Arte

Tempo postmediale

Viviamo in un mondo in cui le immagini proliferano e si moltiplicano a un ritmo sempre maggiore, in un intreccio vertiginoso e inestricabile di medium vecchi e nuovi. Internet, la storia dell’arte, la televisione, la carta stampata, gli scenari urbani, le produzioni personali e sommerse… tutto si mescola e sovrappone creando un universo in continua trasformazione in cui non sembra possibile individuare gerarchie e punti di origine: l‘iconosfera contemporanea si presenta come un’immensa periferia priva di un centro d’attrazione e, conseguentemente, di parametri di orientamento e di giudizio. Non è una novità, la storia dell’arte moderna racconta proprio di questa progressiva “perdita del centro”1 e della caduta dell’idea di specificità mediale, l’idea cioè che ogni media fosse dotato qualità intrinseche e originali.

Alessandro Del Puppo nota come «Il modernismo aveva giudicato e valutato un’opera all’interno della tradizione codificata del medium specifico, che forniva tutte le possibili risorse di sperimentazione e giudizio. La fotografia e il redy-made misero in crisi questo modello. I vari medium non sembravano consentire più criteri di valutazione interna. La crisi divenne irreversibile con lo sviluppo delle immagini tecnologiche, avviando un’èra «postmediale» […]: dietro ogni immagine, c’è sempre un’altra immagine. Essa poteva derivare dalle fonti della tradizione pittorica, oppure dal fumetto, dalla réclame o dal cinema […]. Ogni immagine era mediata dalla riproduzione. Ciò che contava era la coscienza di questo fatto»2.

Anche oggi, ciò che conta è la coscienza che “dietro ogni immagine, c’è sempre un’altra immagine”: il lavoro “creativo” consiste dunque nell’elaborazione consapevole di questo “dietro” dell’immagine. L’assunzione degli intrecci e delle sovrapposizioni che stanno dietro e dentro a ogni immagine può, come abbiamo già notato, avvenire solamente attraverso un’attività di montaggio capace di restituire l’immagine al processo – alla “fenomenologia” – da cui è scaturita. 

[N]

1 “Perdita del centro” è il titolo di un celebre libro di Hans Sedlmayr in cui lo storico sostiene la tesi che la perdita del “centro” e quindi l’esplosione dei linguaggi contemporanei, non sia semplicemente linguistica, ma ontologica: Il centro perduto è “spirituale”. Così, priva di un centro l’arte, e più in generale, la cultura del Novecento è attraversata da tensioni contrastanti, a volte divergenti, che producono, secondo Sedlmayr, quei “mostri della Ragione impazzita” tipici del mondo contemporaneo1

2 Alessandro Del Puppo, L’arte contemporanea. Il secondo novecento. p. 122

Documents

Documents, è una rivista di arte e antropologia pubblicata a Parigi tra il 1929 (7 numeri) e il 1930 (8 numeri), vi lavora il giovane Georges Bataille in veste di “segretario generale”, cioè direttore, assieme a personaggi del calibro di Carl Einstein e Michel Leris. Documents è un’esperienza innovativa e seminale costruita come un insieme di intrecci tra le forme più diverse della cultura occidentale con le culture extra-occidentali, dell’arte moderna con quella etnografica, in cui all’importante contenuto teorico, si unisce una straordinaria attività di messa in questione delle immagini. Scrive Geroges Didi-Huberman: «vedremo come in questa rivista venga intessuto con pervicacia un reticolo di figure attraverso collages e montaggi destinati non a illustrare, ma a prolungare nell’apparenza, sull’apparenza, il lavoro sconcertante dei concetti e delle parole. E, a volte, a dedurre il primo (il lavoro sui concetti) dal secondo (il procedimento figurale)»1.

Documents si serve di un apparato iconografico che non illustra ma espande il contenuto dei testi e crea sovrapposizioni, rimandi e decostruzioni, «La posta in gioco di questo “lavoro”, in un conflitto così fecondo, non è altro che un nuovo modo di pensare le forme: il processo contro i risultati, le relazioni labili contro i termini fissi, le aperture concrete contro le chiusure astratte, le insubordinazioni materiali contro le subordinazioni all’idea. Questo nuovo modo di pensare le forme è stato al cuore delle attività delle avanguardie artistiche e teoriche degli anni Venti, di cui Georges Bataille, così come Carl Einstein o Michel Leris, aveva scoperto e compreso l’incomparabile valore sovversivo»2.

Evidentemente per questi giovani l’obiettivo è non tanto parlare di arte o antropologia ma mettere in crisi e scardinare elementi cultura occidentale che si ritenevano stabili e inviolabili, per fare questo per Bataille e compagni agiscono sugli apparati iconografici esibendo immagini perturbanti altrimenti impossibili. Un tentativo di “mostrare tutto”, inteso non come desiderio di suscitare superficiali emozioni di ripulsa o attrazione ma, piuttosto, sondare i limiti dello sguardo: «per mostrare tutto, si suppone che regnino disparità, discordia e disarmonia. Eppure, disparato non significa senza rapporto, come “Documents” si sforza di mettere in pratica creando ovunque rapporti visivi e significanti, cioè, molto spesso, somiglianze irritanti, somiglianza stridenti e, per dirla senza mezzi termini, somiglianze che gridano. Bataille faceva spesso uso dell’espressione “che grida” per parlare di aspetti visivi; il suo ruolo di “segretario generale” gli permetteva di far “gridare” dappertutto parole (soggetti, testi) e immagini (oggetti, fotografie) nelle loro reciproche disposizioni, negli effetti del loro montaggio. L’atto trasgressivo non sta quindi solo nel superare i limiti, ma anche, allo stesso modo, nel rendere i limiti mobili, fuori posti, denigrati, “reincollati” e uniti in “certi punti precisi”, proprio dove non ce lo si aspetterebbe; dove, tuttavia, la relazione è diventata tanto “decisiva” da essere “irritante”»3. Ecco allora che l’uso di questi montaggi di immagini diventa un atto trasgressivo nei confronti dei codici e delle gerarchie. Per Bataille, «La trasgressione non è rifiuto, ma apertura di una mischia, un assalto critico, nel luogo stesso in cui si trova ciò che, nello scontro, viene trasgredito»4.

[N]

1 Didi-Huberman, La somiglianza informe. p. 39

2 Ivi, p. 24

3 Ivi,pp. 42-43

4 Ivi,p. 22

Writing e street

Se i graffiti (o writing) si sviluppano seguendo una dimensione ornamentale, la street art, nata a partire dagli anni Novanta, si fonda su un immaginario di derivazione fumettistica e visionaria di chiara matrice surrealista (e quindi, ancora, dadaista). Le immagini della street art si producono quasi sempre attraverso il meccanismo del perturbante: «il familiare che si ripresenta sotto nuove vesti e in un altro contesto come non-familiare, come insieme noto ma portatore di ignoto»1. Nella street art le immagini che conosciamo e diamo per acquisite subiscono sabotaggi, torsioni e modificazioni logiche e sintattiche, sono sottoposte a giochi di inversione e sfasamento. Il lavoro di Banksy è di una chiarezza esemplare, ogni immagine prodotta dall’artista inglese sovverte le immagini e il nostro modo abituale di recepirle e può essere considerato come una versione molto aggiornata della Gioconda baffuta o di un ready-made di Duchamp, in cui l’immagine e il suo contenuto o l’oggetto e la sua funzione vengono disgiunti; la separazione produce delle immagini o degli oggetti ambigui e quindi perturbanti.

Il dialogo della street art con il fumetto avviene anche sul piano della lotta controculturale: da sempre considerato una forma minore, un sub-linguaggio  irrazionale destinato alle classi popolari o ai bambini, non portatore di valori estetici o linguistici (simile in questo all’ornamento) il fumetto ha prodotto nel Novecento un proprio specifico immaginario. Una marginalizzazione rispetto al discorso culturale che gli ha permesso di muoversi al di fuori o al di sotto delle censure del potere e del controllo accademico che hanno condizionato altri linguaggi. Non a caso, dagli anni Sessanta, con l’esplosione dei movimenti antagonisti, il fumetto – con altre forme minori e popolari come la musica rock, la letteratura di fantascienza, il cinema horror – è stato il veicolo di innovativi e radicali contenuti contro-culturali. Non diversamente oggi, sebbene al fumetto come linguaggio venga riconosciuta la complessità che gli è propria e quindi una certa dignità (anche se questa non viene riconosciuta ai suoi fruitori considerati sub-lettori, né alla maggior parte dei suoi autori) il fumetto è oggi un territorio espressivo che si estende ai margini dell’ambiente culturale e in questi margini lambisce la contro-cultura della street art. Il linguaggio fortemente iconico e grafico del fumetto si presta perfettamente a essere declinato nelle strade, la sua struttura fondamentalmente narrativa può essere trasferita nei grandi contesti urbani per raccontare storie erratiche e difformi, visionarie e perturbanti.

Ma la street art opera con le immagini rielaborando anche un altro grande portato della cultura artistica del Novecento, grazie cioè all’utilizzo di tattiche creative improntate al bricolage. Arrangiarsi con quello che si ha: adattandosi all’ambiente in cui è possibile operare riutilizzando ciò che si possiede, trasformando gli oggetti e gli strumenti che si hanno a disposizione – siano colori o nastri adesivi, muschio o pezzi di stoffa, stickers o lana lavorata all’uncinetto. Far nascere l’immagine dal contesto affidandosi a pratiche rizomatiche, aperte e abduttive e non calarla dall’altro seguendo strategie premeditate. Muoversi in tutte le direzioni, tastando tutte le possibili connessioni senza un progetto, come faceva Kurt Schwitters all’opera nel suo Merzbau che, incollando ogni sorta di oggetto senza uno progetto, e forse senza anche uno scopo preciso, produceva pensiero stando dentro alle cose.

[N]

1 Grazioli,  Arte e pubblicità. Bruno Mondadori, Milano, 2001. p. 96

Decorazione antagonista

Le pratiche writing si fondano su una sostanziale dimensione ornamentale autogenerativa alla quale si unisce la dinamica antagonista: nello spazio urbano integralmente codificato dalla comunicazione ufficiale e consentita (in primo luogo pubblicitaria e pertanto normativa e unidirezionale) si libera l’energia ornamentale (gratuita, anonima e polidirezionale) che costituisce un’interferenza, o un sabotaggio, alla pianificazione dell’immaginario.

