glia spetti e i temi più importanti ed eclatanti del lavoro di Manzoni, dalla trasmutazione della materia alla chiusura in scatola, dall’etichetta come certificazione all’impronta, dall’acromia alla ripetizione, alla critica decostruttiva». Grazioli, Cit. p. 123.

6 «Prima dell’autunno del 1959, Klein aveva trovato quello che cercava: un blu oltremare, intenso, luminoso, completamente avvolgente che definì “l’espressione più perfetta del blu”. Il pigmento era il risultato di un anno di esperimenti, portati a termine con l’aiuto di  Edouard Adam, chimico parigino creatore di materiali per l’arte. […] Con questo blu Klein si sentì alla fine di potere dare espressione artistica al proprio personale senso della vita, come un regno autonomo i cui poli gemelli erano la distanza infinita e la presenza immediata. Analogamente ai suoni armonici nella musica, la specifica tonalità del pigmento generava una sensazione visiva di completa immersione nel colore, senza costringere l’osservatore a doverne definire le caratteristiche». Hannah Weitemeier, Yves Klein. Traduzione di Carmela Raciti. Taschen, Colonia, 2002. p. 15.

7 Weitemeier, Cit. p. 175.

2 Minimalismo

Nel 1963 si tiene la prima mostra dedicata a una tendenza della scultura e della pittura statunitensi definita in seguito come Minimalismo: una tendenza già in atto da qualche anno e che si pone in continuità teorica e formale alle esperienze di poco precedenti di Morris Luis, Frank Stella e Ad Reinhardt e si coagula attorno al lavoro di Donald Judd, Carl Andre, Robert Morris, Dan Flavin, Sol LeWitt, Robert Ryman, Agnes Martin.

Al centro del discorso di questa generazione di artisti – e in radicale opposizione alle tendenze emotive dell’informale, o movimentiste del New Dada o glamour della Pop art – ci sono l’inespressività delle forme, la riduzione a zero della presenza dell’artista, del desiderio e della capacità dell’opera di coinvolgere emotivamente lo spettatore. Il modus operandi degli scultori e dei pittori minimalisti è improntato all’austerità linguistica; al geometrismo rigoroso e asettico; alla ricerca di «unità elementari primarie» e «elementi modulari standard organizzati in strutture aperte e sequenze seriali»; a soluzioni volumetriche e cromatiche essenziali e in scala architettonica; all’uso prevalente di materiali industriali e sintetici «strettamente connessi alla forma»1.

È un linguaggio nato dal rapporto con gli elementi moderni e metropolitani; dal fascino esercitato dai materiali e dai processi industriali; dall’introduzione in arte di concetti prelevati dal mondo dell’economia e della produzione quali standardizzazione, serializzazione, modularità, ottimizzazione; dal dialogo con gli scenari metropolitani in cui i corpi – dell’artista e degli osservatori – sono chiamati in causa solamente in un’interazione indiretta, mediata da codici e protocolli. L’arte diventa così un viaggio dentro a strutture primarie, fondanti quali forma, spazio, linea, superficie.

La ripetizione, la monotonia di elementi primigenei e puri, la misurazione ideale dell’ambiente fanno del Minimalismo una forma di indagine filosofica dell’esistenza. Come scrive Daniel Marzona: «Ponendo l’accento sull’esperienza concreta e sulla percezione dell’opera nel suo contesto specifico, La Minimal Art, rifiutò una metafisica dell’arte e, cosa non meno importante, modificò di conseguenza il ruolo del pubblico. All’osservatore non si chiedeva più di meditare, in un atto di silenziosa contemplazione, sui significati immutabili della creazione che aveva davanti agli occhi, ma piuttosto di percepire attivamente l’opera di cui condivideva lo spazio, e di riflettere su questo processo di fruizione, riempiendolo in questo modo di nuove implicazioni»2. Questo cambio di prospettiva riconduce, ovviamente, a Duchamp che con i suoi ready-made, desiderava sollecitare, più che i sensi, l’appetito di comprensione dell’osservatore.

Nato insieme alla Pop art, il Minimalismo, pur nelle eclatanti differenze, condivide con l’attività di Warhol e compagni alcuni aspetti fondamentali: in primo luogo la scelta di procedimenti meccanici nella formazione dell’immagine, una preferenza che conduce al rifiuto dell’idea di “bello” trascendente e della visione romanticamente personale tipica della pittura modernista. Le opere minimaliste sono, come quelle Pop, inespressive, anonime e aderiscono senza polemica al mondo contemporaneo, governato dalla logica seriale e ripetitiva – e quindi a-temporale – delle macchine. Il tempo quindi, o meglio l’assenza del tempo, è anche nel Minimalismo un tema portante: la modularità a cui spesso sono ridotti gli oggetti produce appunto un effetto di azzeramento dello svolgimento cronologico che normalmente si concepisce quando si interagisce con un oggetto immerso in uno spazio, e quindi nel tempo. La Pop art – così apparentemente frivola e spettacolare – condivide con il minimalismo una freddezza di fondo e una sterilità emotiva che costringono l’oggetto artistico alla mera presenza fisica, privandolo di ogni risonanza emotiva, in consonanza con le sperimentazioni seriali che in musica stavano compiendo compositori come Steve Reich, La Monte Young, Philip Glass.

L’esperienza minimalista rappresenta un altro sviluppo dell’influenza che Duchamp esercita sulle nuove generazioni di artisti: tutti gli elementi che abbiamo visto essere alla base di ogni ready-made – l’annullamento dell’emotività e delle componenti sensoriali, l’equivalenza delle forme e quindi l’indifferenza e l’azzeramento dei valori assoluti e trascendenti, l’indebolimento della figura dell’artista-creatore che si trova sempre più spesso nel ruolo del selezionatore/campionatore, l’assenza dell’idea di originale– si trovano rielaborati in modo nuovo nel lessico di questi giovani americani.

A partire dagli anni Novanta, il lessico minimalista (come quello Pop) così duro intransigente, ritornerà nella moda, nel design e più in generale nella cultura: smussata ogni asprezza ideologica diventerà il palinsesto da cui declinate un nuovo vocabolario decorativo: strano destino per un linguaggio nato con l’intento di azzerare ogni componente decorativa.

In pittura le tensioni minimaliste si trovano espresse con chiarezza nel lavoro di Robert Ryman e Agnes Martin. Il primo si dedica a una pittura seriale, reiterando sulla tela elementi formali basilari come strisce o più spesso quadrati. Quella di Ryman è una pittura rigidamente monocroma che tende all’acromia, dalla metà degli anni ‘60 Ryman presenta, nella loro inequivocabile immanenza, lastre di acciaio dipinte di bianco3.

Agnes Martin, sulla stessa lunghezza d’onda di Ryman, adotta un vocabolario più morbido, fatto di elementi semplici e modulari, di griglie tracciate in modo sistematico e inespressivo. I colori sono tenuti su gradazioni che tendono alla monocromia. Come per Ryman, c’è un’assenza assoluta di pathos, di narrazione, di sviluppo formale: è una pittura che chiede di essere guardata abbandonando ogni componente sensoriale – retinica, come direbbe Duchamp – perché non si rivolge allo sguardo dell’osservatore, ma al suo pensiero.

Tony Smith è forse il più radicale della sua generazione, pratica una scultura che implode in se stessa. Il cubo di acciaio nero è la negazione dell’idea classica della scultura in cui la forma si libera nello spazio e interagisce con gli elementi ambientali. C’è un ritorno all’idea del monolito, elemento fisso, primordiale, riflessivo. Smith predilige le sequenze seriali e il rapporto analitico, freddo con spazio.

In Donald Judd tutte le peculiarità teoriche e le caratteristiche formali del Minimalismo si trovano articolate al massimo grado: rigore formale, elementi geometrici e modulari, strutture sequenziali, materiali industriali quali acciaio, plexiglass, formica e cemento. Judd parte da una formazione filosofica e all’agire artistico accompagna scritti e saggi di teoria dell’arte altrettanto lucidi e radicali, per l’artista non ci sono differenze tra l’attività speculativa e quella pratica.

Il percorso di Robert Morris inizia nel minimalismo (sarà poi protagonista degli sviluppi antiformali e processuali). All’inizio degli anni Sessanta presenta oggetti seriali che variano solo nella loro disposizione nello spazio. 

Dan Flavin usa tubi al neon – elementi industriali standard, non creati dall’artista ma acquisiti (prelevati) sul mercato – per costruire soluzioni spaziali fortemente geometriche. Al centro del lavoro di Flavin c’è naturalmente la luce – trattata in maniera antinaturalistica e antimpressionista – che diviene un elemento plastico con cui lo spazio, tanto fisico quanto percettivo, viene ridefinito. 