Abbiamo già notato come, all’inizio della modernità, l’ornamento abbia subito una dura scomunica perché ritenuto primitivo, degenerato e femmineo per essere quasi totalmente espunto dal nostro orizzonte visivo (quale città moderna può oggi accogliere facciate di palazzi decorate e dipinte, o un arredo urbano che non sia rigidamente funzionalista?) «ironia del destino – scrive Faletra – che vede oggi il ritorno dell’ornamentazione urbana sotto le spoglie del “vandalismo”, del “delitto”» dei graffiti. I graffiti, frutto di classi sociali subalterne, di primitive tribù urbane e «ponendosi oltre il potere simbolico istituito del linguaggio e opponendosi a qualsiasi norma estetica, sono il sintomo di un’alterità sociale irrisolta. Inoltre in questo rifiuto [della società verso i graffiti] c’è da leggere una vecchia sopravvivenza dell’idea di “buon gusto” borghese, secondo cui esisterebbero “arti primitive” o “popolari” intese come sinonimi di regressione. In questa accezione l’ornamento sarebbe indice di frivolezza, di superficialità, una pratica ritenuta per convenzione inferiore all’arte razionale».1

Insomma, cacciato dal discorso culturale all’alba della modernità perché irrazionale, primitivo, popolare, femmineo, antieconomico, disfunzionale… il decorativo torna ad affacciarsi nella nostra cultura grazie a un movimento creativo che ha trasformato quegli elementi avvertiti come dis-valori lungo tutto il Novecento in una strategia operativa. La pratica ornamentale trova nel razionale contesto urbano il luogo perfetto in cui fiorire in modo rizomatico, clandestino e antagonista, opponendo alla pulizia e all’ordine modernista la sensualità e la libertà di un immaginario non conforme e non ottimizzato. Riprendendo le parole di Buci-Glucksmann, possiamo dire che il writing, se guardato dalla prospettiva del decorativo, mostra l’emergere di quella «modernità più “intempestiva”, per non dire controcorrente, che si situa in una costellazione di tempi differenziali e rifiuta i grandi dualismi tra arte nobile e arte applicata, tra maschile e femminile, occidentale e non-occidentale, organico e artificio»2

La cultura si ritrova così a confrontarsi con una dimensione estetica, creativa ma anche politica e sociale che la mitologia razionalista e funzionalista del modernismo ha tentato di espellere o purgare lungo il corso del Novecento. Una dimensione in cui «Un gesto staccato dalla funzionalità come quello inoperoso dei graffiti, liberato dall’economia della forma estetica, vaga, erra nell’indeterminatezza non di uno spazio, ma di un non-luogo come può esserlo un muro o una superficie che esiste fuori da una cornice quale presupposto di ogni rappresentazione. Il gesto non produce informazione (messaggio), non produce neanche comprensione (segno), ma se produce qualcosa è tutto il resto, ciò che non rientra nell’uso utilitaristico, che produce uno scarto, una differenza che non si serve delle opposizioni, poiché non scambia con nessun’altra condizione, ma solo con se stesso: in altri termini il resto è autopoetico»3.

[N]

1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmediabooks, Milano, 2015. pp. 13-14

2 Christine Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento. Traduzione di Simone Verde. Sellerio, Palermo, 2010. p. 29

3 Faletra, Cit, p. 96

Writing e tutto il resto

La cultura dei graffiti – termine impreciso e rifiutato da tutti i suoi autori che preferiscono definirsi writer – comincia ad emergere alla fine degli anni Settanta e dall’universo underground si impone sulla scena mondiale durante gli anni Ottanta. I graffiti non sono nati come una pratica estetica né tantomeno artistica ma come una prassi sociale, come espressione di un gruppo, di una tribù urbana. Nelle scritte, nei tag che cominciano ad apparire nei muri delle metropoli statunitensi ed europee manca prima di tutto l’affermazione di una soggettività intesa in senso classico. L’espressione del sé avviene seguendo strategie differenti. Nel libro “Graffiti, poetiche della rivolta”, riprendendo le parole dei filosofi Deleuze e Guattari, Marcello Faletra afferma: «scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare […]: più che a un “io penso” queste linee di fuga – le lettere – sono un “io senso”»1. Un’idea di affermazione che è anche una pratica di sovversione perché, con il suo essere anti-sistematica, anti-espressiva, erratica e auto-riflessiva (e fondamentalmente antagonista e vandalica) mette in discussione, prima di tutto, il linguaggio socialmente condiviso che ci viene imposto dai sistemi di potere e quindi mina la «comunicazione codificata»2 volta sempre a trasmettere un contenuto dotato di senso. I graffiti – e le azioni creative che si svolgono nella scena urbana – sono strategie anti-comunicative, tattiche di sovversione dello spazio (integralmente codificato, controllato, lottizzato) che infiltrano elementi di critica e disordine di chiara matrice situazionista (e quindi dadaista) e interrompono il flusso controllato e unidirezionale della comunicazione massmediatica – dall’alto al basso, dal centro alla periferia, dal produttore al consumatore – con un controflusso che dal basso torna al basso, dalla periferia si ramifica in modo rizomatico nella periferia stessa e si rivolge a un consumatore che è lo stesso produttore.

Le strategie writing sono squisitamente ornamentali, se con ornamento si intende la creazione di pattern in movimento continuo e autogenerativo: ramificazioni, sovrapposizioni, sdoppiamenti e specchiamenti. Una dinamica in cui si produce un avvilupparsi di linee e forme che ha come esito quello di condurre alla perdita di funzionalità e funzione della forma comunicativa trascinando la forma stessa – cioè la scritta, per antonomasia comunicazione pura – nell’astrazione. Su questo punto il writing riallaccia (più o meno consapevolmente, non importa) il proprio discorso formale con la tradizione millenaria della decorazione, fatta di motivi intrecciati in pattern astratti e, nei suoi fondamenti, di un horror vacui capace di affievolire ogni idea di identità isolabile e identificabile. Questo comporta anche l’impossibilità di applicare norme estetiche razionali e valori generati a priori, palinsesti concettuali da cui far discendere la forma, poiché essa – la forma – si genera da sé, per «morfogenesi»3 e modificazione continua dello stato della materia, in questo caso linguistico-figurativa.

Quella funzione di mediazione, che abbiamo visto essere centrale nella filosofia dell’ornamento, si trova quindi declinata in modo tanto nuovo quanto paradossale: non si tratta più di mediare tra forma e contenuto, tra significato e significante, quanto di disgiungere la forma dai contenuti, i significati dai significanti, scoprendo, in questa disgiunzione, uno spazio di libertà altrimenti inagibile.

«La cosa interessante – scrive Faletra – è che spesso le lettere dei writer sono illeggibili, indecifrabili a un primo approccio. Che cosa significa questo? Innanzitutto che il significante è libero, non subordinato al significato, al senso, al referente. La lettera, benché leggibile ad una attenta visione […] per esistere a pieno titolo, non ha bisogno del messaggio»4. Una abdicazione dalla funzione comunicativa che permette alla forma di esprimere null’altro che se stessa e liberare quell’energia autogenerata, grafica e squisitamente decorativa di cui si è detto.

[N]

1 Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmediabooks, Milano, 2015. p. 44.

2 Ivi, p. 40.

3 Ivi, p. 59.

4 Ivi, p. 74.

Nihil Obstat

Attività editoriale fai-da-te, scritti d’occasione e pagine sparse.

LIBRI E QUADERNI

Sylvester dice cose

Esercizi di pareidolia, tre. 2022. Nihil Obstat.

Rocky, Rambo, Barney. Un quaderno dedicato ai monologhi di Sylvester Stallone. Amici, roba forte.

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Apologia del disertore

Esercizi di pareidolia, due. 2021. Nihil Obstat.

Jena Plissken: eroe, criminale, star, fuggiasco. Il più grande eroe del “mio” cinema.

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Demolire le Utopie

Esercizi di pareidolia, uno. 2021. Nihil Obstat.

Su John Spartan, sul futuro e su come demolirlo. 

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Teoria e pratica del ready-made. Cento voci sul bell’e pronto.

2021. Riedizione di TePdR-M per Sartoria editoriale di Postmediabooks.

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Teoria e pratica del ready-made. Un libro fai-da-te sul trovato-fatto, in cento voci.

2020. Nihil Obstat.

Citazione e commento: cento riflessioni, non sempre pertinenti, sul ready-made e tutto il resto.

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Ready/Merz

2014. Nihil Obstat

Cos’è l’arte contemporanea? Come funziona l’arte contemporanea? Esiste l’arte contemporanea?

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RECENSIONI E ALTRI TESTI

ArtsLife. 30 luglio 2024

Il premio di ogni dialogo: Piero Manzoni diventa stile.

Sull’incontro tra Maria Calderara e Piero Manzoni

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ArtsLife. 21 giugno 2024

Multum in parvo: il Museo Burel a Belluno

Visita al Museo Burel di Belluno

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ArtsLife. 11 maggio 2024

Il plagiatore plagiato.

Sulla causa per plagio intentata da Anthony James a Maurizio Cattelan

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ArtsLife. 13 marzo 2024

Eric Hebborn (uno dei più grandi falsari della storia): l’intelligenza naturale della mano.

Recensione al libro “Il linguaggio della linea” di Eric Hebborn.

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Doppiozero. 7 gennaio 2024

Vicenza: l’arte sfida il tempo.

Recensione della mostra “Caravaggio, Van Dyck, Sassolino”.

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ArtsLife. 13 dicembre 2023

I problemi di creare, vendere e comprare: l’opera d’arte in tribunale.

Recensione al libro di Alessandra Donati e Novelio Furin.

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ArtsLife. 9 novembre 2023

Fantastico reale. Oscar Giaconia alla Fondazione Coppola di Vicenza.

Sulla mostra alla Fondazione Coppola.

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Artribune. 21 marzo 2023

La collaborazione fra la stilista Maria Calderara e l’artista Luca Maria Patella.

Questo è burro, un testo per una collezione di Maria Calderara.

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ArtsLife. 5 gennaio 2023

Stranieri a noi stessi: alla ricerca delle porzioni di cielo di Luca De Angelis.

Recensione della mostra alla Fondazione Coppola.

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Doppiozero. 16 agosto 2022

DAN! La vita nuova di Luca Maria Patella.

Recensione al libro “DAN” di Luca Maria Patella.

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Exibart. 28 febbraio 2021

L’ostinatamente eccentrico riletto.

Recensione al libro di Elio Grazioli, “Luca Maria Patella disvelato”.

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Artribune. 1 gennaio 2020

L’arte contemporanea in versione romanzata. La nuova edizione del libro di Serena Giordano.

Recensione al libro di Serena Giordano “Il dentista di Duchamp”.

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Il luogo del senso

2023. Incipit. Testo per la mostra di Fabio Ferrando.

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Accompagnare la Forma

2022. Il luogo delle nuvole. Testo per la mostra di Agostino Gallio a Villa Caldogno.

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Viaggio intorno alla mia stanza

2016. Weber&Weber arte Contemporanea, Torino. Testo (e progetto) per la mostra di Bruno Lucca.

Utensili e apparecchi

Vilém Flusser, filosofo e critico dei media, ha dedicato un breve e denso libro alla fotografia, non un esame su estetica, storia o contesto ma una riflessione sulla filosofia della fotografia, su ciò che è sotteso e muove (sebbene non sempre percepito o compreso) la pratica quotidiana di ogni persona che tiene tra le mani un apparecchio fotografico, sia una reflex professionale sia uno smartphone. L’autore comincia il suo percorso cercando di capire meglio che cos’è la “macchina fotografica”, cioè lo strumento potente e sofisticato, frapposto tra il nostro sguardo e il mondo, da cui scaturisce il processo stesso. Nella società preindustriale – spiega Flusser –, l’uomo utilizza “utensili”, cioè prolungamenti del corpo; con gli utensili informa l’oggetto attraverso il “lavoro”, il risultato si chiama “opera”. Nella società industriale, gli utensili incorporano la scienza e diventano “macchine”, il rapporto con l’uomo si capovolge, prima l’utensile era la variabile e l’uomo la costante, poi l’uomo diviene la variabile e la macchina la costante.

Poi ci nono sono gli “apparecchi”: «La categoria fondamentale della società industriale è il lavoro: strappando oggetti dalla natura e informandoli, modificando cioè il mondo, utensili e macchine eseguono un lavoro. Gli apparecchi però non lavorano in questo senso. Il loro intento non è trasformare il mondo, ma trasformare il significato del modo. La loro intenzione è simbolica. […] Il fotografo non lavora in senso industriale, ma qualcosa pur sempre fa: produce, elabora, immagazzina simboli»1.

La “natura” degli apparecchi è tale da imporre una analisi più approfondita: «La critica tradizionale, proveniente dal mondo industriale, non è purtroppo adeguata al fenomeno degli apparecchi. Essa non tiene conto dell’essenza degli apparecchi, ovvero della loro automaticità. E precisamente questo dev’essere criticato. Gli apparecchi sono stati inventati per funzionare automaticamente, ovvero in modo autonomo rispetto a futuri interventi umani. Questa è l’intenzione che li ha creati: disinserire l’uomo da essi. E questo intento ha avuto successo. Mentre l’uomo è sempre più spesso disinserito, i programmi degli apparecchi, questi testardi giochi di combinazioni, si arricchiscono sempre più di elementi; sono sempre più veloci nelle loro combinazioni e superano la capacità dell’uomo di comprenderne le intenzioni e di controllarli. Chiunque abbia a che fare con apparecchi, ha a che fare con “black box” che non può comprendere»2.

Flusser pubblica il suo libro nel 1983 e oggi, a quarant’anni di distanza, in un presente governato da apparecchi che funzionano automaticamente anticipando i nostri comandi ed eludendo la nostra comprensione, capiamo quanto la sua analisi abbia colto nel segno. Ma Flusser non è un filosofo apocalittico, in chiusura del suo testo riflette possibilità di sfuggire all’automatismo degli apparecchi attraverso il pensiero: «La libertà è la strategia per sottomettere caso e necessità all’intenzione umana. Libertà significa giocare contro l’apparecchio. […] La filosofia della fotografia deve rivelare che nell’ambito degli apparecchi automatici, programmati e programmanti non vi è posto per la libertà umana, per mostrare infine come comunque sia possibile aprire uno spazio alla libertà. La filosofia della fotografia ha il compito di riflettere su questa possibilità della libertà – e dunque del conferimento di senso – in un mondo governato dagli apparecchi; di riflettere su come l’uomo possa, nonostante tutto, dare un senso alla propria vita di fronte alla necessità contingente della morte. Una filosofia è necessaria, poiché è l’unica forma di rivoluzione che ci sia ancora concessa»3.

[N]

1 Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia. Traduzione di Chantal Marazia. Bruno Mondadrori, Milano 2006. p. 27.

2 Ivi, p. 99.

3 Ivi, pp. 109-111.

Sulla strada

Nel corso del Novecento la città moderna è stata (spesso) avvertita dei suoi abitanti come una struttura rigida, una gabbia ineluttabile, un luogo interamente amministrato, normato, controllato, uno spazio da liberare e scardinare, o da cui evadere. Inevitabile quindi che proprio nella città si sia giocata la partita per trovare nuove forme di libertà e nuovi modelli espressivi1. In anni recenti il contesto pubblico – urbano e architettonico, politico e sociale – è tornato preponderante nel discorso dell’arte. Non tutto si svolge però nella cornice istituzionale dell’arte, ci sono molti linguaggi che nascono in contesti diversi, con scopi, mitologie, economie e storie differenti e che a volte assumono dal linguaggio dell’arte i propri modelli espressivi per raccontare però storie diverse.

Lo spazio urbano è il teatro dell’espressione di culture alternative e antagoniste, i muri, del resto, sono da sempre un luogo di libera e incontrollata espressione. Dalla fine degli anni Settanta le culture sub-urbane sotterranee hanno trovato nelle pratiche sinteticamente raggruppate sotto il termine “graffiti” il loro linguaggio d’elezione. Il fenomeno inizia a prendere forma alla fine degli anni Sessanta e fiorisce negli anni successivi nei grandi centri degli Usa e d’Europa, legato all’emergere delle culture giovanili e alle manifestazioni controculturali che hanno infiammato quei decenni2. Dagli anni Ottanta il writing diventa il veicolo di espressione di una nuova cultura urbana, slegata dai movimenti politici e connessa con il nascente immaginario Hip-hop. Il movimento writing è (molto spesso) chiuso in dinamiche autoriflessive centrato sulla ricerca grafica, sull’espressività della lettera e poco interessato a uscire dai contesti sociali in cui si sviluppa, i writer lavorano per far circolare immagini dentro al loro ambiente, producono un linguaggio autosufficiente e che si nutre di se stesso.

Diversamente, la street-art sviluppa una dimensione pubblica e decisamente più aperta al dialogo con gli spazi e con le persone. La street-art nasce tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta sulla scia del graffitismo da cui adotta al principio il mezzo tecnico – la bomboletta spray – e la scelta dello spazio di intervento – la strada – ma da cui si differenzia sin dagli inizi per il fatto di focalizzare l’attenzione sulla realizzazione di un’immagine e non più solo di una scritta, la tag, e per l’uso di più mezzi di supporto su cui realizzare le figure da applicare in seguito sui muri cittadini (posters, stickers, stencils diretti sul muro). La street art vive in questi anni un successo paradossale: è celebrata nei musei e venduta nelle gallerie ma quando praticata rimane illegale. I suoi protagonisti sono visti alternativamente come vandali e come grandi artisti, alcune città conservano e difendono gli interventi degli autori più celebri, altre città li cancellano.

«Intorno al 2000, tra Francia, Inghilterra, Spagna e Italia, si assiste a qualcosa di nuovo e differente per le strade; numerosi creativi (artisti, fotografi, poeti, graffitari) abbandonano l’etnocentricità del movimento del writing e, proponendo lavori su poster, stencil o vernice traducono la loro esigenza d’espressione in una tensione costante verso la comunicazione di massa e la partecipazione del pubblico al senso dei propri interventi». Fonte: Wikipedia.

Ogni artista che pratica street-art ha le proprie motivazioni personali, alcuni la praticano come forma di sovversione, di critica o come tentativo di abolire la proprietà privata, rivendicando le strade e le piazze; altri, più semplicemente, vedono le città come un posto in cui poter esporre le proprie creazioni e in cui esprimere la propria arte. La street-art offre la possibilità di avere un pubblico vastissimo, molto maggiore di quello di una tradizionale galleria d’arte. Un pubblico però indifferenziato e spesso non interessato, che percepisce queste pratiche come un’intrusione nel proprio spazio urbano.

L’artista di strada negozia la propria esistenza esattamente su questo punto: di chi è lo spazio della città? È di tutti e perciò anche mio o è lottizzato e privatizzato dai poteri economici e politici e quindi la mia azione è un esproprio, un abuso e una liberazione? Lo stesso ordine di problemi posto dai Situazionisti negli anni Sessanta.

Costretti all’anonimato per via delle loro azioni abusive gli esponenti della street art sono identificabili grazie al nome con cui hanno scelto di siglare i loro interventi, una sorta di logo attraverso cui poterli distinguere e riconoscere. Sfuggenti per eccellenza e dalla biografia incerta questi artisti manifestano la loro libertà di espressione nelle città del mondo concependo la strada come uno spazio vuoto, bisognoso di essere riempito. Certamente (come ogni forma di espressione, per altro) i confini della street-art non sono rigidi e impermeabili ma aperti verso gli altri mondi dell’espressione dell’immagine, specialmente con il sistema dell’arte-arte. La street-art esprime una serie di valori che non sono soltanto culturali o estetici, ma anche economici e, siccome l’economia è il fattore unificante di ogni attività umana che si svolge nella società regolata dal mercato, è facile immaginare che proprio su questo terreno si sviluppino sovrapposizioni con altri sistemi di segni – pubblicità, musica, arte, politica, moda…

Dal punto di vista strettamente linguistico si può notare che tutti gli interventi di street-art adottino i paradigmi espressivi comuni: prelievo e processo di immagini – ri-elaborazione, ri-semantizzazione, ri-contestualizzazione, cioè “postproduzione” di segni esistenti. La vocazione pubblica e le dinamiche di culturali messe in moto non possono che rimandare a una dimensione “relazionale”. Pratiche di cui abbiamo imparato a riconoscere l’origine: ready-made e Merzbau.

[N]

1 La città moderna è il luogo del conflitto per eccellenza, vedi David Harvey, L’esperienza Urbana. Metropoli e trasformazione sociale. Traduzione di Gabriele Ballarino. Il Saggiatore, Milano, 1998. Per una storia dei conflitti urbani vedi ancora David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune ddi Parigi a Occupy Wall Street. Il Saggiatore, Milano, 2013.

2 La letteratura sull’argomento comincia a essere considerevole. Segnalo Alessandro Riva (a cura di), Street Art Sweet Art. Dalla Cultura hip hop alla generazione pop up. Skira, Milano, 2007; Seno (a cura di), Trespass. Storia dell’arte urbana non ufficiale. Taschen, Koln, 2010; Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte. Einaudi, Torino, 2008; Marcello Faletra, Graffiti. Poetiche della rivolta. Postmediabooks, Milano, 2015.

Avanguardia 3

1 La smaterializzazione dell’arte

Per ricapitolare brevemente i passi compiuti fino a qui possiamo dire che il cambiamento innescato nelle pratiche dell’arte dalle sperimentazioni dadaiste di inizio secolo tocca, durante gli anni Settanta, il suo apice con un momento che viene definito “smaterializzazione dell’arte”1. Come detto, nell’esperienza dadaista, specialmente nell’opera di Duchamp e Schwitters, si sono formulati due modelli: arte come concetto e arte come processo.

L’opzione concettuale ha il suo archetipo nel ready-made di Duchamp, qui la pratica artistica si raffredda e diventa una questione squisitamente concettuale che deve risvegliare “l’appetito di comprensione” dell’osservatore, piuttosto che accarezzare i suoi sensi; troverà esiti sorprendenti nella Pop art, nel Minimalismo e, come vedremo, nell’arte Concettuale.

L’opzione processuale, che ha il suo archetipo nel Merzbau di Schwitters, in cui le forme si surriscaldano trasformandosi in pratiche esperienziali aperte, avrà i suoi sviluppi nel New Dada, nel Situazionismo, in Fluxus, nell’Arte povera e in generale in tutte quelle esperienze che si fondano sul puro “accadere”, sulle arti performative in genere. È importane tornare a sottolineare come entrambe le opzioni utilizzino quale elemento di base del loro linguaggio la tecnica del “prelievo” e della ricontestualizzazione di elementi del reale nello spazio dell’arte. Ready-made e Merzbau sono due modi diversi per declinare la medesima idea, cioè uscire dallo spazio simbolico dell’immagine in cui il mondo è solo rappresentato e riportare l’arte nella prassi della vita.