Carl Andre opera una riduzione della scultura al grado zero, anche volumetrico: i suoi interventi ricoprono il pavimento, sono superfici regolari, griglie praticabili, percorribili che trasformano la scultura in un’esperienza attiva. Andre si dedica anche alla poesia concreta: costruzione di monoliti lessicali, di elementi primordiali di senso e ritmo.

Tutta l’opera di Sol LeWitt si sviluppa in pattern geometrici, semplici e razionali sviluppati in sequenze e infinite modulazioni. LeWitt dagli anni Sessanta si dedica anche alla produzione di pitture murali – Wall Drawings – che affida sempre all’esecuzione di collaboratori: per l’artista è importante l’idea, è l’idea che l’artista vende e certifica, l’oggetto non è importante.

Antiform

Con l’affermazione del Minimalismo americano s’impone (negli Stati Uniti ma anche in Europa) una tendenza a utilizzare il linguaggio freddo e analitico delle scienze, ad adottare un’estetica controllata, impersonale, inorganica. Altri fenomeni però si presentano in netta opposizione a questo approccio, negli Stati Uniti in antitesi all’ortodossia minimal si afferma il movimento Antiform.

Nato dall’abiura di uno degli esponenti di spicco del Minimalismo degli inizi, Robert Morris4, l’Antiform pone il problema di un nuovo approccio con la materia organica e quindi con la vita. Il rapporto dello spettatore con l’opera non avviene più su di un livello concettuale ma investe l’esperienza diretta, la percezione corporea, lo stimolo sensoriale. Le opere sono manifestazioni sempre aperte, mobili e vive che interagiscono con lo spazio in cui si manifestano, che mutano nel tempo e si modificano grazie all’apporto dello spettatore che spesso partecipa direttamente all’epifania dell’opera.

La forma è indeterminata e grande rilievo viene dato, più che all’opera, al processo che porta all’opera, al suo divenire. L’attenzione viene quindi riservata alle proprietà fisiche degli elementi e alla loro conflittualità intrinseca: peso e leggerezza, fragilità e durezza, opacità e trasparenza, stabilità e mobilità. Evidente il debito verso l’esperienza di Kurt Schwitters e alla sua idea di creazione come processo sempre aperto, interminabile. Al progetto, con cui la forma viene assoggettata al pensiero, così importante nella teoria Minimalista, viene sostituita l’idea di bricolage, cioè una «metodologia prevalentemente abduttiva (legata cioè a un continuo spostamento o riformulazione di un progetto non sempre definito in tutte le sue parti), una strategia diversa dalla progettazione in senso tradizionale, ma non per questo meno efficace»5. Il bricolage è quindi un modus operandi in cui la forma non è definita in anticipo ma è il risultato di un processo. Le opere diventano sempre più aperte e disaggregate, trasformandosi in esperienze immersive, in installazioni dalle configurazioni instabili, soggette all’alea del tempo, alla consunzione e in cui le forme sono generate nell’interazione con la fisicità della materia. L’artista rinuncia al controllo e quindi a un pezzo del proprio potere, lasciando spesso che la forma si compia liberamente (anche in questo caso, non si può non pensare all’influenza di Cage). 

Emblematiche sono le sculture in feltro di Robert Morris: strutture morbide, calde, lasciate libere di produrre la propria forma nel rapporto con lo spazio che le riceve. Anche il corpo dell’artista estromesso nell’estetica Pop e Minimalista, riafferma la propria presenza, così, spesso, le opere non sono che sedimentazioni di manipolazioni e di esperienze performative. Gli artisti scoprono una nuova forma di libertà, tanto più grande se la si accosta alle strutture modulari e seriali tipiche della produzione minimalista e accettano il conflitto intrinseco alla materia, latente nei corpi, nelle prassi sociali e nelle convenzioni linguistiche.

Richard Serra esalta le caratteristiche fisiche dei materiali che adotta (fluidità, malleabilità, gravità) e mette gli oggetti in un rapporto irrisolto, rischioso con lo spazio e i copri degli spettatori. Nei primi anni Sessanta lavora cercando nei materiali i punti di instabilità, di tensione: pesanti lastre in precari equilibri, piombo fuso che si solidifica in processi caotici, corpi che confliggono con la materia. In seguito Serra ha prodotto impressionanti sculture in cui gigantesche lastre di metallo si tendono deformando i luoghi, modificando la percezione del tempo e dello spazio di coloro che le percorrono.

Eva Hesse porta nelle opere una visone di genere, costruisce strutture aperte, fatte di relazioni fragili e impreviste, morbide, fluide, collaborative e tipiche di una sensibilità femminile che comincia a trovare proprio in quegli anni un lessico autonomo declinando (nella differenza dall’arte degli uomini) le forme per esprimere una nuova consapevolezza politica.

Bruce Neuman concentra la propria analisi sul corpo – dell’artista stesso o dello spettatore; corpo inteso come materia da cui far emergere tutte le recondite, inconsapevoli o sedate potenzialità espressive. Il semplice atto del camminare diventa occasione per un approccio differente al corpo, aperto a una nuova forma di coscienza. Anche il linguaggio viene esplorato con gli strumenti dell’arte, per romperne le convenzioni formali ed estrarre tracce non controllate di esistenza. Interessante l’impiego del neon, elemento tipicamente moderno e industriale, trasformato in segni che sembrano sedimentazioni organiche.

Con Richard Tuttle la poetica dell’impermanente, dell’aleatorio e fragile, assume spessore e consapevolezza formale. Tuttle inizia realizzando superfici geometriche, precise, monocrome e apparentemente assimilabili all’estetica minimalista, con semplici tele inchiodate alle pareti: la forma non è che un’apparizione instabile e fuggevole. L’arte di Tuttle assembla frammenti del mondo, scarti anche minuscoli che non sembrano avere alcuna qualità intrinseca, frammenti tenuti sospesi in un equilibrio fragile e, a volte, apparentemente impossibile, lasciati liberi di produrre una misteriosa e sorprendente forma di bellezza (che non deve nulla all’idea del canone occidentale, fatto di equilibrio, simmetrie e rapporti calibrati geometricamente).

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1 Francesco Poli, Minimalismo Arte Povera, Arte Concettuale. Laterza, Bari, 1995. p. 8.

2 Daniel Marzona, Minimal art. Traduzione di Paolo Satta. Taschen, Colonia, 2007. p. 11.

3 «Il bianco viene scelto come unico colore perché non interferisce, perché è un colore neutrale che consente di evidenziare aspetti della pittura che resterebbero sommersi in una situazione più variata; la sua intenzione è attirare l’attenzione sul processo del dipingere, sulla stesura letterale della pittura, sulla relazione primaria fisica e spaziale fra supporto e colore bianco». Poli, Cit. p. 101.

4 «A teorizzare in modo più chiaro la svolta postminimalista, è proprio uno dei protagonisti del Minimalismo, Robert Morris in un articolo su Artforum (aprile 1968) intitolato Atiform. […] Morris scrive che nei lavori minimalisti una morfologia delle forme geometriche, prevalentemente rettangolari, è stata accettata come premessa stabilita […] Ma rimane problematico il fatto che che l’ordine modulare e seriale è un ordine imposto, non è inerente al materiale, non ha una relazione con la fisicità delle unità esistenti». Poli, Cit. p. 19.

5 Alessandro Dal Lago e Serena Giordani, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte. Einaudi, Torino, 2008. pp . 92-93.

3 Situazionismo

«Nel 1952, quattro o cinque persone di Parigi poco raccomandabili decisero di perseguire il superamento dell’arte. […] Questo superamento dell’arte è il “passaggio a nord-ovest” della geografia della vita vera, spesso cercato da più di un secolo». Con queste parole Guy Debord, una delle quattro o cinque persone poco raccomandabili – gli altri sono Asger Jorn, Constant e Pinot Galizio – descrive le ragioni della nascita dell’Internazionale Situazionista. Il movimento si presenta con gli stessi tratti di critica radicale e di intenzione rivoluzionaria del Dadaismo (di cui riattiva tutte le pratiche anti-arte) e del Surrealismo (di cui riattiva la matrice marxista e libertaria) con i quali è diretta continuità.

L’azione situazionista prende le mosse dalle analisi del filosofo Guy Debord, confluite nel libro La società dello spettacolo pubblicato nel 1967 – e accusato in seguito di aver dato il lessico ai moti di rivolta iniziati con il maggio francese del ‘68. La società dello spettacolo è la più lucida (e ancora attuale) analisi del mondo contemporaneo apparsa dopo Il Capitale di Carl Marx, di cui Debord aggiorna i modelli interpretativi e le prospettive d’azione. Secondo il pensatore francese: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini»1.

Compito dell’arte è demolire lo spettacolo del capitalismo2 per riconquistare l’esperienza della vita reale. Per questo, i situazionisti cercano il superamento dell’arte, cioè dell’esperienza mediata (e imprigionata) dal linguaggio3. Per superare l’arte i situazionisti si affidano alla creazione di “situazioni”. «La situazione è definita come un “momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito per mezzo dell’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti»4.

Il tempo è, con lo spazio, il principale bersaglio della critica situazionista. Si tratta innanzitutto di affrancare il tempo libero delle persone, sottraendolo al controllo dei dispositivi spettacolari dello svago (cinema, stadio, televisione, spiaggia…) che trasformano il tempo in consumo e quindi, ancora una volta, in uno strumento del capitalismo. Proprio per ritornare in possesso del proprio tempo, i situazionisti si affidano alla creazione di situazioni: momenti in cui il gioco e i gesti improduttivi diventano i modelli per liberare energie psichiche profonde e produrre forme ingovernabili di socialità (il riferimento alle esperienze dadaiste degli anni Venti è obbligatorio).

Il teatro della sovversione situazionista è la città, non più intesa come rigida griglia in cui si dispongono ordinatamente i luoghi e i tempi della produzione e del consumo, ma come spazio fluido e privo di barriere in cui muoversi e socializzare liberamente. Il primo obiettivo dei situazionisti è quindi scardinare la struttura della città.

Per riconquistare l’esperienza dello spazio i situazionisti si affidano al procedimento della deriva: perdersi per le strade seguendo persone sconosciute o animali randagi; cambiando a caso mezzi di trasporto; visitare una città seguendo scrupolosamente le indicazioni della guida di una città diversa. Il modello per questa epopea di scoperta della città nelle sue pieghe meno spettacolari, predeterminate e turistiche è ovviamente quello della passeggiata dadaista del 1921.

In questo modo, la città rivive in erranze ogni volta originali e libere, non soggette al controllo e alla disciplina, ricomposte poi in mappe psicografiche che sono la rappresentazione di uno spazio vissuto in modo personale. La città diventa un luogo aperto a infinite scoperte e peregrinazioni: la mappa psicografica – in cui la rappresentazione di uno spazio urbano che può essere percorso in modo razionale, efficiente, controllato deflagra per essere riconfigurata seguendo percorsi erratici e casuali – è l’emblema di questo progetto.

Ma per la teoria situazionista è la città stessa che deve essere demolita: Constant, architetto e urbanista visionario e quanto mai attuale, pensa una città in cui non ci sia distinzione tra spazio privato e spazio pubblico, in cui le persone tornate a uno stato nomade, possono muoversi in transumanze incessanti. Constant pensa a una città mobile e leggera, multietnica e ludica – in opposizione ai grandi modelli metropolitani fatti di grattacieli e megastrutture, oggi si direbbe sostenibile – e arriverà a immaginare il pianeta stesso come un territorio percorso da grandi flussi di popoli erranti, infine liberati dal vincolo stanziale della produzione capitalista5.

Ma anche il linguaggio deve essere decostruito e liberato: i situazionisti sviluppano la tecnica e il concetto di détournement6, con cui il lessico dello spettacolo (pubblicità, cinema, letteratura d’intrattenimento come i fotoromanzi…) viene svuotato dei contenuti originari e riempito di nuove proposizioni rivoluzionarie. Si tratta sostanzialmente di una pratica di sabotaggio dei contenuti stabiliti e si inserisce in una più ampia attività di controinformazione e lotta politica che di fatto non ha soluzione di continuità con la pratica creativa: nel Situazionismo politica e arte coincidono.

Il détournement (distrazione: una via di mezzo tra collage e ready-made, ancora una volta la riattivazione di procedimenti dadaisti)7 si applica anche all’arte visiva. In pittura viene rifiutata ogni idea di stile: Pinot Galizio immagina una pittura industriale prodotta in serie, da vendere al metro, con cui sovvertire i meccanismi di creazione, diffusione e consumo dell’opera d’arte intesa come merce, in cui la figura dell’artista, romanticamente artefice di pezzi unici e originali, perde tutto il suo potere (il debito verso Schwitters è evidente).

[N]

1 Guy Debord, La società dello spettacolo. Traduzione di Paolo Salvadori. Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008. p. 53-54.

2 Così Debord: «Lo spettacolo è l’ideologia per eccellenza, perché espone e manifesta nella sua pienezza l’essenza di ogni sistema ideologico: l’impoverimento, l’asservimento, e la negazione della vita reale». Ivi. p 180.

3 «Per Debord l’arte ha il compito di sottrarre al tempo e rendere eterne le esperienze vissute; si contrappone perciò alla vita proprio perché immobilizza, reifica, riduce a cosa l’esistenza soggettiva del singolo. Inoltre essa è una forma di pseudo-comunicazione che ostacola la comunicazione diretta tra gli individui». Mario Perniola, I situazionisti. Il movimento che ha profetizzato la Società dello spettacolo. Castelvecchi, Roma, 2005. p 13.

4 Ivi, p 19.

5 Vedi Francesco Careri, Constant. New Babylon, una città nomade. Testo & Immagine, Roma, 2001.

6 Ancora Debord: «Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento. […] Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia». Debord, Cit. p 174.

7 «Si tratta in fondo di una pratica già frequente nell’attività dell’avanguardia artistica: il collage e il ready-made rappresentano appunto l’attribuzione di un nuovo valore a elementi preesistenti. La differenza tra i détournement artistici e quelli situazionisti  consiste nel fatto che mentre il punto di arrivo dei primi è un’opera che ha un valore autonomo ancora artistico, il punto di arrivo dei secondi è un prodotto che, pur potendosi avvalere di mezzi artistici […] si rivela immediatamente come la negazione dell’arte, soprattutto per il carattere di comunicazione immediata che contiene». Perniola, Cit. p 22.

POV

Qualche passo estratto da un blog rivolto ai genitori, in cui si cerca di spiegare in modo semplice le cose, a volte incomprensibili, che i giovanissimi fanno o guardano sui social: «Come intuibile, POV è un acronimo. La versione estesa è infatti Point of View, “punto di vista”, dunque un concetto piuttosto semplice e banale, che però sui social ha assunto un significato ben preciso. All’interno del mondo social, in particolare Instagram e Tik Tok i POV sono dei video – spesso contrassegnati dall’hashtag #pov – in cui si imitano personaggi famosi o categorie stereotipate di persone esagerandone gesti, atteggiamenti e discorsi in chiave ironica, sfruttando la ripresa in prima persona per simulare lo sguardo dello spettatore, il quale viene così invitato ad assumere il punto di vista suggerito dalla didascalia». Computer magazine aggiunge: «Solitamente la dicitura si trova sotto commenti abbastanza ironici, dai tratti esagerati, gonfiati per far parlare e ridere chi se li ritrova davanti. Ma se vogliamo cercare un significato più profondo, possiamo dire che POV è una sorta di grido ad avere una propria opinione, in un campo dove averne una molto spesso ci manda alla gogna».

Quindi, sintetizzando, fare un POV significa, prima di tutto, assumere un punto di vista per sovvertirlo; irridere e destrutturare una forma sociale o un atteggiamento con l’umorismo e, attraverso quest’opera di riassestamento giocoso del senso comune, liberare spazio per l’espressione non condizionata delle proprie opinioni. Sintetizzando ulteriormente: l’umorismo è lo strumento per la sovversione e la liberazione. Siamo ancora in casa dei surrealisti.

Ma perché lo humor era centrale nell’estetica surrealista? Rispondiamo citando Gilles Deleuze: «Ma a che servirebbe la legge morale, se essa non santificasse la reiterazione, e soprattutto se non la rendesse possibile, conferendoci un potere legislativo da cui ci esclude la legge di natura? […] L’uomo di dovere ha inventato una “prova” della ripetizione, ha determinato ciò che poteva essere ripetuto dal punto di vista del diritto.[…] La prima maniera di rovesciare la legge è ironica, e l’ironia vi appare come un’arte dei princìpi, del ritorno verso i princìpi e del rovesciamento dei princìpi. La seconda è lo humor, che è un’arte delle conseguenze, delle discese, delle sospensioni e delle cadute»1.