Durante gli anni Sessanta il processo di smaterializzazione diviene sempre più veloce fino a raggiungere nel decennio successivo i suoi esiti più eclatanti e radicali. In entrambi i casi, è proprio la dimensione fisica dell’oggetto artistico, il suo essere “cosa” a venire messa in questione, nell’arte concettuale l’oggetto tende a scomparire fino a diventare pura idea, nelle pratiche performative l’oggetto si risolve nel semplice accadere del corpo.

Body art

Gli spettacoli futuristi (che finivano in premeditate scazzottate), le serate al Cabaret Voltaire e i festival Dada (movimentati e “fisici” quanto quelli futuristi), i travestimenti di Duchamp e il continuo andirivieni di Schwitters, la celebre escursione Dadaista e le analoghe esperienze surrealiste e tante altre esperienze simili hanno visto nel corso del primo Novecento emergere e imporsi la presenza fisica dell’artista. Dopo la Seconda guerra mondiale il corpo dell’artista diventa un elemento sempre più visibile nel processo creativo: da generatore di segni come nell’Action painting diventa protagonista, come nelle azioni di Yves Kline (le Antropomentrie) o di Manzoni (le Basi magiche), o nelle derive situazioniste. Nelle esperienze Fluxus, negli happening e nelle pratiche chiamate variamente Body art, Performing art o Arte corpotamentale, il corpo diviene segno esso stesso. Scomparso il filtro del medium artistico (pittura e scultura, per intendersi, diventato per altro ormai fragilissimo nell’ultimo decennio) il corpo dell’artista si trasforma nel medium espressivo.

La dimensione personale, biologica e biografica dell’artista si mescola all’analisi sociale e politica: tutte le pratiche che trovano nel corpo il loro punto di innesco portano alla luce e allo sguardo spesso perturbato dell’osservatore, elementi di disagio, sofferenza, costrizione.

Con le parole di Lea Vergine: «Sbloccate le forze produttive dell’inconscio, si scatenano – in un continuo drammatizzare isterico – conflitti tra desiderio e difesa, tra licenza e divieto, tra contenuto latente  e contenuto manifesto, tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, tra voyerismo ed esibizionismo, tra tendenze sadiche e piacere masochistico, tra fantasie distruttive e catartiche» 2.

Il corpo quindi, diventa il campo in cui le forze che agiscono nel conflitto sociale si scontrano e manifestano. Sui corpi degli artisti si riversa la violenza del potere burocratico; si pratica la ricerca della libera definizione delle identità; si demoliscono i vincoli imposti dalla cultura dominate; si afferma la differenza dei generi; si contesta l’ordine costituito e sessista e il potere patriarcale; si liberano le pulsioni profonde. 

Una ricerca che si intreccia con le grandi esperienze del teatro sperimentale (il Living Theatre, Carmelo Bene, Grotowski, Barba, Kantor); con la filosofia e la psicologia di quegli anni (Deleuze, Lacan, Debord, Foucault) che demolisce le ultime certezze teoriche e scientifiche sull’unità dell’io, l’univocità delle pulsioni, l’unidimensionalità del desiderio.

La performance (come l’Happening) è un evento e quindi è un accadimento definito nel tempo e nello spazio che si sviluppa come una partitura dagli schemi variabili e imprevisti, aperto all’alea del caso e all’improvvisazione: è un “processo”. L’azione “in divenire”, si è detto, fonda le proprie radici sull’archetipo del Merzbau che porta nell’alfabeto e soprattutto nell’immaginario dell’arte, l’idea che l’opera possa, come una forma biologica, vivere una vita propria e svilupparsi  indipendentemente dalla volontà dell’artista. Il rapporto dell’artista con l’opera cambia e da verticale e univoco (dal creatore all’oggetto creato), diventa orizzontale e binario (dal creatore all’oggetto–creatura e viceversa). Una dinamica che ha come idea portante e punto di arrivo l’ampliamento della coscienza e il rifiuto di ogni verità espressa a priori. È il fondamento teorico di ogni opera di matrice processuale (sia pittorica che musicale o poetica o teatrale) che lega come abbiamo visto, esperienze spesso molto diverse: le sperimentazioni di Cage e le derive Situazioniste, le immersioni psicoattive di Michaux e la scrittura automatica surrealista, gli Happening di Kaprow e le esplorazioni di Long.

La figura dell’artista in quanto specialista di una tecnica, detentore di un sapere esclusivo, viene a decadere. L’artista si trasforma in un attivatore, un incendiario che attiva epifanie collettive. Le performance sono esperienze che debordano dalla cornice imposta dalla burocrazia dell’arte, dai generi definiti, dagli spazi controllati dalla censura culturale e sorvegliati dal potere politico, per spingersi alla ricerca di un luogo di estrema liberazione emotiva e politica3.

Il coinvolgimento personale dell’artista è l’elemento di dirompente novità delle avanguardie storiche: Dada soprattutto, ma anche Futurismo e Surrealismo ne hanno fatto un punto centrale – ma non soltanto, come abbiamo detto, le proto-performance nelle serate futuriste o al Cabaret Voltaire, i camuffamenti di Duchamp, le strategie per disallineare le identità dei surrealisti, ma anche la partecipazione diretta alla rivoluzione di Lissitzsky e compagni può essere letta in questa chiave. Soprattutto, con il corpo dell’artista viene chiamato in causa direttamente anche l’osservatore che cessa di essere un elemento passivo, dedito alla pura contemplazione: scompare il diaframma/schermo dell’opera su cui si proiettano le pulsioni tanto dell’artista quanto dello spettatore. Nelle performance si viene a creare una prossimità, a volte davvero intollerabile o sovversiva, tra il produttore e il ricevente dei segni, tanto che spesso questi si trovano a confondersi.

Nel secondo dopoguerra la performance diventa prima una pratica che serve per elaborare immagini (Pollock, Kline, Cage, Beyus, Neuman) e quindi immagine tout-court. Grazie all’impiego sempre più sistematico di foto e videotape la fase della “documentazione” è sempre più parte integrante dell’evento, è progettata con l’evento stesso e diventa un oggetto che trascende la natura effimera delle azioni. L’utilizzo sempre più sistematico e consapevole della tecnologia favorisce quindi il processo di smaterializzazione dell’arte. Il corpus di opere di molti artisti si trova frequentemente consegnato solamente agli archivi e alle documentazioni, un aspetto questo che avremo modo di indagare in seguito, ma è bene segnalare come nel corso del secolo la “tecnologia” si sia intessuta in tutte le fasi natura del fare artistico. A ogni “novità” tecnologica è corrisposta una reazione che ha dato sorprendenti frutti nei linguaggi dell’arte: dai colori prodotti industrialmente che permettono la pittura en plein air degli impressionisti; all’invenzione della fotografia che costringe a una ridefinizione radicale dei linguaggi della pittura per diventare un linguaggio artistico essa stessa; all’avvento dell’oggetto di origine industriale che porta alla realizzazione dei ready-made; fino all’utilizzo dei video per documentare le performance.

La performance come linguaggio attraversa tutti i movimenti ed è variamente usata dalla metà degli anni Sessanta, alcuni artisti però ne hanno fatto la tecnica d’elezione. Vito Acconcicompie azioni sin dal 1964, dando rilievo ai rapporti interpersonali e mettendo in discussione i concetti di pudore, corpo pubblico, spazio privato. Nei Follow piece pedina passanti scelti a caso; in Proximity si accosta a uno sconosciuto fino ad esasperarlo; in Trademarks si contorce e morde fino a sanguinare per trasformare i segni del corpo in matrici per produrre impronte sulla carta. Nel 1972 compie la celebre azione nella galleria Sonnabend: costruisce una piattaforma inclinata come pavimento, sotto la quale si masturba amplificando il suono del proprio ansimare per gli spettatori che passeggiano sopra la pedana. Temi come intimità, privacy, desiderio sono messi in uno stato di tensione profonda, esasperati ma anche guardati con uno sguardo curioso, per scorgervi forme possibili di una nuova socialità.

Se il corpo ha perso sensibilità, narcotizzato dai beni di consumo e annichilito dalla violenza del potere, deve, per essere risvegliato, essere messo in costante stato di allerta e pericolo, deve essere capace di comprendere e nominare il potere che lo opprime. Chris Burden adotta proprio questa strategia, in ogni performance si mette in uno stato di allarme, si sottopone a prove di disequilibrio e vertigine; subisce la violenza di un colpo di fucile al braccio; arriva a farsi crocifiggere su di una automobile. La violenza segreta con cui il potere controlla la società diviene spettacolare ed esibita, la cornice artistica la trasforma da elemento invisibile e latente ad argomento esplicito.

L’opera di Hermann Nitsch (esponente di spicco dell’azionismo viennese, forse la più estrema manifestazione di questo àmbito espressivo) che nel suo “teatro delle orge e dei misteri” mette in moto complesse azioni collettive, davvero cruente e perturbanti (con sacrifici di animali, crocifissioni e fiumi di sangue), simili ai riti di una strana religione, che si concludono in una specie di catarsi collettiva (orge e misteri appunto), per toccare infine una specie di stato in cui i sensi e lo spirito di sublimano e pacificano4.

Non tutti gli artisti che indagano il corpo nelle sue implicazioni sociali ricorrono a gesti così estremi. Per Gilbert & George il corpo diventa il luogo su cui dislocare identità diverse: una specie di palcoscenico da cui emettere materiale culturale, con continue variazioni, sottrazioni, modulazioni, per decomporre gli stereotipi del pensiero e del gusto dominante. Iniziano la loro carriera con una folgorante e straniante performance che li vede, con il volto dipinto di bronzo come fossero delle statue, cantare un motivetto allegro vestiti come dei perfetti gentleman. In seguito tutta l’opera del duo britannico sarà incentrata proprio su una incessante attività di riconfigurazione linguistica e identitaria: nulla nel lavoro di Gilbert & George è definito stabilmente, nemmeno la loro identità personale dissolta in quella & che lega i loro nomi.

Per Urs Luthi la performance è un modo per modificare il contenuto culturale e sociale del corpo. Luthi rimescola gli stereotipi con una leggerezza di tocco vagamente glam, nelle sue immagini le identità sessuali e le differenze dei generi diventano instabili e aleatorie.

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1 La definizione “smaterializzazione dell’arte” è stata coniata dalla critica americana Lucy Lippard nel 1973.

2 Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio. Skira, Ginevra-Milano, 2000. p.9. Il libro di Lea Vergine offre un’ampia panoramica della body art, e delle storie “simili” cioè ad essa assimilabili, dagli esordi a oggi. Body art, infatti, non è solo un genere o una corrente definita quanto piuttosto una tecnica e una sensibilità e, come tale, ha contorni ampi e incerti. 

3 L’ampliamento della “coscienza” è affine alle esperienze che derivano dalla cultura psichedelica e dall’utilizzo di allucinogeni, àmbiti in cui la realtà è percepita come aperta e aleatoria, mobile e incompiuta, in cui il tempo ordinario, misurato economicamente, ottimizzato dalla produzione e contingentato dal consumo, si dilata, perde coerenza, deflagra, scompare. Un risultato simile, per altro, a quello che le suggestioni delle filosofie orientali stanno producendo in quegli stessi anni nella cultura occidentale. Ricordiamo però che il terreno su cui crescono questi diversi influssi è stato preparato dal Surrealismo e dalle idee che Breton e compagni (e, prima di lui, Tzara e compagni) hanno seminato tra gli anni Venti e Trenta.