Dunque: la singolarità contro la generalità che fa la legge, legge che si produce nella reiterazione; la singolarità si crea rompendo con la legge, rovesciando, trasgredendo e facendosi beffe della legge e, quando questa ci dice di vedere un oggetto, una forma, una prassi non vedere quell’oggetto, quella forma, quella prassi ma, al contrario, qualcosa di imprevisto e non omologato; qualcosa che irrompe e sospende. Secondo Deleuze lo humor è un’arte delle conseguenze impreviste derivanti da uno spostamento di sguardo, di pensiero (come il ready-made che è ugualmente un’arte delle conseguenze inattese derivanti da un cambio di designazione e di luogo, da una sospensione di identità).

Non a caso, lo humor è stato lo strumento prediletto dai dadaisti e da Duchamp in particolare. Attraverso lo humor Duchamp rovesciava le convenzioni e metteva sotto una diversa luce le icone consacrate dall’abitudine e dalla tradizione (un esempio per tutti, la Gioconda baffuta), quelle icone che ormai non ci è dato di vedere con uno sguardo personale e non omologato dal gusto socialmente accettato. Nella storia dell’arte d’avanguardia lo humor – come pensiero e come pratica – appare raramente, era sconosciuto ai facinorosi e pomposi futuristi (eccetto che all’eccentrico Palazzeschi); sconosciuto anche ai cerebrali pittori cubisti; impossibile da coltivare nell’idealismo pragmatico del Bauhaus o del De Stjl; estraneo al vitalismo sofferto e romantico degli espressionisti. Lo humor era invece una parte essenziale della vita artistica dei dadaisti e diventerà centrale nella teoria e nella pratica dei surrealisti. Così testimonia Hans Richter: «Superiori alla folla dei filistei, perché forti della nostra capacità di vedere la realtà sia dall’esterno che dall’interno… ridevamo di cuore. Distruggevamo, maltrattavamo e schernivamo… – e ridevamo. Ridevamo di tutto. Ridevamo di noi stessi, come dell’imperatore, del re e della patria, delle pance piene di birra e dei poppatoi. Per noi ridere era una cosa seria; soltanto il riso poteva garantirci quella serietà con la quale conducevamo la nostra lotta contro l’arte e verso quella meta che era la scoperta di noi stessi. Ma la risata era soltanto l’espressione della nuova maniera di vivere non ne costituiva il contenuto e il fine. Confusione, distruzione, anarchia, opposizione, – perché avremmo dovuto rinunciarvi?»2.

Tutta l’estetica surrealista consiste nella sovversione dei “punti di vista” e nell’acquisizione di uno sguardo strabico, dissociato, rovesciato, con una predilezione per il paradosso e il grottesco; una predilezione che ritroviamo intatta e freschissima, sebbene inconsapevole, in molte strane attività che milioni di utenti praticano quotidianamente on-line. 

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1 Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione. A cura di Giuseppe Guglielmi. Cortina, Milano, 1997. pp. 11-12

2 Hans Richter, Dada arte e antiarte. Mazzotta, Milano, 1966. pp. 78-79

Kitsch, storia

Scrive Dieter Kliche: «La parola “Kitsch” nasce in Germania alla fine del XIX secolo e riunisce in sé significati per cui non ci sono termini ante quem»1. Il termine, evidentemente, designa un ordine di problemi, intimamente connessi con l’emergere di una nuova cultura e di nuovi modelli sociali imposti dalle innovazioni tecniche e culturali della modernità.

«Nella prima metà del Novecento – continua  Kliche – il Kitsch diventa un concetto estetico, in quanto – tramite costruzioni di significato – colma gradualmente un’intenzione significante priva di forma: spazzatura, immondizia, arte brutta, arte superficiale o non-arte, prodotto del cattivo gusto (di massa), utilizzo epigonale di stili e forme, ecc. Il termine entra a far parte di un “conflitto concettuale” (Pierre Bourdieu) culturale i cui protagonisti giudicano, a partire da norme culturali e artistiche tradizionali, le prassi culturali proprie della società di massa industriale, facendo riferimento ai (legittimi) bisogni di un’esperienza e di una percezione estetica da parte dei produttori e dei consumatori del Kitsch, bisogni che però vengono considerati falsi o manipolati»2.

L’evoluzione del significato di Kitch è quindi abbastanza semplice da definire, da un giudizio di carattere estetico, formulato su modelli tradizionali o accademici, in sostanza sui modelli delle élite al potere, si passa a giudizi – negativi – di carattere sociale: se l’arte della società di massa è brutta (cioè ignorante, priva di riferimenti e valori, manipolata e manipolabile, falsa e superficiale) saranno brutti anche i suoi consumatori, cioè le persone che compongono la società di massa, queste persone saranno ignoranti, prive di riferimenti e valori, manipolate e manipolabili, false e superficiali.

«Il concetto di Kirsch è contrassegnato da due caratteristiche essenziali: da un lato esso è collegabile a tutti i settori del comportamento estetico, delle arti, della vita, anche se ci sono grosse difficoltà nel definire la sua struttura concettuale, le sue caratteristiche strutturali e persino le sue qualità stilistiche; dall’altro ha in sé il chiaro significato di un termine di valore negativo. Questa valutazione negativa, ha motivato negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso una produzione artistica che, partendo dal cattivo gusto del passato e con l’ausilio del principio di montaggio/collage e della”decostruzione” (ironica o critico-culturale), ha dato luogo ad una nuova, avanguardistica, arte-Kitsch»3.

Il secondo passaggio della storia del concetto di Kitsch è appunto il suo riutilizzo consapevole e, in qualche misura, militante su cui ha fatto leva una generazione di creativi seguendo una più generale riconsiderazione avvenuta con gli studi culturali e una nuova emergenza delle culture marginali avvenuta con il movimento postmoderno. Nel nostro presente permane comunque questa doppia faccia del Kitsch, da una parte valutazione dispregiativa per una serie di manifestazioni estetiche, culturali e sociali, dall’altra “stile” estetico da manipolare e utilizzare in modi paradossalmente anti-kitsch.

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1-2-3 Kliche, Kitsch. Riga n.41 Kitsch, a cura di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone. Quodlibet, Macerata, 2020. p. 47-45

Kitsch oggi

Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone: «Il Kitsch è un’evidenza problematica. I termini e i concetti evocati per definirlo costituiscono un pacchetto teorico irregolare ma, alla fine, abbastanza coeso: arte degenerata, massificata, inautentica e ripetitiva; pseudo-arte a buon mercato; simulazione della bellezza, esaltazione del sentimentalismo per via del dilettantismo; celebrazione indiscriminata del piacere estetico a detrimento della fattura materiale dell’oggetto artistico; emergenza della volgarità e del male nelle arti; arte al servizio dei regimi totalitari e della loro propaganda; uso indiscriminato degli stilemi e degli stereotipi del passato e del canone; contraffazione e simulazione; riduzione dell’opera a souvenir turistico e a gadget; diffusione del gusto medio e massificato; cattivo gusto o totale mancanza di gusto. L’effetto che si ottiene mettendo in fila questi concetti è curiosamente duplice. Da una parte, sembra che il Kitsch abbia vinto, nel senso della cultura contemporanea, la società attuale, la nostra stessa vita quotidiana ne appaiono permeate sin nei più intimi dettagli: la volgarità, la contraffazione, il sentimentalismo, l’autoritarismo, il dilettantismo vanno per la maggiore. Dall’altra, tutto questo sa di passato, di polveroso, se si vuole di vintage. Siamo certi che oggi sia possibile continuare a parlare di degenerazione dell’arte e di cattivo gusto, di massificazione e serializzazione? Che cosa significano questi termini? Quale finzione esplicativa conservano questi concetti? Che importanza hanno questi valori? Sembra di poter dire: se tutto è Kitsch, allora nulla lo è; e se nulla vi si oppone, non è possibile delinearne una reale fisionomia. Più che in alcune proprietà degli oggetti, il Kitsch finisce per risiedere nello sguardo di chi lo osserva, perdendosi nel più totale soggettivismo, nel relativismo deteriore, muto, in cui tutto è uguale a tutto. La nozione di Kitsch, nata con l’ascesa della cultura borghese e con l’ausilio dei media di massa, sembra aver perduto molta della sua ragion d’essere»1.

Il concetto di Kitsch, nato con la rivoluzione industriale per designare un intreccio tra pratiche di produzione e consumo di massa e un insieme di “stili” estetici tanto vaghi quanto evidenti serviva per indicare la cesura traumatica tra i modelli estetici della tradizione e quelli moderni. L’esplosione contemporanea dei linguaggi e la proliferazione dei segni che sorgono da emissioni sempre meno centralizzate e controllabili e sempre più proliferanti e inafferrabili, pone, a un nuovo livello di complicazione, il problema del Kitsch. Oggi, si può elaborare il concetto di Kitsch per definire concetti ambigui come quelli gusto e bellezza, per individuare e nominare i poteri che governano le tendenze, per circoscrivere le forze all’opera e le dinamiche di opposizione ai modelli che si vorrebbero dominanti. Perché, malgrado il concetto di kitsch sia diventato quanto mai sfuggente e “sembra aver perduto molta della sua ragion d’essere”, è ancora oggi utilizzato come uno strumento di “offesa”: sempre, quando si formulano giudizi di carattere estetico o culturale, la critica passa a sentenze di carattere sociale e morale, evidenziando la necessità di designare un’idea di “bello” contro il “brutto” del kitsch, di “vero” contro “falso”, di “buono” contro “cattivo”, di “giusto” contro lo “sbagliato”.

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1 Riga n.41 Kitsch, a cura di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone. Quodlibet, Macerata, 2020. p. 8

Impronta

Nel libro La somiglianza per contatto Georges Didi-Huberman riflette sull’idea e sulla tecnica dell’impronta, la pratica cioè di ottenere un’immagine somigliante – e magari anche fedele – di un oggetto senza l’imitazione ma attraverso il contatto, il rilievo o il calco. Secondo il filosofo francese l’impronta, il rapporto diretto, «indicale», del segno con il suo referente è la prima tecnologia inventata dagli uomini per produrre immagini, la sorgente stessa da cui scaturisce l’immagine; la rappresentazione e la simbolizzazione del mondo arrivano solo più tardi. 

«L’impronta – scrive Didi-Huberman – è anche l’«alba delle immagini». In un recente manuale di arte preistorica, Denis Vialou ha esaminato l’acquisizione simbolica delle forme in un ordine logico e cronologico secondo cui le «forme raccolte» precedono le «forme inventate». È come se, tra l’epoca musteriana e Lascaux – cioè il periodo che va dal 40.000 al 15.000 a.C. ca –, il prelievo e la raccolta delle forme precedesse in un certo senso la loro stessa invenzione. Come se il montaggio precedesse l’immagine, come se la mostra precedesse il dipinto, come se il globale inventasse il locale. Come se il montaggio e la mostra inventassero letteralmente la forma, e questo potere derivasse loro dal fatto che il prelievo si trasforma in forma quando diventa elemento di una struttura, di un gioco differenziale. Il ready-made, dunque, è forse antico quanto quel fiore così toccante, posato – cioè raccolto e trasportato – sulla tomba di un bambino neanderthaliano più di quarantamila anni fa, nella grotta di Ashnidar, in Iraq. Con questa ipotesi ci avviciniamo all’intuizione sviluppata da Julius von Schlosser nell’introduzione del suo celebre libro sulle Wunderkammern. Schlosser sarebbe stato senza dubbio contento di sapere che la grotta di Lescaux conteneva anche delle collezioni, e che una di esse, esemplare per il nostro discorso, riuniva conchiglie vere, conchiglie fossili e una pietra scolpita in forma di conchiglia. È facile comprendere come, in questo caso, il semplice prelievo della realtà (l’oggetto ready-made), l’impronta (qui lasciata dal tempo geologico) e la forma scolpita (l’opera d’arte) siano tre elementi indissolubili, anche se differenti, di un’unica struttura (la collezione)»1.

Per prima cosa Didi-Huberman ci dice che il prelievo e il montaggio degli oggetti precede la rappresentazione. Il prelievo di elementi del reale e la loro ricollocazione in una collezione è insomma il primo passo che l’uomo compie per la comprensione e la semantizzazione del mondo, cioè per rendere visibile l’invisibile. Raccogliere, prelevare oggetti selezionandoli dal vasto repertorio del mondo, collocarli in un luogo diverso, assegnando loro un nome diverso e una diversa funzione, cioè fare un ready-made, è quindi una pratica ancestrale. Didi-Huberman ci spiega che lo scandaloso ready-made di Duchamp, accusato di aver distrutto l’artisticità dell’arte, porta l’oggetto artistico non tanto fuori dai confini dell’arte, quanto fuori dal paradigma della storia dell’arte, per ricondurlo a una specie di passato-presente atemporale. I linguaggi contemporanei che si fondano sul prelievo, sul montaggio e sull’installazione – o, detto altrimenti, sulla collezione – di elementi del reale instaurano un dialogo di lunga durata con le forme elementari, primordiali dell’esperienza estetica, non negano l’arte ma, proiettandosi nel passato, ne dilatano i limiti e le possibilità formali. 

[N]

1 Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Traduzione di Chiara Tartarini. Bollati Boringhieri, 2009.. pp. 36-37

Controcultura

A partire dall’inizio degli anni Ottanta nasce un forte interesse per la cosiddetta cultura popolare, fino ad allora considerata come non portatrice di valori estetici o filosofici, un cambiamento in cui prendono piede quelli che vengono comunemente chiamati Cultural Studies. Di che si tratta?

Una serie di studiosi (Stuart Hall, per fare un nome1) rileggono i fenomeni culturali popolari – fumetti, musica rap o pop, romanzi rosa, film horror, ecc. – evidenziandone il valore e interpretandoli come forme di resistenza alla cultura accademica e dominante. La cultura popolare viene intesa quindi come un luogo in cui il cittadino occidentale utilizza, libero da controlli e in modo quasi carbonaro (o dadaista), ciò che gli viene imposto per il consumo. Gli studi culturali cercano di portare alla luce ciò che accade nello spazio che separa l’utilizzo di un oggetto pensato dal suo produttore in fase di progetto e il reale impiego che ne fa il consumatore. Sappiamo infatti, perché lo abbiamo imparato da Duchamp, che tra un oggetto (un orinatoio, ad esempio) e l’utilizzo che se ne può fare (esporlo in un museo come opera d’arte) si può aprire uno spazio che produce incontrollati percorsi di senso. Così anche il consumatore utilizzando i prodotti che consuma – siano un libro, uno spettacolo televisivo, del caffè – opera delle trasformazioni, delle vere e proprie ricreazioni. La cultura popolare produce i propri miti e il proprio valore esattamente nello spazio non sorvegliato che si apre tra utilizzo e consumo.

È ciò che accade nel vasto mondo del cosiddetto underground, mai compreso chiaramente dalla cultura accademica, un mondo in cui i segni, gli oggetti, le mode subiscono torsioni e trasformazioni, in cui il linguaggio pubblico e socialmente condiviso viene costantemente tradotto in tanti idiomi locali, attraverso delle tattiche di decostruzione e  montaggio. 

Il filosofo Michel de Certeau con il libro L’invenzione del quotidiano – pubblicato alle soglie degli anni Ottanta e diventato un testo chiave per la comprensione di questi fenomeni – chiarisce la dinamica di questi aspetti: «de Certeau suggerisce l’idea di un ribaltamento dell’osservazione dall’altra parte, in mezzo alla “gente” (lui la chiama proprio così). […] Il messaggio era semplice: chi non fa parte dei poteri costituiti (economici, mediali, religiosi, politici…) può solo rispondere con mosse tattiche, episodiche e pratiche. Ecco perché non ci sono teorici nei sottoscala del pianeta [della cultura]»2. (Branzaglia, Marginali. p. 7)

[N]

1 Stuart Hall in Italia è stato poco tradotto e l’argomento non si esaurisce nella pur importante attività dello studioso americano, si può fare un’ampia ricognizione sull’argomento visitando il sito studiculturali.it.

2 Carlo Branzaglia, Marginali. Iconografie delle culture alternative. Castelvecchi, Roma, 2004. p. 7

Il ritorno di Dada

1 New Dada

Dalla fine degli anni ‘40, grazie al lavoro del geniale musicista John Cage, rientrano nel discorso creativo le idee più radicali del dadaismo. Affascinato dalle filosofie orientali e dalla figura di Duchamp (morto nel 1968 da anni residente negli USA ma non ancora considerato, come oggi, l’artista più influente del Novecento) Cage abdica al ruolo di compositore in senso classico. Proprio come Duchamp, che presenta le cose del mondo anziché rappresentale, Cage abbandona la scrittura musicale accademica, cambiando per sempre il modo di affrontare il processo creativo, per lui, il concetto di musica si deve dilatare per accogliere il clamore della vita, spartito e strumenti musicali devono fare spazio a suoni e rumori e anche semplicemente al silenzio.