4 Ovviamente, si può ottenere l’effetto contrario, con l’immancabile esposto in procura: https://www.youtube.com/watch?v=TXbOcvkAEKY.

2 Arte e femminismo

La performance si è rivelata una pratica perfetta per far emergere la peculiarità della “sensibilità” femminile. Il movimento femminista1 assume dalla metà degli anni Sessanta – dopo oltre un secolo di lotte – una forza e una consapevolezza nuova, sul palcoscenico dell’arte si affacciano delle autrici che rifiutano di utilizzare il linguaggio degli uomini, del potere patriarcale. Scrive Helena Reckitt: «Alla sua nascita, negli anni ’60 e ’70, l’arte femminista è a sua volta inquadrata in altri movimenti artistici e nelle interpretazioni che ne vengono fornite. […] Comincia a essere riconosciuta come specifica pratica artistica […] che affondava le sue radici in una presa di coscienza politica»2. Questo passaggio, da pratica artistica a pratica politica, mette in una prospettiva completamente diversa molte esperienze che le donne stavano compiendo in quegli anni. Il fatto interessante è allora questo: è la dimensione di lotta politica che “determina” la dimensione artistica, e il legame dell’arte delle donne con le dinamiche della cultura di quel tempo è più profondo che in altre aree viluppatesi all’interno dei “confini” della sfera artistica. Per questo, ancora oggi tante artiste (e artisti, perché no) fanno arte assumendo attivamente tanti elementi elaborati dal pensiero femminista, anche perché i problemi messi in evidenza tra gli anni Sessanta e Settanta da quella generazione di donne coraggiose (sfruttamento, minorità, stereotipizzazione, violenza, ecc…) sono più che mai vivi.

Queste nuove soggettività trovano nella body art il linguaggio3 per far emergere l’oppressione e la violenza a cui le donne sono sottoposte nella società occidentale, confinate in stereotipi culturali che impongono loro i ruoli sociali minori di moglie/madre o di oggetto sessuale privo di individualità.

Il femminismo è una grande stagione di autocoscienza, per la prima volta le donne si trovano a poter affermare se stesse, nella propria differenza: questa appropriazione di identità – riassunta dall’aforisma: io che dico io – è però una pratica faticosa, impervia, che impone gesti drastici e dolorosi di presa di possesso di sé.

Gina Pane interpreta questo percorso con performance costruite come rituali: si lacera la pelle con delle spine di rosa, si arrampica su una scala di chiodi, si ferisce le palpebre e lacrima sangue, ingerisce compulsivamente carne e latte. 

Presupposti assunti anche da Marina Abramovic: nella sua opera si sottopone a prove durissime considerando il proprio corpo come un terreno di sperimentazione. In coppia con il compagno Ulay mette in scena i limiti sociali dentro ai quali si muovono gli individui, scoprendone i punti di frizione e conflitto. Punti di tensione che emergono anche nelle azioni in cui Marina ripete ossessivamente gesti semplici, quotidiani. Il punto più estremo (dopo il quale smetterà la sua attività performativa) Abramovic lo tocca nell’azione che la vede per sei ore completamente passiva in balia del pubblico.

Il ruolo della donna e gli stereotipi culturali che generano discriminazione sono anche il terreno su cui si sviluppa la ricerca di Valie Export. La donna vista come oggetto di consumo, proprietà esclusiva dell’uomo, feticcio sessuale sono elementi che vengono rivolti con ferocia contro lo sguardo dell’osservatore per costringerlo a riconoscere la propria ipocrisia.

Il corpo della donna come territorio da indagare e scoprire è al centro del lavoro di Carolee Scheemann: nella sua performance più famosa estrae dalla propria vagina un tessuto su cui è scritto un testo in cui confuta una tesi strutturalista secondo la quale le donne non sono in grado di essere creative. Non diversamente Shigeko Kubota nella sua celebre e perturbante azione Vagina painting utilizza un pennello fissato alle anche per produrre quadri assimilabili alla tradizione dell’Action painting per farne emergere il sottotesto sessuale e maschilista (comune a tutta l’arte occidentale): l’artista che si impossessa con violenza della tela e la insemina con il proprio pennello-fallo, spargendo sulla superficie vergine dell’opera la propria spermatica energia creativa. 

Di segno diverso il lavoro Mierle Laderman Ukeles che sposta sul teatro pubblico la condizione invisibile, censurata delle donne. Fare arte diventa l’affermazione di una condizione minoritaria e insieme una presa di coscienza e di parola, un’assunzione di ruolo e potere. In questo caso i gesti quotidiani che ogni donna compie nel proprio misconosciuto lavoro di cura domestica diventano dei ready-made da ricollocare nello spazio sociale: da invisibili e dati per scontati a esibiti problemi pubblici e politici.

Anche Rebecca Horn indaga il ruolo sociale del corpo, in particolare quello femminile e lo fa costruendo strane protesi che evocano difficoltà motorie o dispositivi che ostacolano l’interfaccia con il mondo. È un immaginario fatto di filtri, impedimenti, diaframmi dentro i quali i corpi si dibattono e ai quali si devono adattare – specialmente i corpi delle donne, tradizionalmente imprigionate in indumenti come corsetti e giarrettiere assimilabili a gabbie. I riferimenti agli strumenti di coercizione medico-psichiatrici sono più che evidenti, Horn mette negli occhi dello spettatore proprio quelle forme di condizionamento biopolitico tipiche di ogni struttura moderna (scuola, ospedale, caserma, fabbrica) studiate da Foucault nel suo celebre libro Sorvegliare e punire.

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1 «Ispirate dal movimento per i diritti civili e dai gruppi pacifisti negli Stati Uniti, dalla rivolta studentesca in Europa e dai fermenti intellettuali ed estetici di quello che verrà definito poststrutturalismo e postmodernismo, negli anni ’60 le donne alzano la testa. Spronate da Simone de Beauvoir, che nel Secondo sesso (pubblicato in Francia nel 1949 e in Italia nel 1961) constata lucidamente che “non si nasce, am si diventa donna; è la civilizzazione intera che produce questa creatura”, e da Betty Friedan, che nel suo testo La mistica della femmina (pubblicato negli Stati Uniti nel 1963 e in Italia nel 1970) affronta il “problema senza nome”, le donne si riuniscono in gruppi di autocoscienza le cui discussioni finiscono per gettare luce su ampie zone di discriminazione. Non più trattate alla stregua di casi isolati, quelle che fino ad allora sono state viste come “vicende personali” cominciano a essere interpretate come conseguenze logiche di strutture politiche più ampie. Intuendo la possibilità di liberarsi dal fardello del proprio vissuto personale le donne decidono di fare fronte comune per contestare i meccanismi con i quali i sistemi politico deformano la loro vita, le loro aspirazioni, i loro sogni. Scegliendo la strada dell’attivismo, ben presto le femministe si ribellano alle istituzioni oppressive della tradizione, decise a creare universi che tengano in maggior conto la vita delle donne. […] Le artiste sono ispirate in particolare dalla realtà “costruita” – dunque non “naturale” – teorizzata da de Beauvoir. Non essendo il risultato di qualche imperscutabile “legge naturale”, la vita delle donne può essere ridefinita, rivista, modificata e migliorata». Helena Reckitt (a cura di), Arte e femminismo. Traduzione di Marina Rotondo. Phaidon, Londra, 2005. pp. 20-21.

2 Ivi. p. 19.

3 Ovviamente l’esperienza artistica prodotta in questa grande stagione civile e politica non si riduce alle espressioni, pur eccezionali, che le donne hanno compiuto utilizzando “il corpo come linguaggio”. Molte altre donne hanno fatto arte con altrettanta forza impiegando linguaggi “tradizionali”, soprattutto tecniche artigianali o minori, o tradizionalmente assegnate alla sfera femminile, rivendicandone polemicamente la specificità. Ma la body art, in quanto “nuovo” linguaggio è stato interpretato e utilizzato proprio in forza della sua novità: svincolato da ogni retaggio storico e culturale, era una specie di nuovo territorio da esplorare senza portarsi appresso fardelli patriarcali o costruzioni maschili.

3 Arte come idea: Concettuale

L’inizio degli anni Sessanta sono stati un grande laboratorio di sperimentazione linguistica, tra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo il naturale sviluppo delle esperienze messe in movimento accelera e assume un atteggiamento più radicale e intransigente. Aspetti che si riscontrano non soltanto in arte ma più in generale nei rapporti sociali, politici, economici: un rapido sguardo a un manuale di storia può dare conto del clima di tensione esistente tra i vari attori della scena sociale – tra i generi, con l’affermarsi del movimento femminista; tra le forze produttive, con l’indurirsi della lotta di classe; nella politica, con la recrudescenza dello scontro tra le forze riformatrici o rivoluzionarie e le strutture di potere; tra gli stati, con l’acuirsi delle tensioni internazionali tra Usa e URSS e l’accelerazione dei processi di decolonizzazione; nell’economia in depressione e con l’esplodere della crisi petrolifera.

Gli artisti prendono parte alla grande stagione rivoluzionaria assumendo atteggiamenti radicali spesso apertamente (e a volte ambiguamente) anti sistema. Il movimento più emblematico in questo senso è quello dell’arte Concettuale che porta a compimento il lungo percorso di trasformazione e demolizione del tradizionale agire artistico (cominciato con il Dadaismo) in cui il processo di formazione delle immagini è più importante delle immagini che si sono prodotte, in cui l’idea è più importante dell’oggetto. Questo atteggiamento è sintetizzato dall’aforisma di Joseph Kossuth, il più eminente esponente di questa tendenza: l’arte è la definizione dell’arte.

Come detto, nel rifiuto di ogni linguaggio tradizionale il dadaismo ha messo a disposizione due modelli artistici completamente nuovi: il modello processuale, che abbiamo visto svilupparsi nel New Dada e nell’Antiform americano, nel Situazionismo, in Fluxus e nell’Arte povera e in tutte le esperienze performative e il modello concettuale, attivo nella Pop art, nel minimalismo e soprattutto, come vedremo ora, nell’arte concettuale.

La definizione Conceptual art appare per la prima volta nel 1967 in un testo di Sol Lewitt, è quindi esplicito il filo di continuità che lega le esperienze degli artisti concettuali, che iniziano a emergere alla fine degli anni Sessanta, con i minimalisti americani e gli altri attori della scena statunitense ed europea.

«L’arte concettuale fu il prodotto di molteplici e ripetuti moti di rivolta contro le quattro caratteristiche che definivano l’opera d’arte secondo le istituzioni artistiche occidentali […] materialità dell’oggetto, specificità del mezzo, visualità e autonomia»1. Queste caratteristiche vengono a cadere nella sostanziale “indifferenza” (indifferenza di derivazione duchampiana, ovviamente2) che gli artisti concettuali dimostrano per l’opera in quanto oggetto, il loro è quello di esprimere il pensiero indipendentemente dalle forme attraverso le quali si manifesta: nelle esperienze concettuali la manifestazione fisica dell’oggetto artistico non è vincolante, è anzi considerata un ostacolo. 

Sintetizzando, possiamo affermare che l’elaborazione di un’opera concettuale non avviene attraverso un processo, bensì attraverso una procedura: con l’applicazione di protocolli per la verifica di teorie, la predilezione per la catalogazione, l’applicazione di ordini seriali e l’astrazione logica e matematica.

Nel suo libro del 1967 L’arte dopo la filosofia Kosuth3, con definizioni tautologiche ormai celebri come “art as idea as idea”, (arte come idea come idea) rivendica come unico ruolo possibile dell’arte quello di definire se stessa attraverso un processo di analisi concettuale e di investigazione filosofica. Già agli inizi degli anni Sessanta Ad Reinhard dichiara come non sia più possibile fare arte in senso tradizionale e che l’ultimo quadro che è possibile dipingere è quello che definisce se stesso. La generazione che prende la parola con la Conceptual art porta a compimento questo processo di trasformazione dell’arte: da pratica estetica a disciplina filosofica, da tecnica che rappresenta il mondo a dispositivo che definendo se stesso definisce il mondo.

Joseph Kosuth, artista americano di origine ungherese, è probabilmente l’artista più riconoscibile dell’arte concettuale ed è autore delle opere che rappresentano il palinsesto del movimento. Nel 1967 con Art as idea as idea, produce delle serie di gigantografie di testi, locuzioni e definizioni tratte dai dizionari e trasforma i concetti in esperienze visive che cortocircuitano i nostri abituali schemi di divisione tra idea e opera, concetto e oggetto.

Con Una e tre sedie (una sedia, una fotografia della sedia e una definizione di sedia) e lavori analoghi, mette in discussione i rapporti tra immagine e parola. Kosuth non dice nulla sul mondo, non racconta: enumera in riflessi circolari diversi sistemi linguistici. L‘arte si smaterializza e diventa un flusso di informazioni, di bit senza peso. Un flusso che si sposta facilmente dagli ambienti specifici dell’arte, il museo o la galleria, per arrivare nelle strade e assimilare forme di comunicazione peculiari di altri ambiti.

Il collettivo inglese Art & Language, nato nel 1966 e formato da Terry Atkinson, David Bainbrige, Michael Baldwin, Harold Hurrel, sviluppa il proprio lavoro in una dimensione puramente mentale, puntando sul concetto di serialità, secondo il quale gli elementi che compongono la creazione sono le parti uguali di un insieme semantico privo di gerarchia. 

Molti artisti dell’area concettuale condividono la passione per la catalogazione o l’elaborazione seriale, è un tratto che evidenzia lo spirito del tempo in cui le strutture di produzione, le relazioni sociali e culturali si sono irrigidite in forme precise di controllo, standardizzazione e gestione specializzata, in gabbie più o meno visibili o percepite, che gli artisti (europei e statunitensi) cercano di demolire o, come in questo caso, rendere evidenti, smascherare.

Robert Barry persegue la dematerializzazione dell’arte: con gli Ultitled, installazioni di fili di nylon invisibili attraverso i quali misurare, definire lo spazio; oppure diffonde gas inerti negli ambienti per saturarne e ridefinirne i volumi; o i Telepathic pieces, lavori paradossali trasmissibili solo mentalmente. Nel 1969, alla sua personale alla galleria di Amsterdam Art&Project espone un cartello During the exibition the gallery will be closed. Oppure dissemina gli ambienti di semplici verbi o aggettivi, come suoni secchi, espressioni mute di un linguaggio portato alle estreme conseguenze espressive.

John Balbessari lavora sulla parola scritta associata a immagini fotografiche o dipinte, spesso le immagini sono frammentarie o di difficile interpretazione e non hanno alcun rapporto con le parole – la continuità con Duchamp è evidente.

Laurence Weiner convinto che quel che importa è l’idea e non l’esecuzione smette di dipingere alla fine degli anni ‘60. Da quel momento di dedica a produrre Statements, dichiarazioni scritte di opere ancora da realizzare, che definisce come sculture verbali. Come i Wall drawing di Lewitt, gli Statement di Weiner sono ripetibili da chiunque seguendo i progetti di realizzazione. Sempre in quegli anni si dedica a operazioni meramente manuali (scrostare un muro, spruzzare colore) accompagnate da testi che descrivono l’operazione stessa.

Come Weiner, Kossuth, Art & Language, anche Mel Bochner è impegnato in una analisi del sistema linguistico dell’arte. Un sistema sempre più ridotto alla sua nuda essenza: una costruzione fatta di zone oscure e aporie. Il linguaggio non è neutro, ci suggerisce Bochner, ma è il luogo in cui le relazioni di potere si manifestano. Mettere a nudo il linguaggio significa svelare il meccanismo del potere.

On Kawara nei Date Painting dipinge i dati relativi la realizzazione dell’opera stessa: l’opera quindi definisce se stessa. Un’autoreferenzialità che si ritrova anche nel racconto della propria vita: nel ciclo I got up at, con cartoline postali inviate a conoscenti, segnala l’ora del proprio risveglio; in I went fa un elenco dei propri percorsi; in I met un elenco di persone incontrate. Significativa nel ‘69 la serie di dieci libri One Million years con l’enumerazione di un milione di anni in cui la temporatiltà diventa una definizione. 

Anche Roman Opalka è ossessionato dal tempo: tutta la sua opera è una serie ininterrotta, cominciata nel 1965, con cui l’artista misura su se stesso lo scorrete del tempo. La serie inizia con il primo quadro in cui partendo dall’alto a sinistra, l’artista scrive un numero per continuare in sequenza fino a riempire l’intera superficie della tela. La numerazione riprende allo stesso modo con il quadro (di identiche dimensioni) successivo, e così via, all’infinito. Alla fine di ogni quadro Opalka si fotografa – stesso set, uguale abbigliamento: come lo scorrere del tempo fissato sulla tela la fotografia documenta lo scorrere della vita sul volto dell’artista.

Kawara e Opalka mettono in scena un rapporto con il tempo storico e personale quantomai attuale: sono evidenti le correlazioni con le odierne, ossessive pratiche di auto-documentazione (blog, selfie, biografia dislocata nei social network…).

Sull’atteggiamento compilatorio si fonda anche l’opera dei coniugi Bernd e Hilla Becher, una straordinaria attività fotografica di catalogazione durata 40 anni di edifici di matrice industriale improntata a criteri di impassibile oggettività.

Il tedesco Hans Haacke è impegnato a decostruire la presunta neutralità ideologica delle istituzioni di cui si compone il sistema dell’arte e a sottolineare come questo non costituisca che un tassello della macchina di potere del capitalismo, denunciando le logiche di sfruttamento sul quale si fonda. Ogni suo intervento indaga la matrice economica dell’arte, il sistema del conferimento del valore culturale e i conseguenti interessi finanziari sull’oggetto artistico. Un atteggiamento critico che ha fruttato all’artista innumerevoli problemi nella relazione con quelle istituzioni artistiche (musei, gallerie, collezionisti, critici) all’interno delle quali necessariamente si sviluppa il suo lavoro. Possiamo considerare Haacke un moderno Jago, che tradisce il signore che serve.

Il linguaggio non è da intendersi solamente come il sistema scritto-orale, ma è da considerare come un dispositivo più ampio in cui si integrano in modo dinamico gli elementi che costituiscono il nostro habitat. Dan Graham si interessa agli elementi architettonici che compongono e definiscono lo spazio che percorriamo inconsapevolmente ogni giorno. Graham crea strutture ambigue in cui si manifestano le contraddizioni degli spazi costruiti, creati per produrre distacchi e esclusioni anziché favorire scambi e prossimità. L’architettura e l’urbanistica sono per Graham finzioni di trasparenza e partecipazione, diaframmi che impediscono le relazioni, labirinti in cui i contatti tra le persone si sfasano e scompongono.

Allo stesso modo l’artista francese Daniel Buren indaga la forma dello spazio e cerca di rendere visibili i rapporti di forza e le tensioni che definiscono la natura dei luoghi. È un lavoro che trova la sua massima espressione proprio nei luoghi pubblici in cui l’artista interviene saturando spazi interstiziali o rendendo solidi volumi altrimenti invisibili. L’alfabeto di Buren è ridotto all’essenziale, dal 1967 utilizza strisce verticali di uguale spessore per ricoprire, sezionale, campionare gli spazi in cui interviene. Un linguaggio standard, ridotto al grado zero con cui sondare e risemantizzare l’esistente.

Anche in Italia – negli anni in cui furoreggia l’Arte povera – molti artisti sono attivi nell’area concettuale. Tra gli antesignani si deve citare il milanese Vincenzo Agnetti capace di affrontare in modo originale temi connessi alle logiche della comunicazione e alle convenzioni linguistiche. Emblematico è il celebre Libro dimenticato a memoria in cui lo spazio scritto è negato. Una tendenza alla riduzione che esplora i limiti del linguaggio e i conflitti tra medium e messaggio.

Anche il lavoro di Maurizio Nannucci è una ricognizione sulle forme del linguaggio. Sebbene vicino agli ambienti Fluxus, può essere considerato un esponente dell’area concettuale in virtù di un atteggiamento in cui la materialità degli oggetti viene assorbita dall’analisi. Il lavoro di Nannucci intreccia la poesia concreta e visiva e tenta di riconfigurare il linguaggio – il nostro, in cui nulla è originale e personale – in nuovi percorsi visivi e cognitivi, per attivare relazioni imprevedibili e originali. Interessante il rapporto con lo spazio e l’architettura che nel corso degli anni diventerà sempre più stretto e spettacolare.

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1 Peter Osborne (a cura di), Arte Concettuale. Traduzione di Matteo Mazzacurati e Ira Torresi. Phaidon, Londra, 2006.p. 18.

2 «L’aspirazione del readymade duchampiano a generare indifferenza estetica lo ha reso una forma d’arte ambigua, instabile e transitoria. Anche il readymade, al pari degli spartiti di Cage, andava in due direzioni opposte: (1) verso la  Pop Ar, estetica del consumismo e la scultura minimalista, (2) verso un’arte che puntava davvero a essere indifferente all’estetica, e quindi “puramente concettuale. È in quest’ultimo senso che possiamo considerare il readymade sia come il “principio” dell’arte concettuale sia la sua nemesi, la Pop art. Si può interpretare l’arte concettuale incentrata sul linguaggio alla stregua di un tentativo di ristabilire e di estremizzare l’iniziale impulso antiestetico del readymade mediante l’”indifferenza visiva” e il contenuto di natura concettuale e ideale del linguaggio, inteso quale materiale semantico “readymade”. Invece di impiegare il linguaggio solo come uno degli elementi di un’opera (nonostante rappresentasse quello “operativo”, molte opere d’arte concettuale degli anni ’60 e die primi anni ’70 tentarono di utilizzarlo in maniera esclusiva. Tale processo trasformò un gesto fondamentalmente negativo come quello dell’”indifferenza visiva” di Duchamp in un’arte che si definisse in termini positivi e linguistici: l’Arte Concettuale. […]  Negli anni ’60 tale rivoluzione trasse nuova linfa dalla nascita di una disciplina per lo studio dei segni (la “semiologia” di scuola francese), basata sui principi della linguistica generale di Ferdinand de Saussure. La sua diffusione in ambito artistico venne favorita dalla sempre più frequente consapevolezza (implicita nel Minimalismo) che anche la “pura otticità”, tanto osannata dai modernisti nella pittura astratta, non era in fondo che il prodotto di un complesso discorso critico sulla fruizione dell’arte, e non era una qualità insita nella fruizione in sé». Ivi, p. 28.