Nel favorevole ambiente culturale di una New York in rapida ascesa, vicino agli ambienti più sperimentali e innovativi Cage si dedica a una scrittura musicale governata dal caso (brani composti gettando i dadi) dall’accumulo di materiali differenti (collage sonori di registrazioni radiofoniche o assemblaggi di suoni e rumori) o happening in cui la musica non è altro che il suono del mondo (il celebre 4’33’’ in cui la musica consiste nello sciame sonoro che si solleva in una sala da concerti gremita, mentre il musicista “non” suona il suo strumento)1.

L’eredità di Duchamp è evidente: nel lavoro di Cage rifioriscono temi che saranno fondamentali negli sviluppi della scena artistica contemporanea. In primo luogo l‘abbandono dell’idea – dell’ossessione – secolare e tutta occidentale della preminenza del progetto sull’oggetto finito, con una conseguente perdita di controllo sul processo creativo da parte dell’artista che si mette in una inedita posizione di passività: è un’idea che arriva dall’influenza decisiva esercitata da Duchamp e dal dadaismo (gioco, bricolage, caso come modello operativo) e dalle suggestioni che le filosofie orientali stanno introducendo nella cultura occidentale. Cage porta a un atteggiamento di apertura verso nuove forme di relazione e quindi di potere tra artista, opera e spettatore. C’è l’accettazione del caso come agente fondamentale dei processi creativi, tutti concepiti attorno all’idea di “succederà quel che deve succedere”2. Il caso rende inutilizzabili i modelli prestabiliti e demolisce ogni griglia concettuale, quelle stesse griglie che imprigionano e parcellizzano il vissuto delle persone e il tempo dell’esperienza. E ancora, c’è l’idea che ogni oggetto o evento, anche sonoro, possa duchampianamente diventare un evento artistico e che non sia più possibile operare distinzioni tra i materiali dell’arte e quelli della vita, perché l’arte e la vita coincidono. Fondamentale anche la concezione di creazione come processo aperto, mai compiuto già in nuce nel lavoro di accumulo e incollaggio di Kurt Schwitters.

L’opera di Cage si fonde con quella altrettanto rivoluzionaria del coreografo Merce Cunningham che destruttura il linguaggio del balletto classico liberando i corpi nel puro movimento e trova il suo corrispettivo visivo nel lavoro di Robert Rauschenberg. I tre artisti sono attivi a New York nello stesso periodo, sono amici e molte delle esperienze più sorprendenti e innovative le compiono rilanciando ognuno il lavoro dell’altro (Cage ha affermato che il celebre pezzo 4,33” – in cui «i pianoforti borghesi sono messi a tacere»3 e la musica diventa silenzio e clamore del mondo gli è stato ispirato da alcune tele bianche esposte da Rauschenberg).

Cage si presenta, alla fine degli anni Cinquanta, come l’artista più innovativo e rivoluzionario in circolazione in virtù soprattutto dell’abbandono del suo specifico ambito disciplinate e della capacità di annettere nel proprio discorso forme, modelli, pensieri eterodossi alla tradizione musicale. Per gli artisti visivi l’opera di Cage dimostra la possibilità di uscire dalla “specificità mediale” tipica dell’espressionismo astratto che, come abbiamo visto, rappresenta il punto di arrivo dell’esperienza modernista, un abbandono che apre a nuove esperienze creative e conduce alla scoperta di infinite, inedite possibilità formali. È il primo passaggio verso quella dimensione postmediale dell’arte contemporanea che andremo a scoprire.

New Dada

Negli Stati Uniti, accanto all’Action Painting – così enfaticamente adatta alla nuova percezione che gli americani hanno di se stessi – comincia ad agitarsi un nuovo radicalismo avanguardistico: un movimento critico che risveglia i sopiti furori iconoclasti e riattiva i discorsi antisistema delle prime avanguardie. Il movimento coinvolge, come sempre, tutte le arti e in quelle visive trova il punto di massima espressione nel lavoro di Robert Rauschenberg, Jasper Johns e dei pittori e degli scultori raggruppati sotto l’etichetta di New Dada.

Il richiamo al dadaismo non è casuale, nelle esperienze della nuova generazione americana convergono tutte le innovazioni formali e le motivazioni ideologiche dei dadaisti degli anni Venti: l’utilizzo di elementi prelevati dal mondo reale; il gusto per l’assemblaggio e la contaminazione; il desiderio di uscire dalla cornice classica dell’arte per creare un linguaggio capace di confrontarsi e confondersi con la vita; il rifiuto delle convenzioni formali e sociali; la critica ai miti della moderna società della macchina.

C’è poi la consapevolezza del radicale cambiamento sùbito dalla società, trasformata nel giro di pochi anni in società dei consumi. Come prima di loro aveva fatto Kurt Schwitters gli artisti New Dada reagiscono alla sfarzosa tirannia delle merci guardano in basso, a quell’immensa discarica – di merci, immagini, informazioni, idee, miti, valori – che è il prodotto finito di ogni società dei consumi. Rauschenberg e compagni condividono il gusto per il gesto provocatorio e assumono nel loro linguaggio la pratica dell’accumulo di scarti e rifiuti e l’utilizzo del caso come forza propulsiva per la creazione: collage, ready made, fotomontaggio, happenning vengono reintrodotti nella pratica artistica.

In Rauschenberg, all’attività di accumulo di elementi raccolti a caso, così vicino allo spirito Merz di Schwitters, si unisce il gesto pittorico automatico: si crea così un rapporto contraddittorio e deflagrante tra due tradizioni distinte. Nei “Combine painting” dell’artista americano la pittura copre ogni cosa, è una patina caotica di materia che appare quasi in via di decomposizione e che pulsa al ritmo frenetico degli oggetti su cui si posa. I quadri di Rauschenberg si aprono sempre a una complessità linguistica capace di comprendere qualsiasi cosa, sia un oggetto fisico, un’immagine o un segno prelevati dalla tradizione dell’arte. Nel lavoro di Rauschenberg non esiste (come nell’opera di Cage) una distinzione tra il medium dell’arte e la ricchezza delle cose del mondo: «L’intera realtà poteva rivelarsi una sconfinata pittura»4.

Il lavoro di Jasper Johns, l’altro grande esponente del New Dada, ha caratteristiche differenti rispetto alla carica dinamica e centrifuga di Rauschenberg. Johns ha un approccio verso le cose e i segni più mediato: uno sguardo che esplora le contraddizioni linguistiche, che cerca di far deflagrare le aporie semantiche e la retorica di potenza su cui si fonda la società americana del dopoguerra. Repliche presentate come reali, icone trasformate in immagini di se stesse, figure astratte (un bersaglio, una bandiera) sottoposte a un processo di ulteriore astrazione grazie a una pittura che fa del mimetismo, e quindi della scomparsa, il suo elemento cardine. Se della filosofia Dada Rauschenberg sceglie il lato processuale alla Schwitters, Johns predilige quello concettuale di Duchamp: «Per dipingere una bandiera o un bersaglio non serve un modello, è sufficiente l’idea che si ha già nella mente. Ma cosa vuol dire, esattamente, avere l’idea di un oggetto e farla diventare immagine dipinta? Aver saputo porre questa domanda basterebbe per garantire a Johns un posto nell’arte del Novecento. Johns capì che il ready-made era la migliore garanzia per il mantenimento di forme convenzionali, in grado di arginare l’arbitrio dei linguaggi soggettivi. […] Ciò che Johns offriva all’osservazione erano schermi elementari (cerchi concentrici, linee orizzontali), in colori puri o in monocromo, che corrispondevano a oggetti reali […]»5. L’opera di Johns è in effetti una sequenza di domande sulla natura dei segni che ci circondano e definiscono.

Gli altri esponenti di spicco del movimento – John Chamberlain, Richard Stankiewicz e, in una posizione laterale, Cy Twombly, Edward Kienholz e Bruce Conner – condividono una poetica centrata su quel mondo di relitti e scarti che la società dei consumi produce incessantemente: vestigia delle merci, delle mode, dei segni, dei desideri, delle paure che definiscono l’orizzonte simbolico del cittadino moderno.