3 Kosuth pone il proprio lavoro in esplicita continuità con quello di Duchamp. Così si esprime l’artista in un celebre testo del 1969: «Il problema della funzione dell’arte venne sollevato per la prima volta da Marche Duchamp. Possiamo infatti attribuire a Marcel Duchamp il merito di avere dato all’arte la sua identità. […] L’arte “moderna” e le opere precedenti sembravano collegate in virtù della loro morfologia. In altre parole: il “linguaggio” dell’arte restava lo stesso, mentre esprimeva cose nuove. L’evento che rese concepibile la possibilità di “parlare un’altra lingua” e tuttavia fare dell’arte che avesse senso fu il primo semplice ready-made di Duchamp. Con il ready-made l’arte spostava il proprio obiettivo dalla forma del linguaggio a quanto veniva detto. Il redy-made mutò la natura dell’arte da una questione morfologica a una questione di funzione. Questo mutamento dall’”apparenza” alla “concezione” – segnò l’inizio dell’arte “moderna” e l’inizio dell’arte “concettuale”. Tutta l’arte (dopo Duchamp) è concettuale (in natura) perché l’arte esiste solo concettualmente». Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale. Traduzione di Gabriele Guercio. Costa & Nolan, Genova, 1987. pp. 24-25.

Semiofori

Cos’è una collezione? Secondo la definizione del dizionario una collezione è una «Ordinata raccolta di oggetti, omogenei, preziosi o variamente interessanti. Dal latino collectionem, derivato di colligere “raccogliere” (legere) insieme (cum)». Questa definizione chiarisce solo in parte la differenza di una collezione da una qualsiasi altra raccolta di oggetti, che siano esposti in un negozio o ammassati in una discarica. Krzysztof Pomian articola con più precisione questa differenza definendo collezione: «ogni insieme di oggetti naturali o artificiali, mantenuti temporaneamente o definitivamente fuori dal circuito delle attività economiche, soggetti a una protezione speciale in un luogo chiuso sistemato a tale scopo, ed esposti allo sguardo del pubblico»1.

Sono dunque tre le caratteristiche messe in evidenza da Pomian che servono per definire come collezione una raccolta di oggetti: il fatto che questi siano stati tolti dal circuito delle attività economiche smettendo di assolvere allo scopo per il quale sono nati o sono stati prodotti: le monete di una collezione di numismatica non hanno valore di scambio e, se è possibile conferire loro un valore, questo non ha più alcuna attinenza con quello che avevano quando erano inserite nel loro contesto, hanno smesso di funzionare, proprio come le farfalle di una collezione di lepidotteri hanno smesso di volare; questi oggetti sono quindi raccolti in un luogo speciale, costruito precisamente per loro, non può esistere una collezione che non abbia un luogo, grande o piccolo – un astuccio, una mensola, un museo – dove potersi dare come forma, discorso; e, dato fondamentale, devono essere esposti allo sguardo. Lo sguardo del collezionista, da solo, non è sufficiente per trasformare una raccolta di oggetti in una collezione, ci vuole un pubblico. Una collezione ha bisogno degli sguardi delle persone, che siano gli adepti di una religione, il pubblico pagante di un museo, gli amici del collezionista; che siano presenze selezionate in base a criteri democratici o restrittivi, non cambia la necessità della loro esistenza: una collezione è, in sostanza, un discorso pubblico con cui un gruppo di persone, in base a conoscenze, credenze, necessità e sentimenti condivisi, rende visibile l’invisibile

Per spiegare il concetto di invisibile Pomian deve risalire al fondamento antropologico dell’idea di collezione e cercare di comprendere il rapporto che, sin dall’alba dei tempi, noi sapiens instauriamo con gli oggetti che ci circondano e che sono insieme un’estensione del nostro corpo e un diaframma frapposto tra noi e il disordine del mondo. In altre parole, l’animale uomo, a differenza degli animali non umani, ha dalle sue origini – e fino a oggi – avuto una naturale predisposizione alla delega tecnica, a utilizzate le cose che poteva raccogliere dal mondo trasformandole in oggetti utili, in utensili. «La storia degli artefatti – scrive Pomian – comincia circa tre milioni di anni fa. Tale è, in effetti, la data assegnata dai paleontologi agli utensili più antichi. […] L’uomo (precisando che questo temine s’applica qui a tutti i rappresentanti del genere Homo) è fin dall’origine un produttore di cose»2.

Tuttavia, ci sono degli oggetti che sembrano avere un’utilità diversa da quella legata al loro scopo specifico; questi oggetti instaurano un legame speciale tra noi e ciò che si manifesta ma non è immediatamente comprensibile, con quello che si scorge ma non si può spiegare, che si percepisce ma non si vede. Questi oggetti sono interessanti non tanto per l’uso che se ne può fare, ma per il loro significato.

«La storia delle cose, – a parlare è ancora Pomian – come quella dell’uomo si dispiega nel tempo geologico. La storia dell’interesse umano per degli oggetti che non sono delle cose, pur risalendo anch’esso a questo tempo, è tuttavia incomparabilmente più breve». I «primi sintomi delle preoccupazioni non-utilitaristiche sembrano molto antichi» e possono essere fatti risalire a circa 400-500.000 anni fa «ma restano per il momento eccezionali. […] È solo durante il riscaldamento climatico verificatosi tra i 40.000 e i 60.000 anni, che appaiono i primi frammenti di ocra rossa; ma sono ancora molto rari». Nell’ultima fase di questo periodo cominciano ad apparire negli insediamenti umani piccole raccolte di curiosità, di oggetti naturali dall’aspetto bizzarro – una conchiglia a spirale, il fossile di un mollusco o pietre dalla forma insolita. Questi oggetti non sono manufatti artistici, ma sono cose trovate che «si sono imposte all’attenzione dei nostri predecessori zoologici» in virtù della loro forma speciale, una forma che instaura un tipo di legame con il mondo che non è utilitaristico bensì «estetico». Le raccolte sono disposte negli ambienti rituali, si trovano accanto agli affreschi a Lescaux o nella grotta dell’Hyène ad Arcy-sur-Cure.

Queste raccolte di curiosità (a tutti gli effetti dei ready-made) rinvenute nelle caverne di 60.000 anni fa presentano quei tratti che Pomian segnala come necessari per definire collezione un semplice insieme di oggetti: sono cose prive di una funzione utilitaristica, quindi sottratte al circuito delle attività economiche, sono disposte in un luogo dedicato, in questo caso uno spazio rituale, e sono esposte allo sguardo, quello della tribù.

Ma a cosa serviva questa collezione di oggetti? Per rispondere a questa domanda Pomian spiega che fino al Paleolitico superiore «la vita materiale degli uomini era […] tutta chiusa nel visibile» e il rapporto con l’invisibile era mantenuto dal linguaggio o dal rito. A partire dal Paleolitico superiore l’invisibile «si trova, per così dire, proiettato nel visibile, poiché esso è ormai rappresentato all’interno stesso di questo da una categoria specifica di oggetti: dalle curiosità naturali e anche da tutto ciò che si produce di dipinto, scolpito, tagliato, impastato, ricamato, decorato… In altri termini, una divisione appare all’interno stesso del visibile. Da un lato vi sono delle cose, degli oggetti utili tali cioè che possono essere consumati o servire a procurarsi dei beni di sussistenza […] e da un lato vi sono dei semiofori, degli oggetti che non hanno utilità nel senso che ora è stato precisato ma che rappresentano l’invisibile, sono cioè dotati di un significato».

La suddivisione degli oggetti che compongono il nostro mondo in due grandi famiglie è oggi, pur nella sua evidente complicazione, ancora attiva: ci sono oggetti che teniamo accanto a noi perché utili – questi vengono usati, si logorano e consumano e devono essere sostituiti; e ci sono oggetti, i semiofori, che teniamo accanto a noi anche se non servono a niente o a nient’altro che non sia mostrarsi, che non sostituiamo anche se logorati e, anzi, che riteniamo interessati proprio perché nel loro logorio si sedimenta la nostra percezione del passato, oggetti che organizziamo in raccolte, album, mensole di ricordi, scatole di cianfrusaglie – o, in una scala maggiore, in musei. Attraverso questi oggetti costruiamo la nostra identità, definiamo il nostro rapporto con gli altri, tessiamo relazioni con l’ambiente, ci proiettiamo nel passato elaborando i nostri ricordi e il nostro senso del tempo.

La forma e il significato dei semiofori sono definiti di volta in volta dalla cultura entro la quale vengono creati – le reliquie del Santo, la corona del Re, il capolavoro dell’artista, il cimelio storico, l’esemplare naturalistico, lo strumento scientifico, il ricordo di famiglia, il souvenir di viaggio. La cultura è il metadiscorso che lega e organizza gli oggetti di una collezione, sia che questa venga allestita in funzione di un rito o dell’esibizione di un potere, sia che venga costituita per necessità di carattere scientifico, storico o estetico o per fini privati. Ma, sempre, la collezione si compone per rendere manifesto, solido, percorribile l’invisibile discorso che ci lega in quanto gruppo, tribù, nazione, famiglia e che ci certifica come individui. La collezione mette ordine nell’intollerabile disordine del mondo, oppone al caos una forma, all’indistinto un racconto. La collezione crea un mondo, un microcosmo concettualmente concluso in cui si specchia e ricompone il macrocosmo, l’universo impensabile e invisibile.

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1 Pomian, Krzysztof, Collezionisti, amatori, curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo. Traduzioni di Girolamo Arnaldi, Denise Modonesi, Mariolina Romano e Davide Tortonella. Il Saggiatore, Milano, 2007. p. 18. 

2 Ivi, e a seguire, pp. 39-40.

Selfie

Selfie, l’Accademia della Crusca offre questa definizione: «fotografia scattata a sé stessi, tipicamente senza l’ausilio della temporizzazione e destinata alla condivisione in rete. Il termine entra nell’uso italiano come prestito non adattato dall’inglese selfie, composto da self e dal suffisso -ie. La quasi contemporaneità con cui il termine si attesta in inglese e in italiano testimonia la grande permeabilità ai forestierismi, e in modo particolare agli anglismi, del milieu linguistico da cui selfie proviene: la lingua del web e dei social network.