Sono artisti che partecipano a una diffusa sensibilità, americana quanto europea, che contesta la pittura astratta di matrice modernista (Action painting e storie simili) e le sue ragioni teoriche: questa è vista come celebrativa di quella cultura di massa e consumistica di cui vengono colte tutte le insidie, inoltre il modernismo pittorico è considerato elitario e incline alla trascendenza. Una dimensione misticheggiante che questa generazione di artisti rifiuta in nome di un ritorno alla realtà. Un atteggiamento – la ricerca di un nuovo rapporto con l’immanenza delle cose del mondo – che può essere considerato come anticipatore dello spirito Pop che si affermerà di lì a poco. Un realismo che si pone in diretto contatto con la realtà sociale, con i suoi miti e conflitti e che sceglie l’agone pubblico invece del romantico rifugiarsi dell’artista nel proprio linguaggio.

Il prelievo quindi – la pratica d’elezione dadaista – torna a essere l’elemento cardine su cui si fonderanno e faranno leva le espressioni degli artisti di questa côté culturale. Il prelievo di materiali del mondo, di cose quanto di immagini o suoni, conduce a un rinnovato impiego della tecnica-collage, della sua estensione tridimensionale, l’assemblaggio ambientale, l’installazione.

Nouveau réalisme

Anche in Europa il movimento del Nouveau réalisme (il manifesto del gruppo è pubblicato a Parigi nel 1960 e riassume e organizza esperienze diverse compiute autonomamente da diversi artisti in quegli anni) pone il problema di ridefinire l’attività artistica nei termini di un più stringente rapporto con la realtà e le sue contraddizioni. La relazione tra l’arte e la vita quotidiana viene messa in opera con una strategia simile a quella degli artisti New Dada riattivando la poetica dadaista del collage, dell’assemblaggio, dello sconfinamento tra le forme dell’arte e le forme della vita. È un modo di intendere il rapporto tra arte e vita come diretto, istantaneo. Il tempo quindi, diviene un elemento essenziale nella poetica dei nuovi realisti europei: non più elemento rappresentato ma nodo essenziale della creazione che avviene in un processo fluido di azioni, spesso compiute davanti a un pubblico, “dal vivo”, di cui l’opera è una tappa e non l’esito finale. Con questo mettere in primo piano il ruolo del corpo – fisico e quindi sociale – l’artista si avvicina a una dimensione performativa (già esplorata da Schwitters) in cui l’azione diviene sempre di più centrale, fino a diventare, di lì a poco, completamente autosufficiente. 

La città diventa il territorio in cui gli artisti si muovono come esploratori: manifesti strappati e dilavati (Rotella, Dufrene), accumuli di rifiuti (César), resti del rito quotidiano del consumo (Spoerri), feticci meccanici (Tinguely, Christo) diventano la materia con cui comporre le opere. Comune a tutti è una sensibilità che mette in primo piano l’esperienza diretta del reale e, in prima istanza, ripudia proprio il lirismo della pittura informale o il razionalismo dell’arte programmata e dell’astrazione geometrica su cui si fonda lo stile moderno. Formalismo e specificità mediale sono abbandonati in favore di procedimenti aleatori e aperti al caso. Gli artisti sottolineano la necessità di una pratica estetica che sappia intercettare e interpretare i multiformi stimoli che arrivano dalla realtà. L’urgenza di uscire per le strade, nella vita reale, trasforma la città stessa in materia pulsante, manipolabile, Christo soprattutto si dedicherà a interventi di scala urbana sempre più monumentali.

[N]

1 «Cage lanciò la sua rivoluzione in tre storici concerti che si svolsero nella primavera e nell’estate del 1952. Prima ci fu Water Music, alla New York School for Social Reaearch, in maggio. David Tudor non si limitò a suonare il pianoforte preparato, ma mescolò un mazzo di carte, versò dell’acqua da un contenitore all’altro, suonò un fischietto per le anatre, e cambiò stazioni alla radio. Ciascuna di queste azioni faceva parte di un continuum temporale. Poi fu la volta di Black Mountain Piece, al Black Mountain College, il primo vero e proprio happening. Il confine tra artista e pubblico sparì man mano che i partecipanti si separavano dalla folla per compiere azioni musicali o extramusicali. Martin Duberman, nella sua storia del college, tentò coraggiosamente di ricostruire quanto avvenne all’happening, ma non c’erano due racconti che combaciassero. Cage tenne una conferenza sul buddismo zen, forse stando in piedi su una scala. Robert Rauschenberg espose e/o suonò alcuni dischi di Edith Piaf a doppia velocità. Merce Cunningham danzò. David Tudor suonò il piano preparato. Furono mostrati film di qualche genere, ragazzi e ragazze servirono il caffè e forse un  cane abbaiò. Il Black Mountain era sempre stato un porto per gli spiriti avventurosi, ma alcuni membri del corpo docente ebbero la sensazione che Cage si fosse spinto troppo in là. […] L’evento clou fu la prima di 4’33’’, il cosiddetto pezzo solenne il 29 agosto, nella cittadina di Woodstock, nel nord dello stato di New York. Cage disse in seguito che a ispirargli 4’33’’ era stata una serie di tele bianche di Rauschenberg esposte al Black Mountain un anno prima. “la musica è rimasta indietro” pensò tra sé quando conobbe il lavoro di Rauscenberg. […] La partitura originale era scritta sulla tradizionale carta pentagrammata, tempo = 60, in tre movimenti. David Tudor salì sul palco, si sedette al pianoforte, sollevò il coperchio e non fece nulla, se non chiuderlo e riaprirlo all’inizio di ogni movimento: la musica era il suono dello spazio circostante. Era al tempo stesso un vertiginoso enunciato filosofico  e un rituale contemplativo simile a quelli zen. Era un pezzo che avrebbe potuto scrivere chiunque, come gli scettici non mancarono mai di sottolineare, ma, come di rado Cage evitò di replicare, nessuno l’aveva fatto». Alex Ross, Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo. Traduzione di Andrea Silvestri. Bompiani, Milano, 2009/2011. pp. 587-588.

2 Ivi,. p.586.

3 Ivi, p.588.

4 Alessandro Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento. Einaudi, Torino, 2013. p. 24. 

5 Ivi, p. 24. 

2 Pop per tutti

La Pop art così come la conosciamo è soprattutto quella americana, il movimento però prende avvio nel Regno Unito e si coagula attorno al lavoro dell’indipendent group: Peter Blake, Eduardo Paolozzi, Richard Hamilton, Peter Phillips, Joe Tilson e David Hockney –I Questi artisti e altri intellettuali hanno cominciato il loro percorso a Londra nei primi anni Sessanta centrando il loro interesse sulla società dei consumi, con i suoi ambienti, i suoi miti, riti e feticci. C’è una grande attenzione alla cultura di massa, non più guardata con occhi sospettosi e critici, ma vista come una vasta narrazione da cui attingere liberamente. È vero che l’approccio degli artisti inglesi appare a volte in bilico tra partecipazione e distacco ironico, tuttavia viene meno l’atteggiamento critico tipico degli esponenti degli ambienti della cultura cosiddetta alta (così intrisi di idealismo e di sussiego accademico) che li teneva staccati dal vero cuore cultura popolare. Sono proprio quegli elementi di eccesso e clamore – considerati volgari – tipici della pubblicità ad attirare l’interesse di Hamilton, Blake e Paolozzi che, proprio su questi, andranno a formare il proprio alfabeto. Il lessico è naturalmente quello portato in dote dal dadaismo: collage e assemblaggio come arnesi elementari per vagabondare tra le immagini, per accumulare segni e significati, per restituire allo sguardo dell’osservatore l’immagine di una società che vive il proprio boom consumistico e diventa ogni giorno più mobile e frenetica, chiassosa e colorata, instabile e contraddittoria, narcisista e libera. 

Ma è negli Stati Uniti– dove il mercato e i media conoscono la loro piena maturità – il luogo in cui la poetica della Pop art trova il terreno per dispiegare le proprie potenzialità. Gli artisti possono attingere all’immenso patrimonio messo a disposizione dalla cultura di massa utilizzando gli strumenti linguistici delle prime avanguardie, impiegandoli però con un diverso atteggiamento: la carica iconoclasta e eversiva che aveva dato origine a ready-made, collage, happening e assemblaggi scompare. Le tecniche dadaiste non sono utilizzate per irridere la società borghese ma per raccontarla con un’adesione priva di critica, con una partecipazione e un’enfasi completamente nuove.