Sulla rete anglofona la parola inizia infatti a circolare nei primi anni 2000. La prima apparizione lessicografica è del 2005, quando viene registrata dagli utenti di Urban Dictionary (un famoso dizionario in rete compilato dagli utenti stessi) nella grafia selfy: questo ne conferma l’utilizzo già diffuso in precedenza, in particolare sui siti e social network che allora permettevano di condividere foto (Flickr e MySpace). Presente dal 2009 in Wiktionary (altro dizionario controllato direttamente dai lettori), è stata recentemente registrata come neologismo (agosto 2013) ed eletta “parola dell’anno” dagli Oxford Dictionaries. È ragionevole ipotizzare che selfie si sia ugualmente, ma con un lieve ritardo, diffuso tra gli utenti italiani dei social network fino alla prima attestazione giornalistica in rete (su “Vanity Fair” l’8 dicembre 2012), per poi approdare alla carta stampata e agli altri mass media (radio, televisione) nel corso dell’estate 2013. […] Selfie non è un sinonimo perfetto di autoscatto, come del resto in inglese non lo è di automatic shutter release né di self-shot o self-portrait: come suggerito dagli Oxford Dictionaries Online, il termine indica una fotografia scattata a sé stessi e tipicamente senza l’ausilio della temporizzazione, con uno smartphone o una webcam, destinata a essere condivisa sui social network. Non è un caso, infatti, che la pratica del selfie abbia avuto un boom di diffusione in contemporanea con l’introduzione della telecamera frontale negli smartphone»1.

Riassumiamo, il selfie non è un autoscatto fotografico, è una pratica recente e strettamente legata ai nuovi dispositivi tecnici di produzione (smartphone con camera frontale) e al contesto di diffusione (reti sociali). Il soggetto del selfie è anche il suo produttore (e il suo promotore), malgrado le differenze con l’autoscatto tradizionale, possiamo comunque considerarlo un autoritratto? Si pone in continuità con questa pratica secolare? Forse sì, se si considera il problema guardando il singolo scatto, l’apparire puntiforme dell’immagine: c’è un soggetto che, attraverso uno strumento tecnico e un’elaborazione linguistica (pittura prima, fotografia poi), si guarda, si riconosce e nomina. Ma per circoscrivere il selfie come forma dobbiamo partire dalle circostanze, dai contesti, dalle modalità della sua produzione cioè da quello che lo identifica con più nettezza. 

Il selfie è comunemente interpretato come un esercizio di narcisismo: c’è un soggetto che si guarda e che condivide tramite le reti sociali questo suo guardarsi, è come se mostrasse il suo stesso guardarsi – un ritratto dell’autoritratto, un ritratto al quadrato. È questa la lettura che viene applicata dagli psicologi che guardano ai fenomeni sociali, è un modo per ricondurre la faccenda in una sorta di patologia collettiva che, per essere compresa e “curata”, ha bisogno, guarda caso, proprio degli psicologi! Evidentemente la pratica del selfie non può essere liquidata come un semplice esercizio di narcisismo (è anche di un esercizio di narcisismo).

Il genere dell’autoritratto ha radici profonde e complesse e il selfie può tranquillamente essere letto come un esito contemporaneo di tale tradizione. Sul tema rimando all’articolo Dall’autoritratto al selfie pubblicato su Doppiozero2 in Marco Bonini afferma come il selfie sia prima di tutto una pratica sociale, di diffusione e affermazione pubblica del sé. Un selfie viene scattato per essere condiviso sui social network, per circolare. Con il selfie si esce dallo spazio privato e ci si immerge nel mondo, Bonini nota con acume come un selfie sia, in ultima analisi, una performance.

Il termine performance, entra nel linguaggio dell’estetica negli anni Settanta e ha, come sappiamo, contorni precisi. La performance artistica nella prospettiva della neoavanguardia e anche in quella che viene praticata oggi, ha decisamente una dimensione auto-narrativa, di rappresentazione e invenzione del sé che può essere messa in risonanza e continuità con la tradizione del ritratto così come si è sviluppata in occidente a partire da Quattrocento. Su questo punto si possono costruire relazioni e nessi e intendere il selfie come uno sviluppo collettivo del ritratto, un impiego dell’autoritratto per la definizione del contorni sociali dell’io. Si può far rientrare il selfie in quel grande dispiegamento di scritture del sé che proliferano in rete: blog, facebook, instagram, canali youtube, ecc. in cui le persone si raccontano e raccontandosi si definiscono come soggetti.

La scrittura intima, diaristica è stata una parte fondamentale della costruzione del sé moderno (come i pensieri di Pascal o lo Zibaldone di Leopardi) ed è connessa a molte pratiche creative che hanno definito il nostro tempo, è importante notare che questa elaborazione è privata, solitaria e quindi – e non sempre, non necessariamente – pubblica. Al contrario, le pratiche connesse alla rappresentazione del sé in rete, sono – come fa notare Bonini – più che altro strategie di auto-promozione, operazioni per aumentare il proprio valore nell’economia dei sistemi di comunicazione, cioè pratiche di self-marketing piuttosto che processi in cui si cerca di definire il proprio sé in “auto-nomia” ed è questo il punto in cui si crea una cesura netta con la tradizione secolare dell’autoritratto: non è la dimensione auto-narrativa quella più importante ma quella auto-promozionale, il selfie non è auto-rappresentazione ma self-marketing (indicativi in questo senso i manuali per l’utilizzo del selfie in chiave economica usciti recentemente).

Questo aspetto è rilevato anche da Valentina Tanni nel libro Memestetica in cui si analizza gli esiti contemporanei della iper-produzione di immagini nella galassia internet: «Bollati da alcuni come semplici derive narcisistiche, i selfie rappresentano molto di più: la volontà di inserire se stessi nel racconto, di dare un volto alle storie di costruire e governare la propria immagine e, con essa la percezione della propria personalità. […] La scelta di “metterci la faccia” fa parte di una nuova attitudine al personal storytelling. E non è un caso che i selfie siano il tipo di scatto che raccoglie il maggior numero di like e commenti: il nostro cervello è programmato per reagire alla vista di un volto umano, la più antica (e ancora la principale) interfaccia di comunicazione»3.

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1 Dizionario on-line dell’Accademia della Crusca.

2 Bonini, Dall’autoritratto al selfie. Su Doppiozero, rivista on-line

3 Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte. Nero, Roma, 2021. p. 195.

POV

Qualche passo estratto da un blog rivolto ai genitori, in cui si cerca di spiegare in modo semplice le cose, a volte incomprensibili, che i giovanissimi fanno o guardano sui social: «Come intuibile, POV è un acronimo. La versione estesa è infatti Point of View, “punto di vista”, dunque un concetto piuttosto semplice e banale, che però sui social ha assunto un significato ben preciso. All’interno del mondo social, in particolare Instagram e Tik Tok i POV sono dei video – spesso contrassegnati dall’hashtag #pov – in cui si imitano personaggi famosi o categorie stereotipate di persone esagerandone gesti, atteggiamenti e discorsi in chiave ironica, sfruttando la ripresa in prima persona per simulare lo sguardo dello spettatore, il quale viene così invitato ad assumere il punto di vista suggerito dalla didascalia». Computer magazine aggiunge: «Solitamente la dicitura si trova sotto commenti abbastanza ironici, dai tratti esagerati, gonfiati per far parlare e ridere chi se li ritrova davanti. Ma se vogliamo cercare un significato più profondo, possiamo dire che POV è una sorta di grido ad avere una propria opinione, in un campo dove averne una molto spesso ci manda alla gogna».

Quindi, sintetizzando, fare un POV significa, prima di tutto, assumere un punto di vista per sovvertirlo; irridere e destrutturare una forma sociale o un atteggiamento con l’umorismo e, attraverso quest’opera di riassestamento giocoso del senso comune, liberare spazio per l’espressione non condizionata delle proprie opinioni. Sintetizzando ulteriormente: l’umorismo è lo strumento per la sovversione e la liberazione. Siamo ancora in casa dei surrealisti.

Ma perché lo humor era centrale nell’estetica surrealista? Rispondiamo citando Gilles Deleuze: «Ma a che servirebbe la legge morale, se essa non santificasse la reiterazione, e soprattutto se non la rendesse possibile, conferendoci un potere legislativo da cui ci esclude la legge di natura? […] L’uomo di dovere ha inventato una “prova” della ripetizione, ha determinato ciò che poteva essere ripetuto dal punto di vista del diritto.[…] La prima maniera di rovesciare la legge è ironica, e l’ironia vi appare come un’arte dei princìpi, del ritorno verso i princìpi e del rovesciamento dei princìpi. La seconda è lo humor, che è un’arte delle conseguenze, delle discese, delle sospensioni e delle cadute»1.

Dunque: la singolarità contro la generalità che fa la legge, legge che si produce nella reiterazione; la singolarità si crea rompendo con la legge, rovesciando, trasgredendo e facendosi beffe della legge e, quando questa ci dice di vedere un oggetto, una forma, una prassi non vedere quell’oggetto, quella forma, quella prassi ma, al contrario, qualcosa di imprevisto e non omologato; qualcosa che irrompe e sospende. Secondo Deleuze lo humor è un’arte delle conseguenze impreviste derivanti da uno spostamento di sguardo, di pensiero (come il ready-made che è ugualmente un’arte delle conseguenze inattese derivanti da un cambio di designazione e di luogo, da una sospensione di identità).

Non a caso, lo humor è stato lo strumento prediletto dai dadaisti e da Duchamp in particolare. Attraverso lo humor Duchamp rovesciava le convenzioni e metteva sotto una diversa luce le icone consacrate dall’abitudine e dalla tradizione (un esempio per tutti, la Gioconda baffuta), quelle icone che ormai non ci è dato di vedere con uno sguardo personale e non omologato dal gusto socialmente accettato. Nella storia dell’arte d’avanguardia lo humor – come pensiero e come pratica – appare raramente, era sconosciuto ai facinorosi e pomposi futuristi (eccetto che all’eccentrico Palazzeschi); sconosciuto anche ai cerebrali pittori cubisti; impossibile da coltivare nell’idealismo pragmatico del Bauhaus o del De Stjl; estraneo al vitalismo sofferto e romantico degli espressionisti. Lo humor era invece una parte essenziale della vita artistica dei dadaisti e diventerà centrale nella teoria e nella pratica dei surrealisti. Così testimonia Hans Richter: «Superiori alla folla dei filistei, perché forti della nostra capacità di vedere la realtà sia dall’esterno che dall’interno… ridevamo di cuore. Distruggevamo, maltrattavamo e schernivamo… – e ridevamo. Ridevamo di tutto. Ridevamo di noi stessi, come dell’imperatore, del re e della patria, delle pance piene di birra e dei poppatoi. Per noi ridere era una cosa seria; soltanto il riso poteva garantirci quella serietà con la quale conducevamo la nostra lotta contro l’arte e verso quella meta che era la scoperta di noi stessi. Ma la risata era soltanto l’espressione della nuova maniera di vivere non ne costituiva il contenuto e il fine. Confusione, distruzione, anarchia, opposizione, – perché avremmo dovuto rinunciarvi?»2.

Tutta l’estetica surrealista consiste nella sovversione dei “punti di vista” e nell’acquisizione di uno sguardo strabico, dissociato, rovesciato, con una predilezione per il paradosso e il grottesco; una predilezione che ritroviamo intatta e freschissima, sebbene inconsapevole, in molte strane attività che milioni di utenti praticano quotidianamente on-line. 

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1 Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione. A cura di Giuseppe Guglielmi. Cortina, Milano, 1997. pp. 11-12

2 Hans Richter, Dada arte e antiarte. Mazzotta, Milano, 1966. pp. 78-79