La caratteristica principale nelle opere di Warhol e compagni è la mancanza del tempo. Proprio il tempo, che con le sue scansioni inumane, portatrici di alienazione e nevrosi aveva ossessionato gli artisti delle prime avanguardie, diventa, scomparendo, l’elemento eminente dell’estetica Pop. Il motivo è semplice: nel mondo delle merci non esiste lo svolgersi del tempo, la successione cronologica, la narrazione del vissuto: esiste soltanto il presente del consumo. Allo svanire del tempo – e del vissuto psicologico che con esso si stratifica – segue anche la scomparsa della profondità: le immagini degli artisti Pop sono piatte, senza sviluppo spaziale; la stratificazione delle immagini e dei segni non porta mai a un accumulo di senso, proprio come l’esperienza quotidiana del consumo non tocca mai una reale profondità interiore1.

La modernità è stata un processo di meccanizzazione che ha trasformato la società generando nuovi linguaggi (fotografia, cinema, televisione), nuovi modelli politici (democrazia rappresentativa, burocrazia) ed economici (mercato, capitalismo industriale). Alla meccanizzazione si opponevano – con un ritorno alla pittura e al lirismo gestuale – gli artisti dell’Action painting e, al contrario, sulla meccanizzazione si fondano tutte le tecniche della Pop art. La Pop art rappresenta lo stile anti-espressionista per eccellenza, le tecniche predilette sono quelle in cui la presenza dell’artista (mano, corpo, biografia) evapora completamente; i procedimenti meccanici di riproduzione delle immagini, come la serigrafia, la fotografia e il video, o l’utilizzo di materiali industriali freddi e amorfi come la plastica, sono preferiti a pennelli e colori2.

L’artista si mette in una posizione di indifferenza in cui la soggettività è anestetizzata, con questa anche il rapporto con la flagranza delle cose che non sono mai rappresentate direttamente. È importane notare che gli artisti Pop dipingono non gli oggetti ma le immagini degli oggetti, comincia a prendere il concetto di “simulacro”, centrale nella cultura postmoderna: la realtà scompare sotto la sua rappresentazione. È il motivo per cui nei quadri Pop – specialmente in quelli di Warhol – le immagini sono ripetute e serializzate: come in un redy-made non esiste un originale, ogni oggetto, ogni immagine è una replica. La lezione di Duchamp – indifferenza verso gli oggetti, assenza di soggettività, caso, mancanza di narrazione e di emotività – trova nella Pop art uno sviluppo originale. Sulla scorta del retaggio dadaista, le esperienze New dada come quelle Pop sono, più che modelli per produrre immagini, procedimenti per trasformare le immagini e le immagini sono a tutti gli effetti ready-made.

La metafora più adeguata per descrivere l’estetica Pop è quella dello scaffale del super mercato, in cui le merci si dispongono senza gerarchia, indifferentemente e si offrono al consumo senza alcuna ipocrisia: quello che appare in superficie, sull’etichetta, corrisponde a quello che c’è in profondità, nella confezione. Così come i prodotti dello scaffale anche le immagini dei media – e i miti che veicolano – sono utilizzate in modo acritico e inespressionista in una equivalenza di elementi che sussiste anche per i valori morali, per la vita o per la morte, per il senso del passato e del futuro. Esemplare come sempre l’opera di Warhol in cui il volto di Marilyn o di Mao, la bottiglia della Coca-Cola, la sedia elettrica, un incidente automobilistico vengono rappresentati – in una sorta di atarassia etica – allo stesso modo, senza variare stile, emettere giudizi o prendere posizione.

Tutto questo porta a immagini prive di ombre – fisiche e simboliche – in cui ogni elemento è perennemente illuminato ed esposto in un infinito e rutilante spettacolo (lo “Spettacolo”, secondo Guy Debord, è l’elemento costitutivo del nuovo capitalismo), in cui la merce diventa il motivo attorno al quale si costruiscono le relazioni sociali (consumo come collante per gruppi di persone); le definizioni di se stessi (sono quello che consumo) e diventano possibili le esperienze (consumo quindi vivo). Il progetto delle prime avanguardie di produrre un’arte capace di ritrovare il nesso con la prassi della vita, trova nella Pop art un nuovo esito. Abbandonati i toni critici e gli atteggiamenti radicali, gli artisti Pop riconoscono che le merci, il consumo e i media di massa sono l’effettiva realtà della società contemporanea: la Pop art è a tutti gli effetti una nuova forma di realismo.

Pop art in Italia

Anche in Italia l’estetica Pop trova artisti che, seppure nella peculiare differenza delle posizioni, si possono facilmente accostare ai colleghi inglesi o americani. Il principale esponente del Pop italiano è Mario Schifano che interpreta genialmente le sollecitazioni che gli arrivano dalla nascente società dei consumi (l’Italia vive in quegli anni il suo boom economico) e dagli imponenti cambiamenti, materiali e sociali, che la modernità porta con sé.

Mario Schifano è per certi versi un pittore di paesaggi, un artista affascinato dai fenomeni e dagli elementi naturali, la natura è però ormai completamente urbana e mediatica, frenetica e impermanente. Per questo la pittura di Schifano è veloce, istantanea, prodotta sempre in una specie di presa diretta, in un inseguimento continuo con le immagini (arriverà a disegnare sugli schermi televisivi, a manipolare i segni nel momento stesso della loro formazione). Come per Warhol, l’orizzonte di Schifano è puntellato da immagini pubblicitarie, insegne, emissioni televisive e la realtà è fatta non di oggetti ma di immagini di oggetti. Al contrario dell’artista americano, in cui la dimensione temporale è azzerata, in Schifano esiste una frenesia vorace e instancabile, un rapporto non mediato, quasi automatico con gli elementi del mondo – un atteggiamento che oggi, nella società del flussi continui di dati e della connessione permanente, rende Schifano un autore più che mai attuale. Per Schifano le immagini esistono in un presente perenne – che lo porta ad affermare: «io non ho antenati»3 – una dimensione fluida, inarrestabile, immersiva, irriflessiva da cui germinano continuamente, quasi spontaneamente, nuove immagini4.

Nell’orizzonte Pop italiano altre figure si affiancano alla grandezza di Schifano: Tano Festa che manipola le icone della nostra cultura, evidenziandone l’effettivo il ruolo di feticcio; Franco Angeli, più attento alla dimensione politico; Valerio Adami che inscena il racconto della banale superficialità della vita contemporanea; e in modo più appartato, Domenico Gnoli, che indaga con pazienza la dimensione domestica – fatta di elementi sospesi nel tempo – tessendo inusitati percorsi che dalla modernità Pop portano alla tradizione della pittura metafisica.

[N]

1 In una intervista del 1963 Andy Warhol risponde a Gene Swenson: «Perché hai cominciato a dipingere minestra in scatola? Perché mangiavo quelle minestre. A quel che ricordo, a pranzo, ho mangiato lo stesso piatto per vent’anni, lo stesso identico piatto, senza mai cambiare. Qualcuno ha detto che sono in balia della mia vita: mi piace quest’idea». Elio Grazioli (a cura di) Pop art. Interviste di Raphael Sorin. Traduzione di Elio Grazioli. Abscondita, Milano, 2007. p. 69.

2 L’assenza della flagranza del gesto pittorico, effusivo e narrativo, sarà il paradigma a cui si atterranno gli artisti Neo pop degli anni Ottanta e Novanta, non a caso chiamati anche “inespressionisti”. Sul tema vedi, Germano Celant, Inespressionismo. L’arte oltre il contemporaneo. Costa & Nolan, Genova, 1988.

3 In Mario Schifano, approssimativamente, volume allegato al DVD del film di Luca Ronchi Mario Schifano tutto. Feltrinelli Real cinema, Milano, 2008. p. 49

4 Con le parole di Federica Di Castro: «L’artista usa la polaroid [macchina fotografica istantanea] per edificare l’architettura delle propria memoria visiva senza prefiggersi alcuna successione temporale e duplica le immagini televisive e quelle della vita, senza distinzione alcuna, vuoi perché le une derivano dalle altre, vuoi perché agiscono le une sulle altre. Un continuum, costituito dalla nuova composita costellazione di segni, si realizza nella sua mente. E tuttavia le immagini sono anche oggetti, non solo punti dell’immaginario, non solo tracce del vissuto personale e pubblico. Oggetti, personaggi, paesaggi si assemblano con comuni e intercambiabili qualità. occupando uno spazio fisico che vale quello mentale. L’imparzialità dello schermo è diventata quella dell’occhio; attraverso la macchina l’universo è oggettivo. L’artista è al di qua, alieno a ogni appartenenza». Federica Di Castro (a cura di) Mario Schifano viaggiatore notturno. De Luca Editore, Roma, 1980.